“Ti taglierò le trecce”
"Ghiak" e una raccolta di racconti, pubblicata da Antipodes, i cui protagonisti sono soldati greci arvaniti che hanno combattuto durante la guerra greco-turca del ’19-’22. Michele Cortese ha tradotto e proposto ad OBC uno di questi, ispirato da una canzone arvanita
Visto che me l’hai chiesto te ne parlerò, Andonis. Te lo devo, dato che sono venuto a casa tua a chiederti quello che ti ho chiesto. Ma devi promettere che quanto dirò rimarrà in questa stanza. Deve restare tra me e te. Non è che mi vergogno, ma è meglio che non si sappia in giro. Preferisco così. Porta pazienza e capirai il perché.
Mia sorella Sirmo te la ricorderai. No, aspetta, non dico per quello. Fammi parlare. Sirmo e io eravamo i più piccoli. In realtà c’era anche Christòforos, ma è morto che aveva un paio d’anni, riposi in pace, e non abbiamo neanche fatto in tempo a considerarlo nostro fratello. Io e Sirmo eravamo i più vicini d’età. Vedi, Stamatis e Vassilis mia madre li ha fatti molto presto, e io sono nato che loro erano già uomini fatti. Noi eravamo gli ultimi arrivati, io e Sirmo. Lei aveva quattro anni più di me, era una ragazzina, e si è occupata di me più di chiunque altro. Voglio dire, mi ha letteralmente cresciuto. Mia madre e mio padre se ne andavano a lavorare con gli altri fratelli e mi lasciavano con Sirmo, perché la nonna, buonanima, aveva iniziato a perdere la vista e non era più molto affidabile. Se penso a quand’ero piccolo, ricordo che era sempre Sirmo a darmi da mangiare, a farmi il bagno, a pulirmi il culo, a mettermi a letto. E io ero un bambino difficile, scorbutico. Stavo sempre a lagnarmi. Ma lei non mi ha mai rimproverato. Non ha mai fatto la bambina, non m’ha mai mandato al diavolo. Era sempre paziente, mi parlava sempre con dolcezza. Mio piccolo Takis, mio piccolo Takis. Come una madre. Pensa, una volta che mia madre mi stava picchiando, non ricordo neanche perché, Sirmo si mette in mezzo e dice, mamma, lascia stare il ragazzino, è piccolo, non sa quello che fa. E a mia madre saltano i nervi e inizia a picchiare Sirmo. Tu non devi alzare la cresta, le dice. E Sirmula non si è lasciata scappare un lamento. Quando la sera eravamo a letto, Sirmo mi ha abbracciato e mi ha detto, non preoccuparti, mio piccolo Takis, io sono grande, sono una donna, e non mi faccio male se la mamma mi picchia. Sì, te lo giuro sulla croce, m’ha detto proprio così. Insomma…era anche lei una bambina. Avrà avuto dodici o tredici anni al tempo, ma era così comprensiva, così in gamba, che sembrava una donna adulta. Ricordo la zia Dina che diceva sempre a mia madre, Pagona, questa qua vale così tanto che la dote non ve la chiederanno, la daranno a voi. Per fartela breve, da piccolo le stavo sempre appresso. Con una mano facevo una cosa e con l’altra cercavo di aggrapparmi alla sua gonnella. E anche da più grande le stavo sempre intorno. Così, un giorno lei mi ha preso e mi ha detto vattene a giocare con gli altri ragazzini. Cosa sei, una bambina, che stai sempre a gironzolare intorno al telaio? Quelle parole mi hanno offeso così tanto che non le ho più rivolto la parola, io che mi legavo tutto al dito. Ma, vedi, ho capito che lo ha detto per amore. Quando lei era in età da marito e io ero ormai quasi un adulto eravamo ancora inseparabili. E la mia povera mamma diceva, anche se muoio stanotte, me ne andrò serena, visto che i miei figli sono così uniti. Perché se sono cresciuto e mi sono fatto uomo, Andonis, lo devo a Sirmo.
