Serbia e Kosovo litigano, i criminali ne approfittano
Serbia e Kosovo danno riparo l’uno ai ricercati dell’altro. Per sottrarsi alla giustizia basta attraversare la frontiera
(Pubblicato originariamente da Balkan Insight il 18 maggio 2018)
Quando, nel 2016, per il medico kosovaro, Lutfi Dervish e per suo figlio Arban era arrivato il momento di essere arrestati per uno dei più cruenti crimini commessi nei Balcani dopo la guerra, la coppia è svanita nel nulla. Balkan Investigative Reporting Network (BIRN) ha rivelato che la polizia kosovara ha motivi di credere che l’urologo e suo figlio fossero coinvolti in un sistema di traffico di organi che da una clinica di Pristina coinvolgeva, passando la frontiera, anche la Serbia. In questo modo sono riusciti ad approfittare della scarsa sicurezza e della poca cooperazione tra la Serbia e il Kosovo, dichiaratosi indipendente nel 2008 ma ancora non riconosciuto come tale da Belgrado.
Sulla carta, l’Unione europea e le Nazioni Unite avrebbero spianato la strada per favorire una cooperazione a livello di intelligence tra i due paesi, sottolineando la necessità di riconoscere i mandati d’arresto internazionali. Nella pratica però, sospettati di omicidio e spacciatori riescono ad aggirare la giustizia semplicemente attraversando la frontiera, consapevoli del fatto che fino ad ora non vi è mai stato un caso di estradizione tra Kosovo e Serbia che abbia avuto esito favorevole.
Un medico sospettato di esercitare procedure illegali di fecondazione in vitro in Kosovo, ha addirittura proseguito la sua attività riuscendo a sfuggire alla polizia e scappando in Serbia.
Le famiglie di quanti risultano ancora scomparsi dopo il conflitto in Kosovo, lamentano che sia proprio la scarsa cooperazione tra i due paesi ad essere responsabile della mancanza di risposte alle loro domande.
Il ministro della Giustizia serbo, la polizia del Kosovo e la missione UE EULEX in Kosovo per il consolidamento dello stato di diritto, hanno dichiarato che in realtà negli ultimi anni c’è stato un regolare scambio di informazioni tra Pristina e Belgrado. Tuttavia funzionari dell’UE o delle istituzioni kosovare, così come gli analisti che si sono occupati di studiare la questione, hanno affermato che il processo di collaborazione sta riscontrando diversi problemi e che raramente si ottengono risultati positivi. Questo è legato principalmente al fatto che la Serbia si rifiuta di riconoscere, neppure tacitamente, l’indipendenza del Kosovo, ma è anche legato alla mancanza di fiducia diffusa in entrambi i paesi.
"Non essendoci alcun tipo di cooperazione su questioni legali e di sicurezza, continuiamo a considerare entrambi i paesi come "safe zone" per i criminali", dice Florian Qehaja, del Centro per gli Studi di Sicurezza in Kosovo, a BIRN.
Nel marzo 2016, la corte d’appello di Pristina ha emesso una sentenza di condanna a carico del medico Lutfi Dervishi e suo figlio Arban. Era stato ordinato ai due uomini di costituirsi per scontare le lunghe pene detentive loro comminate, legate all’accusa di espianto di organi di dozzine di persone. I due però sono scomparsi. Nulla è noto in merito a come avrebbero lasciato il Kosovo, ma la polizia di Pristina ha rivelato di avere buone ragioni per credere che i due si siano nascosti in Serbia.
"Stando alle informazioni a nostra disposizione, Lufti e Arban Dervishi, si troverebbero in territorio serbo dove si starebbero nascondendo per sfuggire alla giustizia kosovara", ha dichiarato il portavoce della polizia del Kosovo, Daut Hoxha a BIRN. Non sarebbe chiaro, tuttavia, da dove arriverebbero queste informazioni siccome tanto EULEX, quanto l’amministrazione provvisoria dell’Onu in Kosovo e i ministri della Giustizia di Serbia e Kosovo, si sono rifiutati di commentare la questione. Nel gennaio 2017, Lufti Dervishi è ritornato in Kosovo dopo che la corte suprema ha espresso la volontà di aprire un nuovo processo. È stato arrestato, ma secondo la polizia Arban si troverebbe ancora in Serbia.
