Tipologia: Reportage

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Area: Serbia

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Serbia, la difficile uscita dal carbone

Lenta e difficoltosa la transizione energetica della Serbia: il carbone rappresenta ancora il 70% e l’idroelettrico quasi il 25%. Nonostante un notevole aumento registrato negli ultimi cinque anni, l’energia eolica e quella solare insieme superano appena il 3%. Un reportage

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(Originariamente pubblicato da Le Courrier des Balkans )

“Oggi in molti sono interessati allo sfruttamento del carbone in Serbia. Il nostro futuro si preannuncia nero”, lamenta Milan Radovanović, caposquadra in una delle enormi miniere a cielo aperto del bacino di Kolubara, gestite dall’Azienda elettrica della Serbia (EPS), e membro del direttivo della sezione locale del sindacato Nezavisnost [Indipendenza] responsabile del settore minerario ed energetico. Quando Radovanović, oggi sessantenne, iniziò a lavorare come minatore, la Jugoslavia socialista stava ormai sprofondando nell’abisso. Da allora ha conosciuto tutto: guerre, sanzioni internazionali e l’infinita transizione neoliberista.

Nel grande e fumoso ufficio del sindacato a Lazarevac, la principale città della regione di Kolubara, i colleghi di Radovanović, giovani e meno giovani, condividono le sue preoccupazioni. “Sappiamo bene che un approvvigionamento energetico stabile può basarsi solo sul carbone o sull’energia nucleare”, afferma uno dei presenti con aria sapiente, per poi precisare: “La Serbia non sfrutta l’energia nucleare, ma dispone di grandi riserve di lignite, quindi dovrebbe puntare su questa risorsa per garantire la propria indipendenza energetica. Lo abbiamo visto durante le sanzioni degli anni Novanta quando ci mancava tutto tranne l’energia elettrica”.

Il bacino del fiume Kolubara è una delle più grandi aree minerarie della Serbia, ad un’ora di macchina a sud di Belgrado. Le sue sei miniere di superficie forniscono oltre il 70% della lignite utilizzata nelle sei centrali termoelettriche del paese, costruite all’epoca della Jugoslavia socialista tra il 1956 e il 1987. Il resto del carbone viene dalla regione di Kostolac, ad un centinaio di chilometri ad est, verso il Danubio.

L’area del fiume Kolubara occupa un posto speciale nella recente storia serba. Fu in questo luogo che, nell’autunno del 1914, l’esercito del Regno di Serbia sconfisse per la prima volta l’Impero austro-ungarico. Quelle vittorie eroiche ben presto divennero simbolo dell’orgoglio nazionale, e ancora oggi vengono percepite come tali. Inoltre, tutti ricordano quel grande sciopero di decine di migliaia di minatori del bacino di Kolubara che contribuì in maniera rilevante alla caduta del regime autoritario di Slobodan Milošević il 5 ottobre 2000. Nonostante l’invio di ingenti forze dell’ordine e dell’esercito, i minatori non cedettero.

Anche oggi i minatori del bacino di Kolubara oppongono resistenza. Recentemente hanno avviato uno sciopero in risposta all’annuncio del governo guidato da Ana Brnabić di voler privatizzare l’Azienda elettrica della Serbia. Un’eventuale privatizzazione dell’EPS segnerebbe un primo passo verso l’apertura del mercato serbo alla concorrenza, come previsto dal processo di adesione all’Unione europea.

“La transizione energetica che l’UE vuole imporci non farà che impoverire ulteriormente la Serbia”, lamentano Milan Radovanović e i suoi amici.

Oggi in Serbia il costo medio di un kWh è di 0,09 euro, tra i più bassi d’Europa proprio grazie alla presenza delle miniere di lignite e delle centrali termoelettriche dell’epoca jugoslava, ma anche grazie al fatto che il paese non ha ancora introdotto alcuna tassa per limitare l’utilizzo di questo combustibile fossile altamente inquinante. Stando alle stime del sindacato Nezavisnost, se la Serbia dovesse perseguire l’obiettivo di decarbonizzare il mix energetico nazionale, ben presto il costo dell’energia elettrica potrebbe salire a 0,28 euro per kWh. “Considerando che lo stipendio medio mensile non supera i 400 euro, a breve non saremo più in grado di pagare le bollette della luce”, afferma Radovanović.

La fine del mito del carbone?

