Serbia e rifugiati: tutto (non) va bene
Una famiglia di rifugiati fatta scendere dalla polizia da un autobus e abbandonata in un bosco ad una temperatura di 11 gradi sotto zero, vicino al confine con la Bulgaria. Si è trattato di un tentativo di espulsione illegale?
Domenica 18 dicembre, nella giornata mondiale dei migranti, l’organizzazione serba Infopark che opera nel centro di Belgrado in supporto ai rifugiati che transitano per la capitale serba ha denunciato il tentativo di espulsione di una famiglia siriana verso la Bulgaria. Il caso riguarda un gruppo di 7 migranti, tra i quali anche un bambino di 2 anni, che si trovava a bordo di un autobus di linea in direzione Bosilegrad – una piccola città nella Serbia meridionale – dove, come suggerito loro dalle autorità di Belgrado, si sarebbero registrati in uno dei campi profughi in attesa di ottenere il via libera per attraversare il confine con l’Ungheria. La famiglia era regolarmente registrata nel paese e aveva espresso l’intenzione di chiedere asilo in Serbia, come confermato dai documenti in loro possesso.
La famiglia in questione, tuttavia, non ha mai raggiunto la propria destinazione finale: in prossimità della località di Vladičin Han i 7 siriani sono stati costretti a scendere dall’autobus. Ad imporre loro di lasciare il mezzo, secondo quanto riportato dal personale di Infopark, una pattuglia mista di polizia ed esercito che opera nel quadro della task force che dallo scorso luglio pattuglia i confini con la Bulgaria e la Macedonia. Subito dopo, i loro documenti sono stati sequestrati e il gruppo di richiedenti asilo è stato condotto, a bordo di un altro veicolo, nei pressi del confine con la Bulgaria dove è stato abbandonato, nel bel mezzo della notte e con una temperatura di meno 11 gradi.
Fortunatamente la famiglia è riuscita a telefonare ai volontari di InfoPark con i quali era entrata in contatto durante la permanenza a Belgrado, spiegando la situazione e fornendo la propria posizione GPS. Sono stati quindi salvati dall’intervento di una pattuglia della polizia locale.
Sino ad ora il caso ha ottenuto ampia diffusione sui media in Serbia, non solo per l’esito potenzialmente drammatico di quanto avvenuto, ma anche perché – come sottolineato da numerose organizzazioni attive nel supporto dei rifugiati nel paese – non si tratterebbe del primo caso di trasferimento illegale di migranti avvenuto in Serbia negli ultimi mesi.
Le reazioni da parte delle autorità serbe sono state sino ad ora tardive e vaghe. Due giorni dopo che il caso era stato reso pubblico dai volontari di InfoPark, il Commissario per i rifugiati della Serbia Vladimir Cucić ha confermato l’avvenimento senza tuttavia fornire chiarimenti sulle responsabilità delle forze dell’ordine.
Tre giorni dopo, il 23 dicembre, il ministro della Difesa Zoran Đorđević ha dichiarato di non essere a conoscenza di chi e perché fosse coinvolto nei fatti avvenuti il 18, posizione sostenuta anche dal generale Ljubiša Diković che ha ricordato gli sforzi e l’impegno profusi dall’esercito serbo nell’assistere migranti e rifugiati che transitano nel paese.
Nelle giornate immediatamente successive all’accaduto si è registrato un avvicendamento al vertice della task force che pattuglia il confine: Želimir Glišović ha lasciato il posto a Mileta Jelić, senza che però la sostituzione venisse in alcun modo ricondotta a quanto avvenuto alla famiglia siriana.
Per approfondire la questione abbiamo intervistato Nikola Kovačević, del Belgrade Centre for Human Rights (BCHR), una delle organizzazioni che, in Serbia, fornisce tutela legale ai migranti.
Ha incontrato la famiglia siriana coinvolta nel caso. Come stanno? Quali sono le loro intenzioni?
Ora sono alloggiati presso il campo di Bujanovac, aspettando il loro turno per entrare in Ungheria. Non vogliono più chiedere asilo in Serbia.
L’organizzazione per cui lavoro, il BCHR, è ora il loro rappresentante legale. Seguiremo il loro caso, valuteremo i risultati dell’indagine della procura e, nel caso non venissero tutelati i loro diritti e non venissero determinate le responsabilità per quanto avvenuto, porteremo il caso al giudizio della Corte Costituzionale della Serbia e se necessario della Corte europea per i diritti umani.
Il loro caso chiama infatti direttamente in causa una violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea che vieta, assieme alla tortura, anche trattamenti inumani e degradanti. Le modalità con cui queste persone sono state trattate rientrano appieno nell’articolo 3: la loro vita è stata messa direttamente in pericolo perché sono stati abbandonati in mezzo ad un bosco, nel pieno della notte, con una temperatura di 11 gradi sotto lo zero.
Non intendete sollevare un caso relativamente al tentativo di espulsione illegale?
I responsabili per il sequestro della famiglia dall’autobus hanno agito in maniera molto sofisticata, e non hanno accompagnato i rifugiati al di là del confine. Non abbiamo quindi alcuna prova a disposizione per dimostrare che si trattasse di un tentativo di espulsione, anche se quanto avvenuto sembrerebbe un tentativo in quella direzione.
Ritiene che sino ad ora siano avvenuti casi simili? E se sì, perché nessuno ne ha parlato?
Sappiamo che non si tratta di un caso isolato, ma abbiamo bisogno di prove sostanziali prima di rendere gli altri casi pubblici. Negli ultimi 15 mesi abbiamo complessivamente tre casi rispetto ai quali disponiamo di prove concrete che vadano oltre le singole testimonianze.
