Serbia, la resa dei conti
Con il recente arresto di cinque membri dei famigerati “berretti rossi”, l’Unità per le operazioni speciali durante l’era Milošević, non solo la giustizia serba sembra finalmente fare il suo corso, ma si aprono anche possibili chiarimenti sull’omicidio del premier serbo Zoran Đinđić
“La giustizia può essere lenta ma almeno alla fine arriva” così scrive oggi sul settimanale Vreme Miloš Vasić, uno dei giornalisti più esperti sugli aspetti controversi della recente storia serba. E martedì 20 settembre la giustizia è arrivata con un mandato di arresto per cinque ex-membri della famigerata JSO, l’Unità per le operazioni speciali. Il ministro degli Interni Ivica Dačić ha fatto sapere di aver dato il via libera agli arresti di Veselin Lečić, ex assistente per la contro-informazione dell’JSO e oggi membro dell’Agenzia di sicurezza serba, la BIA, Mića Petraković e Vladimir Potić membri della Gendarmeria sezione anti-terrorismo, Dragan Krsmanović sempre della Gendarmeria e, secondo le informazioni ricevute dai media, anche Dragiša Radić, in pensione, al momento latitante.
L’arresto è avvenuto su richiesta del Procuratore nazionale per il crimine organizzato Miljko Radisaljević in seguito ad un esposto dell’avvocato della famiglia Đinđić, Srđa Popović, contro alcuni membri dell’JSO per la ribellione armata del novembre 2001, che fu il preludio, secondo Popović, e la causa, della pianificazione dell’assassinio del premier Zoran Đinđić del 2003. Nell’indagine sono sotto accusa anche Milorad Ulemek “Legija”, Duško Maričić e Zvezdan Jovanović, già in carcere condannati a 30 anni proprio per l’omicidio del premier democratico.
La rivolta dei “berretti rossi” del 2001
L’episodio del novembre 2001 è uno dei più complessi da comprendere della storia del dopo Milošević. La scusa per la rivolta fu l’arresto e l’estradizione al tribunale dell’Aja di due ex “berretti rossi”, come venivano chiamati i membri dell’JSO, i fratelli Banović. Estradizione contestata anche in forza del fatto che non esisteva una legge serba sull’estradizione verso l’Aja.
Ma la posta in gioco era molto più alta: si trattava di decidere chi comandava nella nuova Serbia democratica. Addirittura era in discussione l’esistenza da una parte della JSO e dall’altra delle istituzioni democratiche. Il timore di Milorad Ulemek Legija, non più comandante dell’Unità ma ancora capo indiscusso, era che il primo ministro Đinđić volesse smantellare la JSO.
I capi del clan mafioso di Zemun, fra cui Dejan Spasojević e Mile Luković “Kum”, che utilizzavano largamente l’Unità come una sorta di security contro altri gruppi e come collegamento informale con la polizia, appoggiarono la JSO in questo scontro frontale con il governo. D’altronde lo strapotere degli zemunci nell’underground belgradese derivava proprio dall’alleanza di ferro con il capo della JSO, Legija, stretta subito dopo l’uccisione di Željko Ražnatović Arkan.
Fu così che dall’8 al 17 novembre i “berretti rossi” scesero in campo bloccando in armi, con veicoli blindati, prima l’autostrada verso Novi Sad presso Vrbas e poi il ponte Gazela a Belgrado. Per la prima volta visibili, tennero addirittura una conferenza stampa in cui spiegavano le proprie ragioni e le proprie richieste. Zoran Đinđić che si trovava in visita negli USA, fu costretto a tornare in patria e iniziare una serrata e tesa trattativa alla fine della quale la JSO ottenne: la sostituzione dell’allora ministro dell’Interno, Dušan Mihajlović e del capo e vice-capo dei Servizi di Sicurezza Goran Petrović e Zoran Mijatović. Inoltre i “berretti rossi” riuscirono a far mettere a capo del Servizio di sicurezza uno dei loro uomini, Milorad Bracanović.