Il nuovo processo contro Lufti Dervishi è iniziato nel luglio 2017 ed è ancora in corso.
Un altro medico che ha approfittato delle lacune legali per raggirare le autorità del Kosovo è stata Gjina Zeqiri, ginecologa e fondatrice del Global Hospital, clinica di Pristina specializzata nei trattamenti di fecondazione in vitro. Nel novembre 2014 la polizia kosovara, che già aveva sospetti in merito all’attività di Zeqiri, ha messo sotto sequestro la clinica. Le accuse riguardavano anche il fatto che la clinica dava la possibilità ai futuri genitori di scegliere il sesso del nascituro pagando una tassa aggiuntiva. Sperma e ovuli sarebbero stati comprati da soggetti vulnerabili e – stando alle accuse mosse dal procuratore nel gennaio 2016 e rivelate a BIRN – sarebbero anche stati assunti embriologi non qualificati.
Nonostante fosse ricercata dalla polizia kosovara, Zeqiri è riuscita a fuggire in Serbia, da dove è stata in grado di continuare la sua attività fornendo gli stessi servizi tramite un sito internet in lingua serba e albanese. La donna avrebbe in seguito negato di avere avuto dei clienti.
Nel febbraio 2014, Zeqiri è stata registrata come dipendente di un’azienda serba, la Global IVF di Bujanovac, un comune vicino al confine con il Kosovo con una forte componente di popolazione albanese. Un mese più tardi ha anche preso in affitto un ufficio nella cittadina del sud della Serbia.
Nexhat Behluli, proprietario dell’ufficio affittato da Zeqiri, ha dichiarato che inizialmente l’attività consisteva nel vendere strumentazione medica, ma che a maggio dello stesso anno, la donna avrebbe trasformato l’ufficio in una clinica per la fecondazione in vitro.
“L’ho avvisata che non volevo che venissero svolte attività di fecondazione in vitro nel mio locale, e abbiamo infine accordato che la sua attività avrebbe solo riguardato la vendita di materiale e strumenti medici” ha dichiarato Behluli. Dopo che Zeqiri si è rifiutata di rispettare le condizioni contrattuali, il proprietario avrebbe cambiato la serratura dell’ufficio impedendole quindi di entrare. Zeqiri ha in seguito fatto causa a Behluli per poter recuperare il denaro investito nell’attività.
Secondo i documenti della magistratura kosovara e ottenuti da BIRN, Zeqiri si occupava di effettuare trattamenti di fecondazioni in vitro e aborti grazie ad una licenza ottenuta dal ministero della Salute serbo, ma la donna ha negato tutte le accuse.
Nonostante gli ostacoli che si sono presentati, una volta scappata dal Kosovo, Zeqiri è riuscita a continuare la sua attività fornendo servizi e cure in lingua serba ed albanese attraverso “cliniche regionali e internazionali” e fornendo consulenze online tramite il sito globalivf.net . Zeqiri ha sempre negato le accuse mosse nei suoi confronti e ha dichiarato a BIRN di avere effettivamente pianificato di fornire servizi di fecondazione in vitro in una nuova clinica ma che a causa di mancanza di risorse economiche non sarebbe stata in grado di farlo. Ha poi smentito la versione dei fatti raccontata dal padrone di casa e dichiarato di non avere intenzione di tornare in Kosovo in quanto certa che non le verrebbe garantito un giusto processo. “Volevo aprire di nuovo una clinica, ma mi è stato impedito”, ha dichiarato Zeqiri, “non vogliono permettermi di lavorare e io mi ritengo una vittima innocente di uno stato non funzionante come il Kosovo”.
La corte di Pristina ha ordinato di emettere un mandato di arresto internazionale a carico di Zeqiri nel giugno 2017, ma il ministro della Giustizia del Kosovo si è rifiutato di confermare se il mandato d’arresto sia stato effettivamente preso in carico dall’Interpol o meno. Le istituzioni kosovare e serbe si sono rifiutate di commentare il caso, e allo stesso tempo Zeqiri ha dichiarato a BIRN che sta continuando a spostarsi liberamente.