Il primo è avvenuto nel giugno 2015 ed è stato reso pubblico dal ministro per gli Affari sociali Aleksandar Vulin, che annunciò che 400 migranti erano stati rimandati in Macedonia. Al tempo non si rese conto che si trattava di un caso di respingimento collettivo illegale.
L’altro caso, oltre a quello di cui abbiamo già parlato, è dell’ottobre 2016 quanto, come riportato da MYLA, organizzazione macedone che fornisce assistenza legale ai rifugiati in quel paese, molti rifugiati arrivarono al campo profughi di Tabanovce dopo essere stati espulsi dalla Serbia. In questi tre casi abbiamo prove concrete che ci permettono di attivare procedimenti legali.
Stiamo inoltre collaborando con il Comitato di Helsinki ungherese relativamente a 5 casi di respingimenti dall’Ungheria.
Perché i migranti coinvolti negli altri casi non si sono messi in contatto con organizzazioni per i diritti umani serbe dopo essere stati espulsi dal paese?
Nella maggior parte dei casi si tratta di persone che stavano solo attraversando la Serbia. Il loro primo obiettivo era quello di proseguire il loro viaggio, un’intenzione perfettamente comprensibile e che spiega perché non desiderino nemmeno riportare quanto loro accaduto alla polizia. E’ dura convincerli a rimanere più a lungo del necessario in Serbia nell’attesa che il loro caso venga esaminato.
Come hanno reagito le autorità serbe? Cosa si aspetta facciano ora?
Ci aspettiamo indagini rapide ed efficaci, che dovrebbero prendere in considerazione le testimonianze dei poliziotti in servizio quella notte, esaminando anche altri testimoni e prendendo in considerazione la posizione GPS di tutte le persone coinvolte a vario titolo nell’accaduto.
In casi come questo, indagini rapide sono essenziali. Come emerge dalla giurisprudenza della Corte europea per i Diritti umani, nel caso di potenziale violazione dell’Articolo 3, le indagini devono essere condotte in modo rapido e senza ritardi. Quindi la procura di Vladičin Han, competente su quanto avvenuto, non può permettersi di posporre l’avvio delle indagini. Ritardi con giustificazioni legate al periodo festivo o simili non sono ammissibili in un caso di questo tipo. Siamo in attesa inoltre anche della pubblicazione dei risultati dell’indagine avviata dall’Ufficio dell’Ombudsman della Serbia, da cui ci aspettiamo qualche risultato già a metà gennaio.
La sensazione generale è che vi potrebbe essere il tentativo di insabbiare il caso. Altra fonte di preoccupazione è la mancanza di indipendenza nell’indagine da parte della polizia in un caso che la coinvolge direttamente.
Nel frattempo gli uffici locali dell’UNHCR hanno dichiarato che si sarebbero verificati altri casi simili, aggiungendo però che la pratica non sarebbe sistematica. Come interpreta questa presa di posizione?
Come accade anche per altre organizzazioni attive nella difesa dei diritti dei rifugiati, anche l’UNHCR deve basare le proprie dichiarazioni su prove concrete. Per questo è inevitabile un approccio cauto.
Nel frattempo il quotidiano filo-governativo Večernje Novosti ha minimizzato il caso sostenendo che la famiglia in questione si sarebbe diretta spontaneamente verso la Bulgaria per evitare di registrarsi nel centro rifugiati. Possiamo chiamarla campagna di disinformazione?
I media che hanno disseminato questa versione si sono basati sulle dichiarazioni, in tale direzione, del ministro degli Affari sociali. Una versione non sostanziata da riscontri fattuali: secondo la versione diffusa dal ministro questa famiglia avrebbe coperto a piedi la distanza dal punto in cui sono stati forzati a scendere dall’autobus a dove sono stati ritrovati e questo è irragionevole. Sarebbe stato fisicamente impossibile farlo. Non possono che aver viaggiato su un veicolo.
I responsabili di quanto avvenuto potrebbero rispondere di tentato omicidio per averli abbandonati in mezzo ad un bosco a meno 11.
Se questa pratica venisse confermata, vi potrebbero essere conseguenze anche sulle relazioni bilaterali con i paesi vicini? Sino ad ora vi sono state reazioni ufficiali di Macedonia o Bulgaria?
Non sono a conoscenza di alcuna reazione. Occorre tener conto del fatto che questa pratica delle espulsioni e dei respingimenti è stata adottata da molti paesi sino ad ora, non solo nella regione ma in tutta Europa.
Le autorità serbe hanno investito molti sforzi nel dare un’immagine positiva di sé relativamente alla gestione della crisi dei rifugiati. Sforzi lodati anche negli ultimi Progress reports dell’Ue. Se confermato, questo caso potrebbe nuocere a questi sforzi…
L’immagine positiva dipende dalle dichiarazioni politiche e non sempre trova riscontro nella pratica. E’ vero che, rispetto ad altri paesi della regione, la Serbia ha messo in atto alcuni provvedimenti positivi. Ad esempio va sottolineato che in Serbia non esiste alcun centro collettivo da cui ai rifugiati venga impedito di uscire e non è stata costruita, sino ad ora, nessuna barriera ai confini. Lo stesso non può essere detto di altri paesi europei.
Ma vi sono anche problemi. In particolare le pessime condizioni di vita nei campi rifugiati.
Per salvare la sua reputazione ora la Serbia deve garantire un’indagine adeguata su quanto avvenuto quella notte e deve punire i responsabili.
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