Una sera torno da Liumlia dov’ero andato a dare da bere alle bestie. Entro in casa e come al solito aprendo la porta chiamo Sirmo e le dico di apparecchiare. Non mi risponde, la chiamo di nuovo. Niente. La casa è deserta. Non ci sono né Sirmo, né mia madre, né mio padre. Esco di nuovo in cortile, la chiamo ancora, nessuna risposta. Guardo nel fienile, nel gabinetto, nei posti dove pensavo potesse trovarsi e in quelli dove non avrei mai pensato di trovarla. Dicevo come può essere, è notte fatta e non è ancora tornato a casa nessuno? Vado a bussare alla porta di mia zia nella casa accanto, anche lì non c’è nessuno, e nemmeno nella casa vicina. Inizio a preoccuparmi. Vengo preso da un vortice di pensieri. Mi domandavo, cosa sarà mai successo, che tutte le case sono deserte? E subito dopo mi dicevo, non preoccuparti, torneranno presto, è già tardi, non dovrai aspettare molto. Ma ormai era scuro fitto e non si era ancora fatto vedere nessuno. Ed ero lì che pensavo di andare a chiedere notizie al kafenìo per capire se era successo qualcosa di grave, o se invece erano andati tutti in chiesa, quando sento aprirsi la porta ed entra mio padre con tutti i suoi fratelli, e dietro mia madre con mio zio, e dietro Vassilis e Stamatis con le mogli. Insomma, c’era la famiglia al completo e stavano tutti a testa bassa, sembrava un funerale. Hai visto Sirmo?, mi chiede mio padre prima che io riesca ad aprire bocca. Che stai dicendo?, gli rispondo. Sirmo è uscita all’alba per andare a prendere l’acqua alla fonte. Io sono stato tutto il giorno a Liumlia. Cosa posso saperne io di Sirmo? E mio padre mi dice che Sirmo è scomparsa da quella mattina. Quando si sono accorti che stava tardando, hanno chiesto in giro, ma nessuno l’aveva vista, e l’hanno cercata fino a sera. Sono andati alla fonte, a Panaghià, sono arrivati fino a Chuni, ma di Sirmo nessuna notizia. Appena ho sentito quelle parole mi sono sentito male. Ho dato di matto e mi sono messo a strillare. E allora perché sei tornato, vecchio?, dico a mio padre. Mia sorella si è persa e tu torni a casa? Prendi due torce e andiamo, e che nessuno torni prima di aver trovato Sirmo. Avevo sedici anni ma mi consideravo già un uomo fatto, e se anche lo fossi stato, tu lo sai meglio di me, non si parla così al proprio padre. Nessuno mi ha detto niente, né lui né nessun altro, anche se in un’altra occasione mi avrebbero picchiato per quello che avevo detto, senza mostrare alcun rispetto. Però vedi, avevo ragione, e poi sapevano che volevo molto bene a Sirmo. Mi hanno risposto con calma e mi hanno spiegato che non serviva a nulla uscire di nuovo di notte. Avevano avvertito il compare di mio fratello Vassilis che era cacciatore e aveva i cani, e la mattina avremmo iniziato di nuovo le ricerche guardando anche sotto i sassi finché non avremmo ritrovato Sirmo. Poi si sono seduti e hanno apparecchiato, ma nessuno aveva appetito e nessuno diceva una parola, tranne che per stabilire da quale punto ognuno avrebbe iniziato le ricerche il giorno dopo e quali zone battere. Io non parlavo e non mangiavo, pensavo e ripensavo a cosa poteva essere successo e al motivo per cui Sirmo non era tornata a casa. Quante cose orribili mi sono passate per la testa! Ma non potevo crederci e alla fine mi sono detto, si sarà rotta una gamba, non può muoversi e sarà terrorizzata da qualche parte ad aspettare che noi la troviamo. E così mi sono calmato un po’ e sono riuscito ad addormentarmi.
Mi sono alzato all’alba, per primo, e ho svegliato subito gli altri, impaziente di riprendere le ricerche senza perdere un minuto di più. Vassilis è andato a prendere il compare e i cani da caccia e siamo usciti tutti insieme, poi ci siamo separati e abbiamo preso quattro direzioni diverse. Quando il sole era alto nel cielo e iniziava a picchiare io, Stamatis e mio zio Nikos eravamo arrivati quasi a Limniona, e avevamo cercato dappertutto lungo la strada. Ci siamo detti, arriviamo fino al mare, facciamo un giro sulla spiaggia e poi torniamo ad Ai Lias per incontrarci con mio padre e l’altro suo fratello, Fanis, per vedere se qualcuno è riuscito a trovare Sirmo. Arrivati ad Ai Lias non troviamo nessuno. Ci sediamo ad aspettare, discutiamo ancora su quale zona perlustrare dopo, il tempo passa, arriva mezzogiorno e non si è fatta vedere un’anima viva. Mio zio dice, andiamo dove stanno cercando loro, li incontreremo lungo la strada.
