Serbia e Kosovo: l’inefficacia delle condizionalità europee
Con esiti altalenanti, l’UE guida il processo di normalizzazione delle relazioni tra Serbia e Kosovo sin dal 2011. L’Accordo di Bruxelles del 2013 costituisce l’apice di questa mediazione: tuttavia da allora in poi il dialogo si è rivelato avaro di progressi
(Questo commento è il risultato di una tesi di laurea svolta dall’autore sui negoziati Serbia-Kosovo)
Nel 2006, con l’introduzione dei cosiddetti "criteri di Copenhagen Plus" per accedere all’UE, Bruxelles ha chiesto formalmente agli stati candidati e aspiranti dei Balcani occidentali di risolvere gli eventuali conflitti a livello bilaterale prima di entrare a far parte dell’Unione. La normalizzazione dei rapporti tra Kosovo e Serbia ha assunto così lo status di un vero e proprio requisito perché i due paesi possano aspirare a far parte dell’UE.
Agli inizi del 2018, Belgrado sembrava essere abbastanza accondiscendente in tal senso. Il presidente serbo Aleksandar Vučić ha avuto allora modo di dichiarare che "[serbi e albanesi] devono convivere, siamo le due popolazioni più numerose nei Balcani. Se non siamo in grado di trovare una soluzione tra di noi, chi potrà farlo?", rimarcando la necessità di raggiungere un accordo definitivo.
Il presidente del Kosovo Hashim Thaçi gli ha fatto presto eco affermando che il futuro di entrambi i paesi era all’interno dell’UE, e che era giunto "il tempo per un accordo tra Kosovo e Serbia”. Di lì a poco, tuttavia, sarebbe iniziata un’escalation di tensione che ha condotto ad una guerra commerciale tra le due entità, affossando ogni prospettiva di dialogo e vanificando qualsiasi tentativo di intermediazione da parte dell’UE.
Stessa ricompensa, tempistiche indefinite
L’intera impalcatura delle condizionalità europee si basa su un semplice meccanismo: benefici in cambio di riforme. I paesi candidati sono motivati ad adeguarsi alle richieste ed agli standard europei con la promessa di ottenerne dei benefici, spesso di natura economica.
La ricompensa per eccellenza, ovviamente, resta l’ingresso a pieno titolo all’interno della famiglia europea. Tuttavia questo traguardo di lungo termine rimane vago, remoto e condizionato al volubile impegno degli stati membri e della situazione politica della stessa UE. Di conseguenza, anche se la prospettiva di entrare a far parte dell’UE resta allettante, l’incertezza legata all’intero processo di adesione rischia di minare alle fondamenta la volontà delle élite politiche di dedicarsi seriamente ad un simile impegno gravoso e di lungo termine.
La stessa membership sembra però aver perso parte della sua attrattiva originaria nel corso degli anni, sebbene gli ultimi dati a disposizione sembrino indicare un rimbalzo favorevole dell’opinione pubblica serba. Nel paese in questione, tradizionalmente tra i più euroscettici dell’Europa sud-orientale, solo una maggioranza relativa del 48% dei cittadini è convinta che l’ingresso nell’UE sarebbe una cosa positiva, contro il 23% secondo il quale costituirebbe un’evoluzione negativa, il 27% di indifferenti e il 2% che non sa rispondere.
Se da un lato questa tendenza è il risultato del disincanto nei confronti di un accesso rapido e indolore all’UE, d’altro canto un ruolo di primaria importanza è stato giocato da due cesure in particolare: la crisi del debito sovrano europeo e le sue drammatiche ripercussioni sulla Grecia – considerata, fino ad allora, un virtuoso esempio da seguire per gli stati limitrofi dell’area balcanica – e la Brexit, che hanno lasciato l’impressione di un’unione litigiosa ed in perdita di consensi al suo interno.
Mancanza di credibilità
Uno degli elementi più importanti in grado di determinare l’ottemperanza degli stati candidati alle disposizioni europee è la credibilità dell’UE nel mantenere le sue promesse, tanto nel ritirare un beneficio in caso di inadempienza, quanto nella sua concessione in caso di adempimento. In entrambe le circostanze, l’UE negli ultimi anni non ha dato esattamente il meglio di sé.
L’ultimo, emblematico esempio in termini di tempo è il caso macedone. Sin dal 2009 la Commissione Europea, di anno in anno, ha rinnovato il suo parere favorevole all’apertura dei negoziati di adesione di Skopje all’UE, incontrando però il veto della Grecia prima e della Francia poi. Nonostante gli enormi sforzi del paese per raggiungere questo risultato, ancora oggi la Bulgaria si rifiuta di concedere il nulla osta alla Macedonia del Nord, adducendo argomentazioni che hanno poco o nulla a che vedere con il processo di allargamento in sé.