Lo Stato aveva perso. “Nessuno ha mai risposto della rivolta armata della JSO – ha affermato ieri Filip Švarm giornalista di Vreme – non sono a conoscenza di nuove prove in merito alla vicenda ma quello che è vero è che i berretti rossi all’epoca hanno ricevuto il 90 per cento di quello che avevano chiesto con la minaccia delle armi, e che nessuno ne ha mai risposto, né penalmente né con atti disciplinari”.
Il collegamento con l’omicidio Đinđić
“Quello che è successo nel novembre del 2001 ha determinato il futuro della Serbia”, ha dichiarato invece il vice premier Božidar Delić che all’epoca era membro del governo, “è importante per tutta la Serbia che si continui ad indagare il contesto politico che ha portato all’omicidio di Zoran Đinđić”.
La storia infatti ci racconta che dopo la rivolta della JSO il governo Đinđić iniziò a lavorare per troncare il legame – rappresentato proprio dall’Unità – tra Stato e mafia costruendo la procura e la legislazione contro il crimine organizzato e per questo fu ammazzato da un membro della JSO il 12 marzo 2003.
Gli arresti di questi giorni fanno capire che, nonostante siano passati dieci anni, ci sono ancora molti punti oscuri rispetto agli avvenimenti dei primi anni del dopo Milošević: chi era il mandante politico dell’assassinio del premier democratico? Chi sono i politici dietro la rivolta? Secondo il quotidiano Blic Veselin Lečić, ex vice dell’Unità per le operazioni speciali, sarà una importante chiave per capire. Lečić molto vicino sia a Ulemek che allo Zemun Clan venne arrestato durante l’operazione “Sablja” (l’operazione di polizia dopo l’assassinio di Đinđić) ma rilasciato subito per mancanza di prove.
Un nome che rimane per ora solo accennato è quello di Vojislav Koštunica, leader del DSS e all’epoca Presidente della Repubblica. Non era un mistero la rivalità tra Đinđić e Koštunica, e proprio quest’ultimo in occasione della rivolta della JSO si dimostrò molto – forse troppo – tranquillo. “I berretti rossi hanno bloccato solo il traffico”, disse allora Koštunica.
Ma sulle indagini per i mandanti politici dell’omicidio Đinđić è arrivata a solo pochi giorni dagli arresti la “bomba” mediatica delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia, Miloš Simović. L’ex membro del clan di Zemun avrebbe riferito di alcune riunioni a cui avrebbe partecipato assieme a Legija Ulemek, e durante le quali fu dato l’ordine di uccidere il premier democratico da parte di tale “Ćoki” . L’avvocato della famiglia Đinđić, Srđa Popović, sospetta che questo misterioso Ćoki possa essere niente di meno che Nebojša Čović, allora vice-premier, il quale però ha negato seccamente come fantasiose queste accuse.
Nella stessa dichiarazione scritta in cui Simović nomina Čović si fanno anche altri nomi di persone che sarebbero state a conoscenza dell’omicidio fra questi Vojislav Šešelj, Aco Tomić e Dragan Todorović. Alcuni mezzi di informazione, tra i quali il belgradese Blic, ritengono che le accuse a Čović siano fatte ad arte da Simović per avvalorare la propria posizione di collaboratore di giustizia ed ottenere sconti di pena. L’avvocato della famiglia Đinđić, Srđa Popović, d’altra parte ha puntualizzato e ricordato che Miloš Simović era un insider di quel connubio tra politica e crimine e che se fa dei nomi sarebbe opportuno indagarci sopra.
La ferita di Đinđić è insomma ancora aperta, il cambio di regime negli anni a cavallo del nuovo millennio non è stato indolore come era sembrato nell’esaltazione del 5 ottobre 2000. Ma al di là delle molte cose ancora da chiarire, gli arresti di martedì dimostrano che – oggi in Serbia – è più difficile restare impuniti.
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