Partiamo di nuovo e prendiamo il sentiero dietro ad Ai Lias con il cane sciolto che ci precede per tutta la strada e noi che controlliamo ogni nascondiglio della zona. Arrivati al bivio tra il paese e il monastero sentiamo alcune grida alle nostre spalle. Il cane abbaia, io mi metto a correre verso le grida, e vedo mio padre e l’altro mio zio seduti a terra dietro un lentisco. Gli corro incontro e mentre penso di dirgliene quattro per non essersi fatti vedere ad Ai Lias, noto Sirmo sdraiata a terra, il viso coperto di sangue. Mio padre si era tolto la giacca e l’aveva coperta con quella, mio zio era lì accanto e teneva in mano le trecce tagliate di Sirmo, che pendevano come due serpentelli morti. Corri in paese, mi dice mio zio, vai a prendere il cavallo e porta una coperta, e dì al medico di venire qua. Detto fatto e arrivo in paese dopo una corsa a gambe levate. Quando sono tornato indietro erano arrivati anche tutti gli altri e da lontano sentivo il pianto di mia madre e i cani che ululavano. Scendo da cavallo e faccio largo al medico e mi precipito assieme a lui accanto a Sirmo e vedo che inizia a palparla e a tastarla. E mi dicevo, Madonna mia, falla guarire e lasciala vivere e ti prometto che mi faccio frate, basta che Sirmo stia bene. Ma non era destino. Il medico dice, la ragazza respira appena. La testa, gli organi, è tutto un macello. È conciata molto male e da sola non può guarire, e io non posso fare più niente. È un miracolo che fosse ancora viva quando l’avete trovata, se tentate di trasportarla al paese non sopravviverà. Se volete posso farle un’iniezione per il dolore, ma lasciatela qui, non fatela soffrire ancora.
Siamo rimasti là e la riempivamo di carezze e l’abbracciavamo ma non riuscivamo a consolarci, perché piangevamo la sua morte mentre lei era ancora viva. Non riuscivo a dirle una parola, provavo solo a rinfrescarle il viso con un fazzoletto, e quando ha iniziato ad agonizzare per il dolore e l’afa l’ho baciata e mi sono detto, ahi madre mia, ahi cuore mio, basta così, vatti a riposare. Come se mi avesse sentito, Andonis, come se avesse capito perché la stavo guardando negli occhi in quel modo, perché io per lei ero come un figlio e mi conosceva alla perfezione, ha esalato l’ultimo respiro e il suo corpo si è rilassato. Hanno dovuto prendere in braccio anche me con lei, perché non mi reggevano più le gambe, e del ritorno ricordo solo che camminavo vicino al cavallo e le stringevo la mano e le sue dita diventavano sempre più fredde.
Non serve raccontarti il resto. Ogni volta che ricordo questa storia divento di nuovo orfano. Comunque, sai bene che hanno detto che Sirmo non è morta per una caduta. Qualcuno l’ha incontrata lungo la strada e l’ha violentata. Questo è sicuro. E credendola morta le ha tagliato le trecce e le ha gettate tra i cespugli di lentisco. È li che mio zio le ha ritrovate. Eh, insomma, quando l’ho saputo ho giurato che avrei trovato l’assassino. Sono tornato nel posto dove avevano ucciso mia sorella e ho preso la pietra su cui aveva poggiato la testa e ho giurato sulla pietra che avrei ammazzato l’assassino e avrei nascosto il suo cadavere in un posto dove neanche le bestie sarebbero riuscite a trovarlo. Proprio come lui aveva fatto con Sirmo.
Nei due anni tra la morte di Sirmo e la mia partenza per l’Asia Minore non ho mai smesso di pensarci. Andavo a lavorare nei campi, con gli ulivi, con le pecore, andavo al caffè, in chiesa, e mi guardavo sempre intorno per cercare di cogliere qualche particolare importante, di ascoltare una conversazione segreta, hai visto mai riuscivo a trovare l’assassino. I miei fratelli dicevano che era stato un forestiero, che un paesano non avrebbe mai potuto fare una cosa simile. Dovevo smetterla di farmi rodere da questo tarlo, prima o poi mi avrebbe consumato. Ma io sapevo che non era stato un forestiero. Lì dove l’abbiamo trovata non c’è nessuna strada che va verso altri paesi, capisci? Quella non è una zona di passaggio, devi andarci di proposito. E chi l’ha fatto lo sapeva, per questo l’ha nascosta lì. Non voglio stancarti, non importa. All’epoca non riuscivo a darmi pace. Poi sono partito.