Il ben noto problema è che singoli stati membri tendono ad abusare delle prerogative riservategli nel corso delle negoziazioni per risolvere dispute bilaterali, ricorrendo al loro potere di veto per perseguire i propri obiettivi di politica estera. L’effetto collaterale di una simile attitudine è il danneggiamento dell’intero processo di europeizzazione, facendo venir meno il suo elemento cardine: la credibilità delle condizionalità.
Il messaggio che ne risulta è che gli sforzi per soddisfare ciascun requisito non sempre sono premiati con il mantenimento delle promesse da parte dell’UE.
Tra Bruxelles e Mosca
Con la stipula dell’Accordo di Stabilizzazione e Associazione nel 2008, Belgrado ha ottenuto l’accesso ai fondi ed al mercato unico europei. In seguito, con la concessione dello status di paese candidato nel 2012 e l’apertura formale delle negoziazioni nel 2014, è diventato in breve tempo lo stato leader della regione in termini di investimenti diretti esteri.
Questo però non implica l’inequivocabilità del futuro europeo di Belgrado. Nel 2019 la Serbia ha ad esempio siglato un accordo di libero scambio con l’Unione Economica Eurasiatica (EAEU) a trazione russa, ottenendo un accesso agevolato anche a questo mercato.
Peccato solo che tutto ciò sia incompatibile con le istituzioni europee. L’ottenimento della membership europea implicherebbe la rinuncia alle agevolazioni con l’EAEU, ma non è affatto scontato che Belgrado sia disposta a privarsi dell’accesso ad un mercato non certo trascurabile di 160 milioni di persone in nome dell’UE.
Piuttosto, è probabile che la Serbia perseveri nella sua attitudine abituale, bilanciandosi tra Bruxelles e Mosca in modo da trarre vantaggio da entrambe le parti. Da questo punto di vista, le condizionalità europee nei confronti della Serbia potrebbero aver perso di efficacia semplicemente perché i costi previsti per l’adempimento risultano maggiori di quanto l’élite politica serba sia disposta a sopportare.
Un altro costo insostenibile per Vučić e la sua cerchia potrebbe essere quello politico. L’ingresso nell’UE prevede tutta una serie di riforme istituzionali – dalla libertà di stampa alla riforma della giustizia – che finirebbero inevitabilmente per limitare la capacità dell’esecutivo di generare consenso e mantenere la sua salda stretta sul potere.
Approccio materialistico
Le cosiddette condizionalità europee sono principalmente rivolte agli aspiranti stati membri dell’UE allo scopo di assicurare una piena integrazione all’interno del mercato unico e delle istituzioni europee. Tuttavia, questo strumento si è dimostrato tanto efficace nei confronti degli stati candidati, quanto spuntato con gli stati membri.
L’influenza delle condizionalità europee agisce propriamente solo se lo stato in questione è sinceramente interessato ad entrare nell’UE. Se questo non è il caso o se lo stato è già membro dell’UE, un simile strumento perde di efficacia. Questo è esattamente ciò che sta accadendo in Serbia.
Belgrado si sente ragionevolmente fiduciosa nel fare il doppio gioco tra Bruxelles e Mosca – o Pechino – al fine di massimizzare i propri vantaggi, seguendo un puro calcolo costi-benefici e ricorrendo a valori ed ideali solo strumentalmente, confidando che questo suo atteggiamento ambivalente non verrà sanzionato dall’UE.
Anche se gli antecedenti storici agli attuali attriti tra Kosovo e Serbia sono sicuramente significativi, il riferimento alle ostilità passate e le giustificazioni di matrice nazionalista fungono da specchietto per le allodole per celare le reali motivazioni dietro l’impasse nel dialogo, ovvero la mancanza di volontà di portare a compimento il processo di allargamento.
La Serbia non rinuncerà tanto facilmente ad una situazione del tutto sui generis che le consente di godere contemporaneamente del mercato unico europeo e di un accordo con l’EAEU. Tenendo in considerazione che il pieno ingresso all’interno della comunità europea implicherebbe la perdita di questo status privilegiato, Belgrado non ha alcuna fretta di assecondare tutte le richieste dell’UE – questione del Kosovo inclusa.
Se Bruxelles imponesse a Belgrado di scegliere tra un campo e l’altro, senza più ambiguità, messa alle strette probabilmente opterebbe per perseguire la ben più vantaggiosa strada europeista. Ma questo non sta avvenendo, e finché l’UE non tornerà ad impegnarsi attivamente e seriamente nei confronti della Serbia e dell’allargamento europeo, è ragionevole ritenere che non assisteremo a sviluppi significativi verso una normalizzazione delle relazioni tra Serbia e Kosovo.
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