Nessuna estradizione per i sospettati di omicidio
Non sono solo i sospettati kosovari a trarre vantaggio dalla mancanza di cooperazione tra Pristina e Belgrado, per poter sfuggire alla giustizia. BIRN ha individuato ben tre casi in cui la polizia kosovara ha arrestato individui sospettati, o addirittura accusati, di gravi crimini in Serbia, per rilasciarli subito dopo.
La polizia kosovara ha dichiarato di aver arrestato nel settembre 2014, Ernad Biševac, ricercato in Serbia per omicidio, ma che in seguito le autorità serbe non ne avrebbero richiesto l’estradizione. Biševac è stato quindi rilasciato ed è rimasto libero per un anno, prima di essere nuovamente arrestato in Serbia dove sta attualmente scontando una pena di 16 anni per omicidio e per tentato omicidio.
Predrag Vukosavljević, conosciuto anche come Predrag Vulićević, era ricercato in Serbia dopo essere stato accusato di traffico di droga. Quando, a marzo 2015, è stato arrestato in Kosovo, sulla base di un mandato di arresto serbo, aveva a suo carico già tre anni di pena da scontare. Di nuovo – stando a quanto dichiarato a BIRN da parte della polizia kosovara – la Serbia non ne avrebbe richiesto l’estradizione.
La polizia del Kosovo ha inoltre dichiarato che un terzo inquisito, Aleksandar Vukadinović, è stato arrestato in Kosovo a febbraio 2016 e poi rilasciato. Un mese dopo un mandato di arresto dell’Interpol è stato emesso nei suoi confronti dalla Serbia con le accuse di concussione e corruzione. Secondo i media serbi, Vukadinović era accusato di essere membro di un’organizzazione criminale coinvolta nel traffico di prodotti tessili importati in Serbia dalla Turchia e da altri paesi.
La polizia kosovara ha dichiarato che Pristina avrebbe informato del suo arresto la polizia serba e che Belgrado avrebbe richiesto di portare informalmente Vukadinović alla frontiera più vicina. Tuttavia, poiché Vukadinović aveva anche la cittadinanza kosovara, la polizia kosovara non aveva l’autorità per deportarlo.
“Sulla base di tutti i casi sopra menzionati, pare che la reazione serba sia sempre la stessa: non richiedere per i propri cittadini l’estradizione dal Kosovo. Questo atteggiamento sembra essere direttamente legato alla volontà della Serbia di non riconoscere il Kosovo ”, ha dichiarato il portavoce della polizia Daut Hoxha.
BIRN non è stato in grado di confermare le sorti di Vukadinović dopo il suo rilascio e anche il ministro degli Interni serbo si è rifiutato di dare informazioni al riguardo.
“In generale, c’è una totale mancanza di cooperazione nell’investigazione sugli atti penali, in particolare per quelli legati ad accuse di traffico di migranti e terrorismo”, ha aggiunto il portavoce della polizia.
L’omicidio diventa la prova del nove
In nessun luogo il fallimento dello stato di diritto è più evidente che nel nord del Kosovo. In questa zona, fin dalla fine della guerra nel 1999, né Belgrado né Pristina sono riuscite ad avere il pieno controllo .
Le investigazioni riguardanti l’omicidio del politico serbo Oliver Ivanović, ucciso da colpi di arma da fuoco mentre usciva dall’ufficio del suo partito a Mitrovica lo scorso gennaio, stanno dando un esempio significativo della limitata cooperazione tra i due paesi.
“L’applicazione di leggi per la cooperazione tra Serbia e Kosovo è orchestrata da un’accozzaglia di organizzazioni internazionali e accordi che vengono implementati solo per metà. Tutto quanto viene ostacolato dall’antagonismo politico e dalla poca fiducia tra i due stati”, ha dichiarato a BIRN Bojan Elek, autore di un report che nel 2015 ha descritto la cooperazione tra Kosovo e Serbia, ricerca pubblicata dal Centro per le politiche di sicurezza di Belgrado.