Sembra però che l’industria del carbone – che dovrebbe garantire la sicurezza energetica della Serbia – sia in cattive condizioni. L’anno scorso la leadership di Belgrado si era infatti trovata costretta a importare dai paesi vicini lignite ed energia elettrica per un valore complessivo di oltre un miliardo di euro per via di una serie di gravi incidenti avvenuti nelle centrali termoelettriche e nelle miniere di proprietà dello stato. A causare particolari danni è stato l’allagamento di una parte della centrale di Nikola Tesla a Obrenovac, che fornisce energia elettrica all’intera area di Belgrado. In quell’occasione l’allora ministra dell’Energia Zorana Mihajlović aveva puntato il dito contro “la cattiva pianificazione dell’EPS”, affermando che quei soldi potevano essere investiti in vari progetti legati alle energie rinnovabili.

Dopo quel disastro i prezzi dell’energia elettrica sono inevitabilmente saliti. A gennaio 2023 il prezzo è aumentato del 10% per kWh, ed è previsto un ulteriore aumento del 24% entro maggio 2024. Inoltre, è stato nominato un nuovo consiglio di sorveglianza dell’EPS per evitare – come ha spiegato la nuova ministra dell’Energia Dubravka Đedović – che si ripetano “gli errori degli ultimi trent’anni”. Il consiglio, composto da sette esperti, dei quali tre vengono dalla Norvegia, partecipa anche all’elaborazione di una nuova strategia energetica che la Serbia dovrebbe presentare entro la fine dell’anno.

Pur avendo la crisi del 2022 duramente intaccato il mito del carbone, in Serbia questo combustibile fossile continua ad essere percepito come una risorsa fondamentale. “Si ha l’impressione che siamo rimasti relegati al modello degli anni Settanta. Il problema però è che i tempi sono cambiati: oggi viviamo nell’era del cambiamento climatico”, afferma Mirko Popović, direttore dell’Istituto per l’energia sostenibile e l’ambiente (RERI), una delle più grandi ong ambientaliste della regione. Anche un esperto della delegazione dell’UE a Belgrado, che preferisce mantenere l’anonimato, è dello stesso avviso. “La Serbia è molto indietro” – spiega il funzionario europeo – “solo recentemente le autorità hanno finalmente capito che il carbone non ha futuro e che la transizione verde è inevitabile”.

Le scelte (non fatte) gravide di conseguenze

Sin dalla dissoluzione della Jugoslavia socialista, la Serbia ha perseguito la politica dello struzzo, attenendosi al motto “meglio un uovo (carbone) oggi che una gallina (energia eolica e solare) domani”. Il trauma delle sanzioni degli anni Novanta ha senz’altro contribuito a rafforzare questa strategia. Il risultato? A distanza di oltre tre decenni, il mix energetico serbo è rimasto quasi invariato: il carbone rappresenta ancora il 70% e l’idroelettrico quasi il 25%. Nonostante un notevole aumento registrato negli ultimi cinque anni, l’energia eolica e quella solare insieme superano appena il 3%.

La ministra Dubravka Đedović sostiene che in Serbia la quota di energie rinnovabili sia superiore alla media europea, dimenticando però di menzionare che il livello di emissioni legate alla produzione di energia elettrica è tra i più alti in Europa. La quota di emissioni di CO2 ha raggiunto il valore di 626 g/kWh, che corrisponde all’incirca al livello medio dei paesi dell’UE nel 1990 (641), quasi il doppio di quello attuale (334). Per quanto riguarda l’anidride solforosa, la situazione è ancora peggiore: stando ai dati diffusi dalla rete ambientalista Bankwatch, nel 2020 sei centrali termoelettriche della Serbia hanno emesso una quantità di anidride solforosa superiore a quella di tutte le centrali dell’UE.

In quello stesso anno la Serbia si è trovata tra i paesi più inquinati al mondo. Cercando di rassicurare la popolazione in preda al panico, il presidente Aleksandar Vučić ha affermato che l’inquinamento era conseguenza dell’aumento del tenore di vita dei cittadini serbi. Ad ogni modo, il costo sanitario dell’inquinamento causato dalle centrali a carbone è rimasto molto alto: gli esperti della rete Bankwatch lo hanno stimato in 2.326 morti e 666.939 giorni lavorativi persi per un totale di oltre cinque miliardi di euro. Tuttavia, la leadership serba ha continuato a ignorare questi avvertimenti e Vučić si è addirittura spinto a definire la rivolta ecologista del 2021 “una jihad verde”.

