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Serbia, le elezioni dei perdenti

Alle recenti politiche in Serbia hanno perso tutti: ha perso il presidente serbo Vučić, perché si è squarciato il velo sul suo regime autoritario; ha perso l’opposizione perché il boicottaggio non ha portato a nulla; perde l’Ue perché dimostra sempre meno forza per favorire i processi democratici sul continente

02/07/2020, Florian Bieber -

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Sulla carta sembra che a vincere le elezioni sia stata un’unica persona. La sua faccia era ovunque, il suo nome era sulle schede sebbene non fosse candidato, e i sondaggi erano tutti vinti da lui. Aleksandar Vučić è apparentemente il vincitore delle elezioni parlamentari che si sono tenute in Serbia il 22 giugno. Sebbene il Presidente debba ufficialmente essere super partes, questa è stata chiaramente una vittoria assoluta per Vučić. Il suo partito ha ottenuto circa il 62% dei voti, corrispondenti a 191 dei 250 seggi (circa il 76%). La maggioranza apre così le porte alle modifiche costituzionali che consentiranno al regime, come è avvenuto in Ungheria, di adattare la Costituzione ai bisogni del partito al comando.

I suoi storici partner di coalizione, i socialisti (SPS), hanno ottenuto il 10,4% dei voti e 32 seggi, mentre l’Alleanza Patriottica Serba, il partito del sindaco di Novi Beograd Aleksandar Šapić, ha ottenuto 11 seggi, superando di poco lo sbarramento del 3% con il 3,64% dei voti. La soglia di sbarramento è stata abbassata dal 5 al 3% poche settimane prima delle elezioni, in un tentativo promosso dal partito al comando SNS di rafforzare la rappresentanza in Parlamento dei partiti più piccoli, con l’obiettivo di indebolire gli effetti del boicottaggio dell’opposizione.

I 16 seggi rimanenti sono andati a partiti delle minoranze. Gli unici oppositori nel Parlamento serbo sono tuttavia solo due parlamentari albanesi delle municipalità a maggioranza albanese di Bujanovac e Preševo, dato che i partiti delle altre minoranze hanno comunque collaborato con i precedenti governi del Partito progressista e Šapić non si è candidato contro il governo. È proprio questa vittoria schiacciante a trasformare il risultato in una sconfitta per Vučić. Un Parlamento privo di opposizione non può essere presentato come la legittimazione della democraticità del Presidente. Se tutti i 21 partiti e gruppi candidati fossero entrati in Parlamento, oltre ai gruppi di estrema destra e fascisti, o se anche solo qualche democratico e riformista in più avesse ottenuto un seggio, il Partito progressista avrebbe potuto presentare il Parlamento come pluralista. Ora non può farlo, e questo rivela la natura autoritaria del regime. 

Anche l’opposizione ha perso. Nonostante l’affluenza sia stata probabilmente più bassa di quella dichiarata ufficialmente, secondo l’ong che si è occupata del monitoraggio, CRTA, si è attestata attorno al 48%, 8-9 punti percentuali in meno rispetto alle elezioni parlamentari del 2016. Questo calo non è eccessivo, e può essere attribuito al Covid-19 e all’apatia degli elettori, piuttosto che all’opposizione. L’SNS ha spinto molto per aumentare l’affluenza alle urne e come osserva CRTA gran parte delle irregolarità sono legate a questo. Esponenti dell’SNS hanno chiamato gli elettori nel giorno delle elezioni per fargli pressioni e mandarli a votare. I partiti di opposizione che hanno optato per il boicottaggio sono riusciti solo a delegittimare i partiti dell’opposizione che vi hanno invece preso parte. Ad esempio, il Movimento di cittadini liberi di Sergej Trifunović ha ottenuto solo l’1,5% dei voti, mentre i Democratici uniti (UDS) hanno ottenuto meno dello 0,9%. Tuttavia, l’opposizione che ha boicottato le elezioni è tutt’altro che compatta. Il Partito democratico è diviso in fazioni interne che sono arrivate alla rissa nella sede del partito nel giorno delle elezioni. L’opposizione è poi un’alleanza nient’affatto semplice tra il gruppo di estrema destra Dveri, i fuoriusciti dal Partito democratico e qualche altro gruppo. Ora che è fuori dal Parlamento, l’opposizione è senza finanziamenti, senza una strategia e con pochi alleati e contatti internazionali, e dovrà affrontare un momento difficile.

Per finire, anche l’Unione europea ha perso. La Serbia è considerata, acriticamente, il paese favorito dell’allargamento europeo. Ora, l’UE deve fare i conti con un Parlamento non democratico e un regime la cui natura autoritaria diventa sempre più evidente. Una nota congiunta estremamente critica dell’Alto Rappresentante per la politica estera Josep Borrell e del Commissario europeo per l’Allargamento e la Politica di Vicinato Olivér Várhelyi sottolinea la limitata disponibilità di alternative per gli elettori e il dominio dei media da parte del partito al potere. I partiti europeisti hanno perso, e questa non è stata una sorpresa. I socialisti e progressisti hanno definito queste elezioni una beffa per la democrazia e hanno chiesto un rallentamento del processo di adesione, mentre Donald Tusk, del Partito popolare europeo, al quale appartiene l’SNS, si è congratulato con i vincitori dichiarando solamente “potere maggiore, maggiori responsabilità”.