I negoziati guidati dall’Unione Europea tra i due paesi, e iniziati nel 2011, hanno prodotto alcuni risultati per quanto riguarda tematiche quali la libertà di movimento, ma anche queste politiche – secondo un report di BIRN – sono poco implementate.
L’accordo finalizzato a prevenire che la Serbia potesse ostacolare la membership del Kosovo nelle organizzazioni regionali, non ha impedito a Belgrado di contrastare il tentativo di Pristina di prendere parte all’Europol, all’Interpol e ad altre organizzazioni regionali.
Stando all’Unione europea, nessuna delle due parti avrebbe mai tentato di inserire temi legati alla cooperazione sulla sicurezza, all’interno dell’agenda dei colloqui a Bruxelles. Questo stallo implica che Pristina rimarrà ancora dipendente dalle organizzazioni internazionali per la maggior parte delle cooperazioni con gli altri stati e per il mantenimento dello stato di diritto.
Il Kosovo rimane ancora dipendente anche dall’UNMIK, la missione in Kosovo guidata dalle Nazioni Unite e attiva anche dopo la fine del conflitto nel 1999 per emettere i mandati di arresto conosciuti come “red notice”. L’EULEX, la missione per il mantenimento dello stato di diritto finanziata dall’UE, collabora anche con l’Europol. Sia la missione UNMIK che EULEX hanno l’obiettivo principale di facilitare il coordinamento tra le forze di polizia serbe e quelle kosovare.
Nel 2011 il Kosovo ha inoltre istituito l’International Law Enforcement Coordination Unit che include la polizia kosovara come membro di un progetto finanziato dall’Unione Europea, per creare una rete di forze che possano cooperare nell’area dei Balcani occidentali.
Dopo alcune richieste da parte della polizia serba, due sospettati di omicidio sono stati arrestati in Kosovo e successivamente deportati. Sono stati portati nell’area di confine dove sono stati successivamente arrestati dalla polizia serba.
Dopo il dispiegamento della missione EULEX del 2008, le forze delle Nazioni Unite sono state incaricate di gestire le comunicazioni scritte tra Pristina e Belgrado. Ad EULEX è inoltre stato richiesto di fare da mediatore nei casi di estradizione provenienti e indirizzati a stati che non riconoscono l’indipendenza del Kosovo.
EULEX ha dichiarato che il fallimento di entrambe le parti nel rispettare le procedure di assistenza giuridica reciproca, ha comportato un forte rallentamento della cooperazione almeno fino al 2013, quando le informazione tra i due stati sono iniziate a circolare.
La situazione si è poi nuovamente deteriorata a partire da ottobre 2014, quando la Serbia si è rifiutata di riconoscere il trasferimento dell’Ufficio del rappresentante speciale dell’Unione europea a Pristina. Questo avrebbe infatti significato una non neutralità dell’UE rispetto alla questione dell’indipendenza del Kosovo.
Belgrado avrebbe insistito affinché le richieste continuassero a passare attraverso EULEX, e questo ha causato un periodo di circa un anno in cui le comunicazioni tra le due parti, almeno ufficialmente, si sono fermate.
Secondo alcune analisi condotte dall’Unione Europea, quest’ostacolo è stato superato quando Belgrado ha dichiarato che avrebbe accettato le richieste di estradizione qualora queste fossero arrivate tramite la delegazione dell’UE.
Ma BIRN ha anche scoperto che durante questo periodo di tempo in cui molte richieste ufficiali da parte dell’ufficio dell’Unione europea di Pristina si impilavano presso gli uffici del ministero della Giustizia serbo, almeno dieci di questi casi rientranti nella cosiddetta Assistenza giuridica reciproca erano stati inviati al ministero di Belgrado anche da parte di EULEX, nonostante il suo mandato fosse già terminato.
“Affinché si intervenisse su casi molto importanti di crimini di guerra e crimine organizzato, in cui erano coinvolti anche giudici e procuratori internazionali, abbiamo tacitamente accordato che EULEX inviasse una copia delle richieste nonostante le copie originali già si trovassero presso il ministero serbo”, ha spiegato un importante funzionario dell’Unione europea coinvolto in questo processo.