Quando poi il costo dell’energia ha iniziato a salire, il presidente serbo si è nuovamente dimostrato abile nel volgere la situazione a proprio vantaggio. “È vero che dobbiamo aumentare la quota di rinnovabili, ma la situazione attuale dimostra che abbiamo agito con saggezza decidendo di non chiudere le nostre miniere [di lignite]”, ha dichiarato Vučić, senza perdere l’occasione di puntare il dito contro "gli attori esterni" che avrebbero cercato di spingere la Serbia a “rinunciare alle ricchezze del suo sottosuolo”.

“Dai tempi di Milošević ascoltiamo gli stessi discorsi anti-occidentali”, osserva Mirko Popović della RERI. “Si afferma che l’UE vuole imporci i suoi valori, non solo sul piano della tutela dei diritti umani, ma anche per quanto riguarda l’economia e l’ambiente. Si continua a ripetere che il carbone è una risorsa sacra in Serbia, il fulcro del nostro settore energetico, di cui Bruxelles vorrebbe privarci. Ma anche il vento, il sole e l’acqua sono le nostre risorse nazionali. Per farlo capire ai cittadini occorre però reimpostare l’intera logica produttivistica ereditata dall’epoca socialista”.

La virata verso Pechino

Quando l’UE, il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale hanno deciso di smettere di finanziare progetti legati al carbone, la leadership serba si è rivolta alla Cina, un partner meno attento alla tutela dell’ambiente. Un accordo sottoscritto tra Belgrado e Pechino nel 2010 prevedeva l’ammodernamento della centrale termoelettrica Kostolac B, compresa l’installazione di un sistema di desolforazione e la costruzione di un nuovo blocco produttivo.

“Abbiamo guardato nella direzione sbagliata”, constata con amarezza Mirko Popović. “Oggi ci apprestiamo a inaugurare una nuova centrale a carbone, mentre tutto il mondo sta abbandonando questo combustibile fossile”. Era previsto che la centrale Kostolac B3 venisse messa in funzione nel 2020, ma il progetto, interamente finanziato e realizzato da aziende cinesi, ha subito notevoli ritardi. Dopo l’ultimo rinvio dell’inaugurazione, non è stata ufficialmente annunciata alcuna data, e la produzione probabilmente verrà avviata solo nella prima metà del 2024.

Sin dal suo lancio ufficiale nel 2014, il progetto della centrale Kostolac B3 ha suscitato molte preoccupazioni. Come osserva Just Finance International , il contratto solleva diverse questioni di legalità: non è mai stata organizzata alcuna gara d’appalto né tanto meno è stato realizzato uno studio di impatto ambientale prima dell’ampliamento della miniera di Drmno da cui si estrae il carbone utilizzato nella centrale, mentre le emissioni superano di gran lunga i limiti previsti dall’UE.

Secondo il think tank American Enterprise Institute, dal 2010 Pechino ha investito oltre 17,3 miliardi di dollari in Serbia nell’ambito della nuova “Via della Seta”, prima attraverso i prestiti, poi puntando sugli investimenti diretti, che si sono intensificati negli ultimi anni: nel 2016 il gruppo HBIS ha acquistato l’acciaieria di Smederevo, il principale esportatore serbo; due anni dopo, nel 2018, la compagnia Zijin Mining è diventata proprietaria dell’enorme miniera di rame a Bor, e infine nel 2022 l’azienda Linglong ha inaugurato a Zrenjanin la prima fabbrica cinese di pneumatici in tutta Europa.

“Pechino ha deciso di investire nel carbone in Serbia per garantire alle aziende cinesi una produzione di energia elettrica costante e a basso costo il più a lungo possibile”, sostiene Zvezdan Kalmar, direttore del Centro per l’ecologia e lo sviluppo sostenibile, e aggiunge: “Considerando tutti i ritardi accumulati, nessuno sa quanto sia effettivamente costato il progetto Kostolac B3. Quando verrà introdotta la nuova tassa sul carbonio dell’UE, questa centrale rischierà di trasformarsi in un enorme fardello finanziario per la Serbia”. Ad oggi la leadership di Belgrado non ha assunto alcuna chiara presa di posizione su questa questione. L’unica svolta positiva è che nella primavera del 2021 la Serbia ha abbandonato il progetto di costruzione della centrale Kolubara B. Era previsto che anche questo progetto venisse affidato ad un’azienda cinese.