In Asia Minore all’inizio ero nelle retrovie. Dopo un po’ hanno spedito al fronte anche la mia unità. Non credere fosse poi così terribile. I Turchi erano in fuga. Ogni tanto sparavamo due fucilate qua e là quando ci imbattevamo nei Çetes (1) rimasti, ma non c’erano grandi pericoli. Però era una guerra feroce. Avevamo l’ordine di cacciare i Turchi dai paesi della zona, e non è una cosa che puoi fare con gentilezza. In altre parole, abbiamo raso al suolo tutto e sparso il sale sulle rovine. Nessuno, Andonis, ti dirà mai cos’ha fatto laggiù, ma non eravamo più esseri umani. Ogni tanto per strada incontro qualcuno di quelli tornati indietro con me e penso a ciò che i miei occhi gli hanno visto fare e mi vengono i brividi. Ma non ho fatto anch’io le stesse cose? Solo che non ho mai dato fastidio alle donne. Non che non ci pensassi, ma ogni volta mi veniva in mente mia sorella e non ce la facevo.
Ne ho viste così tante che alla fine ci ho fatto l’abitudine. Una volta però sono entrato in una casa con altri due compagni per cercare armi. Dentro c’erano solo due donne, una vecchia e una giovane. Madre e figlia. Gli ordini erano ordini, dovevamo cercare le armi nascoste e abbiamo messo tutto sottosopra per trovarle. Bugie. Volevamo solo cacciare via le donne e cercavamo una scusa. Esco con uno dei miei compagni e andiamo nella stalla e mentre uccidiamo gli animali sento delle urla provenire dalla casa. Ancora e ancora. Noi finiamo il nostro lavoro e come torniamo indietro vedo il terzo uscire dalla casa. Che è successo?, gli chiedo. Sorride e dice, cercava di scappare la puttana, ma l’ho conciata per le feste. Hai fatto bene, gli dico, ma proprio in quel momento noto le sue mani. In una teneva il coltello e nell’altra due trecce di capelli recise. Devi sapere che in quei casi era un’usanza. C’era chi tagliava i seni, chi usava portarsi via un brandello di vestito. Ma quella era una cosa che non avevo mai visto fare. Inizio a scaldarmi. Mi dico, sarà una mia idea. Capita ogni tanto di vedere qualcosa di insolito.
Sulla strada del ritorno vedo che butta le trecce in un cespuglio. Sento un brivido, come se mi avessero colpito al volto, e in quel momento decido di avvicinarlo, di conoscerlo. Non era molto difficile perché io, lui e altri nove eravamo dello stesso paese, e non sembrava strano a nessuno che fossimo amici. Con il tempo siamo arrivati a mangiare nella stessa gavetta, come dice il proverbio. Dividevamo ogni cosa. Ed eravamo sempre insieme. Pietro e Paolo, così ci chiamavano. E in questo modo ho conosciuto ogni suo comportamento, ogni suo gesto. Non riusciva proprio a nascondere la sua passione per le donne. Intendo le donne del posto, visto che puttane lì non se ne trovavano. Ogni volta che violentava una donna le tagliava le trecce. Ma non se le teneva, poi le buttava via sempre.
Quando ho visto cosa faceva e ho avuto la certezza, Andonis, ho pensato, devo ammazzarlo adesso, seduta stante. Vedi, eravamo in guerra e nessuno sapeva cosa sarebbe potuto accadere. Un giorno c’eri e il giorno dopo non c’eri più. Mi dico, devo sbrigarmi, anche se mi costerà la fucilazione. Volevo onorare il mio giuramento. E in quel momento ho pensato di spaccargli la testa sul posto, ma mi sono trattenuto, perché mi sono detto, meglio prima studiare un piano per stare sicuri. Metti che sbaglio qualcosa e il bastardo sopravvive. Perché se c’era qualcuno nei paraggi avrebbe fatto in tempo a togliermelo da sotto le mani e a salvarlo.
