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Serbia e media: i retroscena di un pestaggio

Ivan Ninić, giornalista e attivista, è da anni impegnato ad indagare e rendere pubblici fenomeni di corruzione. Recentemente è stato brutalmente picchiato. E non ha dubbi sul mandante. Un’intervista

29/09/2015, Anđela Milivojević -

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(L’intervista è stata pubblicata dal portale Cenzolovka il 3 settembre 2015, titolo originale: Ivan Ninić: Znam ko je naručio moje prebijanje )

Ivan Ninić ha alle spalle diversi anni di esperienza, sia come giornalista del portale Pištaljka e del tabloid Alo sia come collaboratore del ministero dell’Economia e del Consiglio anticorruzione. Lo scorso 27 agosto è stato aggredito violentemente da due uomini armati di spranghe, vicino all’ingresso di casa sua. Ha riportato numerose ferite.

I due giovani ti aspettavano davanti al palazzo dove abiti e ti hanno aggredito alle spalle con delle spranghe di ferro. Come hai reagito quando hai sentito i colpi?

In un primo momento, dopo il primo colpo, ho pensato: "Qualcuno li ha mandati ad uccidermi“, e solo in seguito: “Proteggi la testa, coprila con le mani e grida affinché ti sentano i vicini“.

Poi ho sentito sapore di sangue in bocca e che il mio viso ne era ricoperto. In quell’istante ho temuto di aver perso l’occhio destro perché non vedevo più nulla.

È stato l’unico momento di debolezza poiché per l’intera durata dell’attacco sono rimasto concentrato sul come cavarmela con meno danni possibili. Ad un certo punto ho visto accendersi le luci su un balcone. Mi trovavo a circa dieci metri dall’ingresso del palazzo quando ho sentito un vicino gridare all’aggressore: “Cosa stai facendo?“. Uno di loro ha sollevato la testa, rivolgendo uno sguardo all’insù, dopodiché mi ha dato un ultimo colpo mentre stringevo la maniglia del portone, per poi darsi alla fuga.

Pensi che l’attacco potrebbe essere motivato dal fatto che da qualche mese stai lavorando ad un reportage su un consulente del presidente Nikolić? Oppure c’entra il tuo impegno nell’indagare su come il denaro pubblico venga usato per finanziare l’SPS?

Ho analizzato possibili moventi dietro all’aggressione e ho ristretto la cerchia dei potenziali mandanti, rendendola nota anche alla polizia. Ultimamente stavo indagando, insieme ai miei collaboratori, su alcuni casi di corruzione piuttosto grave, con l’idea di pubblicare i testi su quanto scoperto su un portale fondato dall’organizzazione non governativa Centar za vladavinu prava.

Durante questa ricerca è emersa una vicenda che coinvolge un funzionario statale nel quale continuo ad imbattermi dal 2013, sia quando lavoravo come giornalista, sia come impiegato del ministero dell’Economia e dell’Agenzia per la privatizzazione.

Si tratta quindi di una vicenda precisa e di un determinato funzionario, che negli ultimi tre anni compare come una costante nel mio lavoro.

Nell’epoca in cui lavoravo presso il ministero dell’Economia il suo caso è stato inoltrato agli organi competenti.

Ho ragione di credere che egli sia venuto a conoscenza della mia identità da alcuni insider nelle istituzioni e che il mosaico si sia completato quando, circa un mese fa, ho deciso insieme ad una collega di contattare direttamente il suo gabinetto, al quale abbiamo inoltrato tre volte la stessa domanda, senza ricevere mai alcuna risposta. Non voglio, in questa sede, rivelare la sua identità poiché probabilmente ne seguirebbe una denuncia per diffamazione. Il caso è ora nelle mani della polizia.

Quindi, hai comunicato il suo nome alla polizia?

Certo, ho anche appositamente ricostruito l’intera cronologia del mio interessarmi dei suoi affari. Non lo conosco di persona, non abbiamo mai avuto contatti diretti, piuttosto ho cercato di entrare in contatto con varie istituzioni dello stato presenti nella regione dove egli fa da “sceriffo“.

Stabilendo tali contatti, ho sbagliato a lasciare il mio indirizzo di casa. Di tutte le richieste di accesso ad informazioni di rilevanza pubblica che ho avanzato di recente, circa 20-25 riguardano i suoi affari privati. Ognuna conteneva il mio indirizzo di residenza. In questo modo li ho aiutati a trovarmi.

Ciò significa che qualcuno dell’esecutivo del premier Vučić potrebbe essere coinvolto nell’attacco?

Non ho mai detto che è stato il premier in persona ad incitare qualcuno contro di me dicendogli di prendermi a botte. Egli è coinvolto nell’aggressione che ho subito solo nella misura in cui contribuisce al diffondersi di un’atmosfera generale molto negativa, tale da incoraggiare atti di questo tipo: quelli già accaduti e altri che avverranno.