Una transizione verde accelerata?

Pochi mesi prima della decisione di rinunciare alla costruzione di una nuova centrale a carbone, la Serbia ha aderito all’Agenda verde dell’UE. Questo documento, sottoscritto da tutti e sei i paesi dei Balcani occidentali candidati all’adesione all’UE, prevede di raggiungere la neutralità carbonica entro il 2050. Per Belgrado è certamente un obiettivo molto ambizioso, considerando la quota del carbone nel mix energetico serbo. Il paese però non ha altra scelta se non quella di orientarsi verso le fonti rinnovabili, anche perché le centrali a carbone serbe sono molto vecchie – l’età media supera i 50 anni. Vi è poi il problema dell’approvvigionamento del carbone. “La qualità della lignite estratta dalle miniere serbe continua a peggiorare”, sostiene un esperto della delegazione europea, precisando che “all’attuale ritmo di consumo, entro il 2050 le centrali elettriche non avranno più nulla da bruciare”.

Forse proprio per questo motivo nel febbraio di quest’anno, in occasione della presentazione di un progetto denominato Go Green Road, l’Azienda elettrica della Serbia ha annunciato l’intenzione di chiudere dieci impianti entro il 2035. Il summenzionato progetto, di cui non esiste alcuna versione scritta pubblicamente disponibile, dovrebbe fornire una tabella di marcia per la transizione verde della Serbia fino al 2050. La strategia annunciata prevede investimenti per un valore complessivo di 8,5 miliardi di euro da realizzare nei prossimi dieci anni così da garantire la sicurezza energetica del paese: 2,2 miliardi di euro saranno investiti nell’ammodernamento delle centrali a carbone, mentre 4,8 miliardi verranno destinati allo sviluppo delle rinnovabili. Ad oggi non sono stati rivelati ulteriori dettagli sul progetto di finanziamento.

“La Serbia non ha una bacchetta magica per cambiare il suo mix energetico da un giorno all’altro”, afferma la ministra Dubravka Đedović precisando che “per riuscire a portare avanti la transizione verde, la Serbia ha bisogno di un sostegno forte e costante dei suoi partner e delle istituzioni finanziarie internazionali”. In altre parole, senza massicci aiuti europei, siamo perduti. Stando alle stime della ministra, nei prossimi 25 anni la Serbia avrà bisogno di investimenti per un valore minimo di 32 miliardi di euro per poter raggiungere la neutralità carbonica.

Nel frattempo, la leadership serba, dopo anni di sollecitazioni da parte della Commissione europea, si è finalmente mossa per adottare il Piano nazionale per l’energia e il clima. Nel giugno 2022 è stata presentata una bozza della strategia da cui emerge l’intenzione di abbandonare progressivamente il carbone, impegnandosi a ridurre del 40% le emissioni di gas serra entro il 2030, aumentando di cento volte la quota di energia solare e di dieci volte quella di energia elettrica.

Si parla anche di grandi progetti idroelettrici sui fiumi Bistrica e Danubio. “Questi progetti fungerebbero da contrappeso alla produzione di energia eolica e solare che resta variabile”, spiega Nikola Rajaković, professore presso la Facoltà di Ingegneria Elettrica dell’Università di Belgrado. Un’altra questione su cui Belgrado dovrebbe focalizzarsi riguarda l’efficienza energetica. Stando ad un rapporto delle autorità statunitensi, in Serbia un’abitazione consuma circa 200 kWh, contro una media di 140 kWh nell’UE. Gli esperti ritengono che un migliore isolamento termico degli edifici possa portare ad un risparmio energetico del 30-40%.

“Le autorità della Jugoslavia socialista avevano deciso di passare al carbone negli anni ’50 e in soli tre decenni fu portata a termine la costruzione di tutte le centrali del paese. Dovremmo riuscire ad abbandonare il carbone con altrettanta velocità”, afferma Predrag Momčilović, esperto climatico della coalizione ambientalista Moramo entrata in parlamento dopo le elezioni del 2022. Momčilović sottolineando però che “nei Balcani occidentali è sempre difficile utilizzare il termine ‘transizione’ poiché tende a risvegliare brutti ricordi: la dissoluzione della Jugoslavia e l’impoverimento che ne seguì. Per questo le persone hanno così tanta paura di compiere una svolta radicale”.

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