Non ci è voluto molto tempo per trovare l’occasione giusta. Un paio di giorni dopo ci hanno spedito a bruciare ogni casa di un paese vicino ad Alaşehir. Ci avevano ordinato di non lasciare pietra su pietra, di uccidere qualsiasi cosa si muovesse. Finiamo il lavoro e al ritorno mi avvicino a lui e mi invento una storia. Mi ha detto un Turco che aveva nascosto un po’ lire d’oro e che erano mie se lo lasciavo andare. E tu che hai fatto?, mi chiede il mio compagno. Gli ho detto ti lascio andare se mi dici dove sono, lui mi ha indicato il nascondiglio e io l’ho ammazzato. Dobbiamo andare a controllare. Certo, mi risponde. Tornati indietro, vado dal comandante e gli racconto la stessa storia e gli dico lasciaci andare e la metà è tua. Mi dà il permesso, prendo una corda e un paio di altre cose e riparto con il mio compagno per il paese. Lungo la strada era tutto contento, parlava di cosa avrebbe fatto con le lire d’oro, del terreno che si voleva comprare, della donna che avrebbe voluto sposare ora che era diventato ricco. Io facevo il vago e lo provocavo, saremo due prìncipi, mangeremo carne ogni giorno.
Arrivati sul posto mi chiede dove scavare. Non ce n’è bisogno, amico, gli rispondo. Non ci siamo mica portati le pale. Il vecchio ha nascosto le lire in un pozzo asciutto. Seguimi e vedrai. Lo precedo e arrivo davanti alla casa che avevo scelto quella mattina. Ecco, è qui, gli dico. Tu mi leghi con la corda, io scendo e quando trovo le lire mi tiri su. E così facciamo. Lasciamo le armi a terra, mi tolgo lo zaino e l’equipaggiamento e gli dico, passami la corda intorno alla vita e stringi bene il nodo, sennò si scioglie e casco di sotto. E appena lui si avvicina e apre le braccia per passarmi la corda dietro la schiena, gli spacco il naso con un bel cazzotto. Non gli lascio fare nemmeno un passo indietro, lo prendo per una spalla e gliene do un altro, e un altro, e un altro ancora e inizio a sudare. Appena sviene lo prendo e gli lego braccia e gambe dietro la schiena. Cerco di farlo rinvenire versandogli addosso un po’ d’acqua. A un certo punto apre gli occhi e cerca di bere. Ti sei scordato che le donne che hai violentato hanno mariti e fratelli, gli dico. E non hai avuto nessuna vergogna a diventare mio amico nonostante quello che hai fatto a mia sorella. Mi guarda come uno scemo. Che ti guardi?, gli dico. Non far finta di non capire. Lui inizia a mugolare qualcosa. Ma che dici, Takis, non so di cosa parli, cose del genere. Poi fa l’arrabbiato e dice che se lo libererò la pagherò cara. Gli arriva uno schiaffo e gli dico, non far finta di niente, hai fatto questo e quello a Sirmo. Ce n’è voluto di tempo per trovarti, ma ora non hai più scampo. Si mette di nuovo a dire che lui non ha fatto niente e che quando hanno ucciso Sirmo lui era a Megaplàtano con il padre a vendere delle pecore e che se tornavamo in paese potevo chiedere a lui per vedere che era la verità. Tu da qui non tornerai mai, gli rispondo, per una volta comportati da uomo e confessa, perché in un modo o nell’altro ti farò confessare prima di ammazzarti. E allora lui inizia di nuovo a frignare e a dire che non è stato lui a violentare Sirmo e giura sulle ossa di sua madre che è la verità.