Lo stesso funzionario, che ha voluto rimanere nell’anonimato, ha dichiarato che tutte le parti si sono dimostrate insoddisfatte per quanto riguarda la cooperazione legale tra Kosovo e Serbia, aggiungendo che mentre il processo amministrativo è andato a buon fine, il passaggio delle informazioni tra i due paesi è stato “molto lento”.
Mentre EULEX ha avuto successo nell’assicurare alcune estradizioni da paesi che non riconoscono l’indipendenza del Kosovo come la Slovacchia e la Bosnia Erzegovina non ci sono mai state estradizioni tra il Kosovo e la Serbia.
I problemi amministrativi e la poca trasparenza sono state poi nuovamente confermate dalle dichiarazioni pubbliche a proposito della cooperazione tra i due stati in merito all’omicidio di Oliver Ivanović.
Mentre le istituzioni kosovare hanno dichiarato l’esistenza di un effettivo scambio di informazioni tra i ministri della Giustizia dei due paesi e tramite la “cooperazione giuridica internazionale”, la Serbia sostiene che sia stata EULEX a mediare tra le due parti per il passaggio di informazioni.
EULEX ha inoltre dichiarato a BIRN di avere aiutato a facilitare le relazioni tra la polizia kosovara e il ministero degli Interni serbo e anche i ministri della Giustizia dei due paesi hanno confermato di essersi scambiati delle informazioni.
Assenza di cooperazione significa assenza di giustizia
Il capo della Procura speciale del Kosovo, Reshat Millaku, incaricato di seguire la maggior parte dei casi più importanti, tra cui anche quelli riguardanti crimini di guerra e corruzione, ha dichiarato che la cooperazione tra le procure serbe e kosovare è quasi impossibile. “Se non c’è cooperazione, non può esserci neppure giustizia per le vittime”, ha detto Millaku. “Chiediamo costantemente che ci sia cooperazione da parte della procura serba, non solo per quanto riguarda i crimini di guerra, ma continuano a non dare seguito alla nostra richiesta”.
“Hanno chiesto informazioni riguardo a nostri cittadini coinvolti in crimini di guerra in Kosovo, ma non possiamo dare loro le informazioni in nostro possesso perché si trattata di responsabilità della procura del Kosovo,” ha aggiunto. “Visto il rifiuto della Serbia di cooperare, abbiamo deciso di non soddisfare neppure le loro richieste”.
Il ministero della Giustizia di Belgrado respinge le accuse, e in una lettera rivolta a BIRN, l’ufficio stampa del ministero ha dichiarato: “I dati dell’anno scorso dimostrano che ci sono state ben 316 richieste di cooperazione legale provenienti da entrambe le parti. Le richieste riguardavano atti criminali, crimini di guerra, organizzazioni criminali e terrorismo”. “Bisogna sottolineare che con la volontà politica, non ci sono ostacoli legali alla cooperazione” ha aggiunto, ed ha insistito sul fatto che “il ministro della Giustizia del cosiddetto stato del Kosovo, si è rifiutato di rispondere alle richieste della procura serba per quanto riguarda alcuni casi di crimini di guerra”.
Una fonte all’interno della magistratura serba, ha anche dichiarato che nelle parole dell’ufficio stampa ci sarebbe un riferimento specifico al tentativo da parte della Serbia di estradare per crimini di guerra l’attuale primo ministro del Kosovo Ramush Haradinaj.
Bojan Elek aveva di fatto anticipato che la cooperazione riguardo le investigazioni sull’omicidio di Ivanović e in merito alla lotta contro il crimine organizzato, difficilmente avrebbe portato dei frutti. “L’ostruzionismo di entrambi gli stati porta a credere che anche questo caso, così come molti altri, rimarrà irrisolto” ha aggiunto Elek.
“I cittadini della Serbia e del Kosovo non possono sentirsi al sicuro mentre il crimine organizzato trova un terreno fertile in cui fiorire”, ha infine ribadito.
Quest’inchiesta è stata prodotta nell’ambito della BIRN Summer School of Investigative Reporting
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