Sono proprio il gabinetto del premier e i suoi collaboratori infatti a creare un’atmosfera sociale in cui coloro che stanno per compiere un atto del genere sono incoraggiati a pensare che un gesto simile giovi a loro stessi, al loro partito, al loro leader. E che con tutta probabilità non si troveranno mai sui banchi dell’accusa.

La responsabilità del premier e dei suoi collaboratori più vicini deriva dal fatto che continuano coscientemente ad ammettere all’albo alcune persone, trasformandole in target di attacchi – mediatici o effettivi – delle pajser brigade (nel gergo della malavita serba, il termine sta ad indicare brigate speciali incaricate di intimidire, con particolare crudeltà, gli “avversari“, ndt.), esistenti in ogni città del paese.

Essi tendono ad incoraggiare gli esponenti del proprio schieramento, i cui affari privati rischiano di essere compromessi, a prendere la situazione nelle proprie mani e confrontarsi personalmente con coloro i quali percepiscono come una minaccia.

Il premier, in effetti, non ha ancora condannato pubblicamente l’attacco contro di te…

Probabilmente non sono un personaggio così importante da spingere il premier ad esprimersi pubblicamente in merito. Tuttavia, qualche giorno dopo l’accaduto ho ricevuto una sua telefonata e abbiamo avuto una conversazione corretta e professionale. Mi hanno chiamato anche l’ombudsman Saša Janković, Miroslava Milenović dal Consiglio anticorruzione, Tatjana Babić, direttrice dell’Agenzia anticorruzione, nonché Rodoljub Šabić, commissario per le informazioni di rilevanza pubblica e per la protezione dei dati personali, il quale mi ha sostenuto anche su Twitter.

Quello però che mi ha sorpreso di più è stato l’appoggio che ho ricevuto da 14 organizzazioni non governative, alcune non le conoscevo nemmeno. Questo dimostra che nella nostra società esiste una certa coscienza del fatto che quanto successo a me non ha nulla a che fare con uno scontro privato, ma piuttosto rispecchia un preciso modello di comportamento del potere esecutivo, o meglio di un determinato gruppo di persone che continuano a paralizzare tutte le istituzioni del paese.

Dalla reazione del settore non-governativo si evince la consapevolezza che prossimamente qualcuno di loro potrebbe diventare bersaglio di attacchi simili.

Quale messaggio secondo te ha voluto lasciare chi ti ha aggredito?

Dato che i miei dubbi cadono su un determinato funzionario dello stato, penso che si sia trattato di un regolamento di conti per il lavoro che ho fatto finora. Quindi, il messaggio che hanno voluto mandarmi riempiendomi di botte era quello di lasciar perdere non solo quel funzionario, ma anche altre attività investigative.

Hai intenzione di mollare?

Vivere senza lottare, senza sentirsi liberi di pensare, muoversi, scrivere, esprimersi, criticare, non ha alcun senso. Io la vedo così, per cui non mi sono nemmeno posto un dilemma simile. Chi mi conosce sa che tutto questo non mi condiziona, un’ulteriore prova del fatto che colui che sta dietro l’attacco non mi conosce di persona.

Quindi no, non penso di mollare. I testi su quanto scoperto sono in preparazione. Non solo non ho alcuna intenzione di arrendermi ma mi impegnerò ancora più strenuamente nello smascherare i fenomeni devianti che corrodono la nostra società. Mi dedicherò con ancora più tenacia al lavoro che facevo finora.

Hai pensato a come proteggerti da eventuali attacchi futuri? Cosa possono fare altri giornalisti e attivisti per prevenire simili situazioni?

Il sostegno dell’opinione pubblica è la migliore protezione che si può avere. Sinceramente non mi aspettavo di ricevere un appoggio così ampio. Penso che ormai tutti siano consapevoli che, prima o poi, potrebbero trovarsi nei miei panni.

Nel nostro paese chiunque osi criticare il potere, indagare su conflitti di interesse e affari, cercando di fornire all’opinione pubblica un quadro più completo, diventa un bersaglio legittimo di questo tipo di attacchi.

Non escludo che quanto accaduto possa ripetersi, ma ciononostante non mi sono avvalso di alcuna misura speciale di protezione né credo che la scorta della polizia possa essere particolarmente efficace, tanto più perché ne gode anche colui su cui grava il sospetto di aver orchestrato l’attacco contro di me.

Personalmente dovrei stare più attento a come mi muovo, correggere certi comportamenti ed essere un po’ più prudente, poiché ciò che è successo potrebbe ripetersi, e con un epilogo ancora peggiore.

L’unica cosa che potrebbe effettivamente proteggermi sarebbe una reazione ufficiale da parte dello stato che dimostri la volontà di risolvere questo caso. Al momento, però, non sono sicuro che le istituzioni siano disposte a fare luce su quanto accaduto.