Per anni, Andonis, ho aspettato il momento in cui avrei trovato la persona che aveva fatto tutto quel male a mia sorella. Per anni interi questo pensiero mi ha appesantito il cuore. E ora che avevo trovato questa persona, ecco che si metteva a disonorare mia sorella anche con le menzogne. Non sono riuscito a trattenermi. L’ho messo supino e gli ho spaccato tutti i denti uno a uno. E per ogni dente gli dicevo, confessa, confessa, dì cosa hai fatto. Il bastardo piangeva come una bambina e continuava a mentire, finché non ha capito che non lo avrei lasciato andare e allora mi ha detto, sì, l’ho ammazzata io. Ma non l’ho violentata. Lasciami andare e ti ripagherò per intero il mezzo sangue che ho versato, quando saremo tornati indietro. Lasciami andare e ti giuro che avrai ciò che stabilisce la Legge. E io gli rispondo, Sirmo non è mezzo sangue. Nje mam. Nje motr. Nje ghiak (2). Lasciami andare, mi dice, e ti prometto che te lo ripagherò come sangue intero. I soldi sono fatti per essere spesi, le case vanno in rovina, gli dico, po ghiaku, ghiaku vetet nje vitra (3). La Legge non dice così, ribatte. Nje vend çi jemi nani, Kanuni nuk zihet, gli rispondo, vieter vet, vieter thomi (4). Prendo dallo zaino il bastone che serve a pulire il fucile. Lo avevo temperato il giorno prima per appuntirlo come uno spiedo. Gli dico, voglio che tu muoia lentamente, non so se ci riuscirò ma ci proverò, e con il bastone lo colpisco cinque o sei volte ai polmoni, poi lo giro su un fianco e gli dico, bitu nanì i ghiak, kur to gordes, to te chos’ ni koprè (5). Mi sono seduto e l’ho guardato annaspare, apriva e chiudeva la bocca come un pesce fuori dall’acqua. Ci ha messo molto a soffocare e a morire, ma mi è sembrato comunque troppo poco, perché in quei momenti davanti agli occhi avevo solo Sirmula che soffriva tra le mie braccia nella canicola. Poi l’ho trascinato verso un mucchio di letame e l’ho seppellito lì sotto, lui e tutta la sua roba.
Quando sono tornato alla mia unità ho detto al comandante che alcuni Çetes che stavano cercando sopravvissuti ci avevano individuato e ci avevano attaccato. Io mi ero salvato per un pelo. L’altro era stato preso prigioniero e chissà cosa n’era stato di lui. Tutti sapevano che ero suo amico e non hanno sospettato nulla, e il comandante non ha fatto molte domande, perché era coinvolto anche lui e aveva paura di passare guai. Con tutto quello che è successo dopo, nessuno si ricordava più dove erano morti quelli che erano stati uccisi. Era un dimenticato tra i dimenticati. Uno dei tanti.
Tornato in paese tutti notavano la mia allegria, e pensavano che ero felice perché mi ero salvato. Era per quello, ma era anche perché ero riuscito a mantenere il giuramento fatto a mia sorella. Sono anche andato sulla sua tomba a dirglielo. Dormi, Sirmula, le ho detto. Stai tranquilla. Ho risolto tutto io. Ora puoi riposare in pace. E il giorno dopo ho invitato tutti, i miei fratelli e i miei genitori, alla taverna di Nidas a mangiare agnello per festeggiare, anche se loro pensavano che festeggiassi il mio ritorno. Lì il padre di quel bastardo si è avvicinato e mi ha detto: Hai per caso visto mio figlio laggiù? Tornerà? Sai dov’è ora? Tuo figlio è proprio nella merda, gli ho risposto, proprio là. È scoppiato un casino e ci hanno separato e lui mi ha urlato, tu non sei un essere umano. Tu sei kien i kieki (6). Da allora mi è rimasto appiccicato questo soprannome. Takis Kieni (6).
Ora, Andonis, sai tutto. Puoi decidere se darmi o no in sposa tua figlia. Quella che ti ho raccontato è la verità. Non ne vado fiero, ma non mi vergogno. Io ho fatto quello che pensavo fosse giusto fare per la mia famiglia. Tu pensa a cosa è giusto fare per la tua.
