Tipologia: Intervista

Tag: Cinema

Area: Serbia

Categoria:

Serbia in noir

Il ruolo del cinema nella società serba: intervista con Srdan Golubović, il giovane regista di "Klopka" (La trappola), film noir che riflette sul volto inquietante di una società in transizione

11/02/2008, Ana Luković - Belgrado

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La prima domanda è: quando è entrato nel mondo del cinema? C’è stato un evento o condizione particolare che ha portato a questa scelta?

Sono entrato nel mondo del cinema in modo naturale, praticamente dalla nascita, perché mio padre era un regista cinematografico. Non ho mai avuto dilemmi a questo riguardo, a casa mia si parlava solo di film e non ho mai pensato di fare un altro lavoro, sono stato una sorta di bambino prodigio e a quattro anni sapevo che avrei fatto il regista. Ho girato il mio primo film a 25 anni.

Naturalmente ho cominciato come aiuto regista, nel 1997, con il film Balkanski Pravila di Darko Bajić. Nel corso degli anni Novanta mi sono occupato anche di altri media, soprattutto televisione e video musicali, e questa esperienza mi è servita per utilizzare nel cinema le tecniche di questi mezzi di comunicazione. Questi sono stati i miei inizi.

Che significato ha avuto il cinema serbo fino al 1990? Qual era la sua importanza per il regime e per la società?

Penso che il cinema serbo abbia svolto un ruolo molto significativo negli anni Ottanta. È stato un periodo molto ricco, cominciato all’inizio degli anni Sessanta con Mladomir "Puriša" Djordjević e proseguito con i film di Saša Petrović, Živojin Pavlović e quella che chiamiamo la scuola cecoslovacca, con Marković, Kranović ed altri autori, tutti con personalità diverse.

Sotto Tito si era creata una situazione bizzarra, caratterizzata da una sorta di tacito accordo per cui la libertà non era completamente soppressa ed i finanziamenti andavano anche a registi e film molto critici nei confronti del regime, come Makavejev e Pavlović, che hanno girato film esplicitamente contro Tito con i soldi di Tito, per così dire. Era un sistema interessante, molto diverso dagli altri sistemi comunisti.

Lo stesso sistema si è ricreato sotto il regime di Milosević. Da un lato c’era un regime oppressivo, che però, dall’altro, non ha impedito al cinema serbo di essere coraggioso, di qualità e all’avanguardia, tanto da diventare il cinema più all’avanguardia dell’Europa Orientale. Cosa che ad esempio non è successa in altri settori artistici, dove non abbiamo personalità rilevanti come Petrović, Makavejev o, oggi, Kusturica.

E dopo la caduta di Milosević?

Quello è stato il periodo di gran lunga peggiore per il cinema serbo, a causa del taglio dei finanziamenti e della concorrenza dei film americani. La maggior parte dei film si è indirizzata su un filone intimista che ha portato al pubblico opere molto deboli. È stato un periodo difficile per molti autori, perché E molti ottimi autori hanno smesso di lavorare, frustrati da un trend che privilegiava esecutori di basso livello, mentre è stato un ottimo periodo per la mediocrità.

A partire dal 2000 è cominciato un periodo migliore, con una ripresa del cinema d’autore e la comparsa di una nuova generazione di autori, come Srdjan Koljević. L’organizzazione culturale sta lentamente tornando alla normalità.

Quali erano i temi che aveva più a cuore il regime? Sono cambiati nel tempo gli obiettivi, la propaganda, la censura?

Direi che sotto Tito la censura era moderata; certo era molto forte la concezione della funzione propagandistica del cinema. Con Milosević la situazione è scivolata nell’anarchia, non c’erano particolari piani da parte del regime. Il nuovo regime democratico, purtroppo, non ha un’idea né una politica culturale.

Che influenza hanno le leggi del mercato sul cinema serbo? Quali cambiamenti ha portato la transizione all’economia di mercato?

Penso che il cinema serbo non sia commerciale, ma debba puntare sul suo carattere d’autore. Ovviamente questo non significa ignorare il pubblico, ma educarlo. Non rifiuto l’idea di un grande progetto commerciale; un film può essere artistico e popolare, non sono concetti necessariamente opposti.

Paradossalmente, la transizione all’economia capitalistica ha riportato l’industria cinematografica al socialismo. Nell’Europa occidentale, l’arte riceve finanziamenti ed aiuti secondo il modello socialista. In questo modo, le persone possono trovare una certa libertà nel proprio lavoro.

Ed il cinema: come è sopravvissuto ai cambiamenti?

I primi anni Novanta vedono nascere l’idea di Europa unita. Anche in ambito cinematografico, si forma un’idea di cinema europeo, in contrapposizione all’imperialismo culturale americano. Lo stanziamento di fondi a sostegno del film d’autore ha dato libertà al cinema europeo. Questo è ovviamente positivo, anche se ha avuto conseguenze negative come il formarsi di piccole cinematografie autistiche.
Per quanto riguarda la Serbia, tuttavia, tutti i fondi erano bloccati a causa dell’embargo, e in quel periodo la maggioranza dei film proiettati erano stranieri.

Le cinematografie locali hanno mantenuto una loro centralità per il cinema mondiale. Come se lo spiega?

Da un lato, credo che le coproduzioni nascano da intenti commerciali più che politici. Dall’altro, il cinema dello spazio culturale balcanico è senz’altro all’avanguardia, e quindi attraente.

Che importanza hanno per il cinema balcanico l’UE e gli Stati Uniti?

L’Unione Europea fornisce un contributo molto importante per finanziamenti e scambio culturale. In particolare, il nostro cinema ha un legame molto forte con la Francia. Per quanto riguarda gli investitori americani, il loro cinema funziona secondo altri principi soprattutto commerciali. Si tratta di una filosofia molto lontana da noi.

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