Il processo di allargamento è seriamente minacciato da queste elezioni. La Serbia sta proseguendo nei negoziati per l’adesione da oltre sei anni, e nello stesso periodo la democrazia e i principi dello stato di diritto stanno retrocedendo in base a ogni indicatore e secondo qualsiasi organizzazione internazionale che si occupa di monitoraggio della democrazia (tra cui Freedom House, Bertelsmann Transformation Index, VDem Institute ed Economist Democracy Index). Le istituzioni europee, ad eccezione del Parlamento, non si sono espresse. Se l’Unione europea tornerà a negoziare con la Serbia dopo le elezioni come se nulla fosse, non solo incoraggerà ulteriori rafforzamenti dell’autoritarismo nel paese, ma anche in altri paesi della regione, come il Montenegro e l’Albania. Inoltre sembrerebbe in questo caso che l’Ue si batta non solo per tenere al proprio interno stati autocratici, ma anche per farne entrare altri, sebbene durante il processo di adesione vi siano più strumenti a disposizione per rafforzare i processi democratici.

L’Unione europea deve affrontare la Serbia per contrastare la sua deriva autoritaria. Nel 2014 l’Ue ha ignorato l’autoritarismo del governo Gruevski in Macedonia del Nord e l’eliminazione dell’opposizione. Solo lo scandalo seguito alle intercettazioni nel 2015 ha portato ad un maggiore coinvolgimento dell’Unione europea. Il rischio è che in Serbia le alternative politiche diventino sempre più euroscettiche, dato che il governo è sostenuto dall’UE e dai suoi stati membri e considerando che gran parte dei partiti è già contraria all’integrazione. 

Un maggiore coinvolgimento europeo avrebbe bisogno di diversi elementi: innanzitutto, un ruolo di mediazione tra il governo e l’opposizione sul modo in cui far rientrare l’opposizione nel processo politico, per contrastare alcune delle più gravi restrizioni alla democrazia. Poi, una missione volta ad accertare il rispetto dei principi dello stato di diritto, come è stato fatto nel 2015 con il rapporto Priebe, elaborato da esperti indipendenti che hanno identificato le priorità e le carenze sulle quali era necessario agire con le riforme. I partiti europei dovrebbero lavorare insieme sul tema della democrazia nei Balcani occidentali, piuttosto che trasformarla in una questione di appartenenza partitica. Dichiarazioni congiunte di europarlamentari appartenenti a partiti diversi potrebbero ridurre il rischio che l’autoritarismo venga ulteriormente facilitato da spaccature partitiche. 

Infine, la Commissione, il Parlamento Europeo e gli stati membri dovrebbero riconsiderare tutte le opzioni relative ai negoziati di adesione. Tra le opzioni c’è la non apertura di un nuovo capitolo negoziale, che sarebbe un segnale non molto forte [di fatto è quello che è accaduto nel frattempo, l’UE non ha ottenuto l’unanimità di tutti i suoi membri per l’apertura del capitolo 2, ndr] . Sarebbe più serio evocare la clausola di squilibrio, che è diventata parte dei negoziati di adesione otto anni fa. La clausola consente di congelare i negoziati su tutti i capitoli se non sono stati compiuti progressi significativi nell’ambito dello stato di diritto. La nuova metodologia, elaborata dalla Commissione in risposta al veto francese ai negoziati con la Macedonia del Nord e l’Albania offre poi ulteriori strumenti di pressione sui candidati. Si consente infatti agli stati membri di mettere in pausa i negoziati in determinati settori e di riaprire capitoli già chiusi, oltre alla possibilità di ridefinire l’ammontare dei fondi destinati a quei paesi. L’opzione più seria sarebbe quella di sospendere tutti insieme i negoziati. Sebbene al momento quest’ultima opzione possa essere controproducente, sarebbe opportuno prendere in considerazione le misure intermedie. La sospensione dei negoziati dovrebbe però essere una minaccia credibile, da affermare nel caso in cui il governo serbo non faccia progressi chiari e accertabili nel ripristino di istituzioni democratiche. Considerando che l’Unione europea ha molti strumenti a disposizione per far rispettare i suoi principi fondamentali nei negoziati di adesione, non utilizzarli significherebbe consolidare i risultati elettorali e perdere un’altra opportunità per la Serbia e l’UE.

Florian Bieber è coordinatore del gruppo di consulenza politica sui Balcani in Europa (BiEPAG) e Presidente di Jean Monnet per l’europeizzazione dell’Europa sud-orientale all’Università di Graz. Di recente ha pubblicato The Rise of Authoritarianism in the Western Balkans (Palgrave, 2020).

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