Nota dell’autore (p. 121)
Ντο τ’ α πρες κοτσσίδετε, εδέ τ’ ροβίτ γκα σκίνεζιτ
Σκόβα νια μενάτ γκατιέ, λιάχεσσε νι περγουλιέ
Λιάχεσσε, κρίχεσσε, με τ’ τούμουν ζίχεσε
Λιάχεσσε, τερτόνεσσε, ψε ντόε τ’ μαρτόνεσσε
Μόι κοτσσίδε ντρέδουρε, σα τ’ καμ τ’ μπιέδουρε
Μόι κοτσσίδε δραγκολιέ, τε τε κέσσε νι αγκαλιέ
Ντο τ’ α πρες κοτσσίδε γκλιάτετ, πο τσ’ τρέμπεμ γκα ιτ’ άτετ
Ντο τε βίνιε νόνια μπρέμε, πο τσε ντούρπεμ γκα γιοτούμουν
Ντο τ’ α πρες κοτσσίδετε, εδέ τ’ ροβίτ γκα σκίνεζιτ
Do t’ a pres kotsìdete, edè t’ rovìt ga skìnezit
Skova nia menàt gatiè, liàchesse ni perguliè
Liàchesse, krìchesse, me t’ tumun zìchesse
Liàchesse, tertònesse, pse doe t’ martònesse
Moi kotside drèdure, sa t’ kam t’ bièdure
Moi kotside drangoliè,
te te kese ni angaliè
Do t’ a pres kotside gliatet, po ç’ trembem ga it’ atet
Do te vinie nonia breme, po çe durpem ga ghiotumun
Do t’ a pres kotsìdete, edè t’ rovìt ga skìnezit
Ti taglierò le trecce e le getterò tra i cespugli
Passavo una mattina e ti ho visto mentre ti lavavi sotto il pergolato
Ti lavavi e ti pettinavi, litigavi con tua madre
Ti lavavi e ti facevi bella perché volevi sposarti
Trecce mie intrecciate, quante ne ho raccolte
Trecce mie, serpentelli, vorrei avervi nel mio abbraccio
Ti taglierò quelle lunghe trecce, ma mi vergogno di tuo padre
Volevo venire una sera, ma mi vergogno di tua madre
Ti taglierò le trecce e le getterò tra i cespugli
La canzone «Do t’ a pres kotsìdete» presta il titolo al mio omonimo racconto. È una delle canzoni d’amore più famose degli Arvaniti di Grecia e dunque ne esistono differenti versioni a seconda della zona di provenienza. La versione qui riportata proviene da Malessina, nella Locride. Ringrazio mio padre Dimitrios Papamarkos per avermela tramandata e per avermi aiutato nella trascrizione.
Nello stesso racconto si fa riferimento al Kanun. Il Kanun è un corpo di antiche leggi e di norme sul diritto consuetudinario che hanno regolato la vita delle comunità albanesi fino a tempi recenti. La differenza fondamentale con gli altri diritti consuetudinari è che il Kanun è stato codificato nel XV secolo da Lekë Dukagjini, evento che in qualche modo ha conferito a questo corpo di leggi un prestigio giuridico quasi ufficiale. Ancora oggi è in vigore presso le comunità dell’Albania settentrionale, anche se ha subito delle modifiche che ne hanno significativamente ammorbidito il carattere originario.
Il termine ghiak (sangue) svolge un ruolo fondamentale nel Kanun e ha un significato giuridico. Tra le altre cose, viene utilizzato per definire la «vendetta di sangue», «l’obbligo di una faida di sangue», ma anche il «sangue», inteso come prerequisito fondamentale per l’appartenenza giuridica dell’individuo a una determinata famiglia e a un determinato clan. In caso di omicidio, anche involontario, la famiglia della vittima ha il diritto – è obbligata – a chiedere giustizia per il sangue perduto, versando il sangue dell’assassino o di qualche altro membro di sesso maschile della famiglia di quest’ultimo. In alcuni casi, come per gli omicidi involontari, è previsto un risarcimento per la famiglia della vittima. Questo non vale nel caso dei delitti a sfondo sessuale. In questa circostanza l’onore della famiglia della vittima può essere riscattato solo versando il sangue dell’aguzzino.
Nelle comunità di Arvaniti in Grecia le questioni d’onore che hanno a che fare con il termine ghiak sono regolate da norme simili a quelle presenti nel Kanun. Ciononostante, il diritto consuetudinario di queste comunità non è mai stato codificato e non ha mai ottenuto il valore giuridico del Kanun delle comunità albanesi. Di conseguenza, è difficile individuare e provare con certezza qualsiasi rapporto con il Kanun albanese, visto che le analogie potrebbero essere il risultato dell’origine comune delle due tradizioni e dello sviluppo parallelo di comunità che hanno molte caratteristiche culturali in comune.
[Traduzione: Michele Cortese]
Note:
(1) Truppe di irregolari che combattevano con l’esercito turco, n.d.T.
(2) Una madre. Una sorella. Un solo sangue.
(3) Ma il sangue, il sangue dura per sempre.
(4) Qui la Legge non vale […] posti diversi, diverse usanze.
(5) Ora annegherai nel tuo stesso sangue […] e dopo che sarai morto ti seppellirò nel letame.
(6) Un cane nero.
(7) Takis il cane.
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