Quanto avverrà nel prossimo mese sarà cruciale per capire non solo in che misura io stesso possa sentirmi al sicuro, ma anche se ogni giornalista, attivista e cittadino di questo paese potrà camminare tranquillamente per strada senza temere per la propria incolumità.

Poco prima che venisse pubblicato il rapporto del Consiglio anticorruzione sugli assetti proprietari e sui meccanismi di pressione nel mondo dei media, sei finito sulla prima pagina del quotidiano Informer, che ti ha etichettato come un sostenitore di Šešelj ingaggiato dall’Unione europea, o più precisamente da Michael Davenport, per dimostrare l’esistenza della censura in Serbia. Che opinione ti sei fatto?

È noto che dal 2008 al 2010 sono stato membro del Partito radicale serbo (SRS), all’interno del quale mi occupavo di tematiche legate alla corruzione, fornendo una specie di consulenza professionale ai funzionari del partito. Non è un segreto.

Ma che questo fatto venga citato nel contesto di un rapporto sullo stato dei media redatto a cavallo tra fine 2014 e inizi 2015 mi sembra disgustoso. E la dice lunga su come i vertici dello stato cercano di spostare il dibattito dall’essenza di quanto pubblicato nel rapporto alla sfera degli attacchi privati: cioè di screditare coloro che hanno lavorato su questo documento ai fini di sminuire la sua importanza agli occhi dell’opinione pubblica, locale ed internazionale.

Sostenere che dietro questo documento stia l’Ue è palesemente infondato, così come lo è anche l’affermazione che io sia stato ingaggiato dal signor Davenport. Per questo ho deciso di sporgere denuncia contro il suddetto tabloid, al quale tra non molto spetterà dimostrare, davanti alla Corte superiore di Belgrado, la veridicità di quanto scritto su di me, cioè di essere mercenario e politicamente implicato.

Perché un giornalista dovrebbe occuparsi di questi temi se la società non sembra gradirlo?

Già da tre anni siamo testimoni di un’intensificazione inaudita della prassi di offendere l’altrui reputazione e fabbricare scandali, la quale evidentemente fa parte della “tecnologia“ del governare, del meccanismo con cui si cerca di conquistare elettorato e rimanere al potere ad ogni costo, senza ambire a risultati concreti per il paese.

Questo però non dovrebbe scoraggiare giornalisti e altri professionisti dall’alzare la propria voce contro tali metodi di mantenimento del potere, anche se mi pare che la gente si stia sempre più arrendendo, al punto da desistere da ogni lotta.

Non sono solo i giornalisti investigativi, ma piuttosto l’intera professione ad inciampare, e questo innanzitutto per ragioni esistenziali, per un sostanziale timore per la sicurezza personale e quella della propria famiglia. In un’atmosfera di paura e linciaggio, contrassegnata da ripetuti licenziamenti di giornalisti e soppressioni di programmi radiotelevisivi, non c’è da stupirsi se coloro che potrebbero avere qualcosa da dire vi stanno rinunciando, chiedendosi se ne vale la pena.

Ma se tutti ci tiriamo indietro, pensando che sarebbe meglio rimanere addormentati fino a quando questo periodo terminerà, finiremo su una strada senza ritorno da cui nessuno ci salverà.

Che cosa ti ha spinto ad occuparti di giornalismo?

In realtà, non ho mai voluto fare il giornalista, bensì l’avvocato. Ed è tuttora il mio desiderio. Ma mentre proseguivo verso questo obiettivo, dagli anni delle superiori ad oggi, non ho potuto restare membro passivo di questa società. Col passare del tempo sono giunto alla conclusione che solo il giornalismo offre un certa possibilità di esprimersi in modo libero e critico, dato che la situazione nei partiti politici è tale qual è.

È un mestiere che permette di far coesistere creatività, libertà, critica, espressione di opinioni personali e trasmissione di informazioni. Penso che chiunque sappia qualcosa sui meccanismi di cui ci si serve per derubare i cittadini ma continui ad astenersi dal parlarne, sia da considerarsi un complice consapevole di tutto ciò. Io mi rifiuto di farne parte, anche se per un certo periodo ero membro di un partito politico e potevo scegliere l’istituzione per la quale volevo lavorare: uno stipendio ed un pezzo di pane potevo averli garantiti, ovviamente a condizione di badare agli affari miei.

Eppure la maggior parte dei media serbi dedica scarsa attenzione all’impegno anti-corruzione, sicché i dati di un certa importanza appaiono solo sui media on-line…

Tenendo presente il livello di censura e auto-censura raggiunto dai media tradizionali ed elettronici, la vera forza motrice di questa società la vedo nei media on-line, la cui conquista dello spazio pubblico si sta facendo sempre più impetuosa.

Penso che in questo momento Internet sia il posto giusto dove smontare quegli intrighi ideati nel chiuso delle élites politico-economiche i cui costi cadono sulle spalle di tutti noi.

 

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