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Sentenza Šešelj, il revisionismo dell’Aja

La sentenza di assoluzione emessa dal Tribunale dell’Aja ha lasciato l’amaro in bocca a molti, anche in Serbia c’è chi parla di revisionismo della storia degli anni novanta. Un commento

15/04/2016, Antonela Riha - Belgrado

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“Conclusioni sui fatti incomprensibili e contraddittorie” è questa una delle valutazioni del capo procuratore dell’Aja, Serge Brammertz, a seguito della sentenza di assoluzione di Vojislav Šešelj per la quale ricorrerà in appello. La parola “incomprensibile” è stata usata anche dalla giudice Flavia Lattanzi, uno dei tre membri del collegio giudicante presieduto dal giudice Jean Claude Antonetti, l’unica che si è opposta all’assoluzione di Šešelj da tutti i nove capi d’accusa.

Tutto ciò che riguarda Vojislav Šešelj supera i limiti della ragione. Lo sanno molto bene in Serbia, dove i cittadini temevano la sua politica già quando era “l’oppositore preferito” di Slobodan Milošević, come quest’ultimo lo aveva definito una volta, e quando alla fine degli anni Novanta era stato partner della coalizione di governo. Quello per cui non è stato processato all’Aja e di cui in Serbia ci si ricorda molto bene, è la palese caccia ai cittadini di nazionalità non serba, l’aver affrontato con le armi la gente per strada, lo scontro fisico dei suoi collaboratori con quelli che non la pensavano allo stesso modo, le minacce di morte ai giornalisti, la violenza in parlamento quando era deputato e il costante uso del linguaggio dell’odio verso chiunque non condividesse il suo sogno della “grande Serbia”, le cui frontiere sarebbero dovute passere attraverso la Bosnia fino a metà della Croazia.

Incomprensibile potrebbe essere definito anche l’intero processo. Šešelj si è consegnato volontariamente al Tribunale dell’Aja nel febbraio 2003, e ne è seguito un processo che è durato in tutto 12 anni. Ma durante quel periodo i giorni effettivi di processo sono stati  soltanto 175. Durante le udienze Šešelj ha spadroneggiato in modo chiassoso e volgare, mentre il tribunale ha elargito numerose concessioni: con lo sciopero della fame nel 2006, Šešelj ha infatti ottenuto l’abrogazione della decisione che gli assegnava un difensore per porre fine alla sua costante ostruzione dei lavori del tribunale. Ha continuato a difendersi, fino alla fine, da solo. Per tutto il tempo ha ostacolato il processo, è riuscito a far modificare il collegio di primo grado, e per aver rivelato il nome di un testimone al processo è stato condannato a oltre 4 anni di prigione. E’ riuscito a trasformare i testimoni dell’accusa in testimoni a suo favore. Ha fatto di tutto per trasformare il dibattimento in un circo e in questo è stato spesso assecondato: il tribunale ha accettato la sua richiesta di avere i documenti “stampati su carta e in serbo”, perché non usa il computer per paura di rimanere folgorato e non conosce le lingue straniere, compreso il croato. 

Alla fine, malato di cancro al fegato ha rifiutato di curarsi con la chemioterapia, deciso a morire in carcere. Probabilmente questo ha spinto il Tribunale, contro la sua volontà e violando tutte le procedure, a farlo tornare in Serbia nel novembre 2014.

Un altro precedente è stato commesso durante la sentenza: Šešelj è infatti l’unico a cui è stato permesso di non essere fisicamente presente all’Aja. Ha aspettato l’assoluzione a Belgrado nel bel mezzo della campagna elettorale, durante la quale, a giudicare dai sondaggi, sta ricevendo sempre più sostegno da parte degli elettori.

“In tempo di guerra le leggi tacciono”

L’unica cosa sensata durante la sentenza Šešelj la si può trovare nell’opinione dissenziente della giudice Flavia Lattanzi, che nella spiegazione del suo dissenso rispetto al collegio giudicante del tribunale conclude: “Mentre leggevo la sentenza della maggioranza dei membri del collegio, ho avuto l’impressione di essere ritornata molti secoli indietro, agli albori della storia dell’umanità, quando i romani, per giustificare le loro conquiste sanguinarie e le uccisioni dei loro nemici politici nelle guerre civili, dicevano: ‘silent enim leges inter arma’ -“in tempo di guerra le leggi tacciono” (Cicerone, Oratio pro Milone – Discorso in difesa di Milone, 52.a.c.)

Il 31 marzo Šešelj è stato assolto in primo grado dalle accuse per crimini contro l’umanità (persecuzioni, deportazioni e atti disumani o trasferimenti forzati) e per crimini di guerra (omicidi, torture e atti crudeli, distruzione e danni arrecati ai luoghi di culto o dell’istruzione, furti di proprietà privata o pubblica). L’accusa gli ha addebitato di aver direttamente commesso, incitato e appoggiato i crimini compiuti dalle forze serbe nel periodo compreso tra l’agosto 1991 e il settembre 1993 e di essere stato parte di un’impresa criminale congiunta. 

Il collegio giudicante, con l’eccezione della giudice Lattanzi, non ha negato che alcuni dei crimini siano stati commessi ma ha considerato che non fosse possibile collegarli a Šešelj. Tuttavia ciò che è veramente “incredibile”, come valutano sia Brammertz che Lattanzi ed anche una parte dell’opinione pubblica in Serbia, è che i numerosi crimini già accertati in altre sentenze, stando alla motivazione del giudice Antonetti, sono stati semplicemente amnistiati.

In Serbia si ricordano i discorsi minacciosi di Šešelj all’inizio della guerra, nel maggio 1992, quando invitava a “pulire il territorio dagli ustascia” (i croati), dopo di che è avvenuta la migrazione in massa della popolazione croata che in Vojvodina, al nord ovest della Serbia, aveva vissuto per secoli. Nella spiegazione del giudice Antonetti tutto ciò era funzionale alla soluzione della loro “questione abitativa”! Frasi come “I fratelli cetnici devono vendicarsi contro i balija (musulmani)”, sono state valutate dal collegio giudicante come volte ad “aumentare il morale dei suoi soldati”, mentre la deportazione organizzata dei musulmani dai villaggi vicino a Zvornik in Bosnia sarebbe stata motivata “da intenti umanitari per allontanare i civili dalla zona di guerra”.

La Grande Serbia: un’idea politica legittima

Il collegio giudicante, con l’opposizione della giudice Lattanzi, ha concluso che “l’accusa non ha provato fuori da ogni ragionevole dubbio che la popolazione civile non serba fosse esposta all’attacco diffuso e sistematico in gran parte della Croazia e della Bosnia Erzegovina, nella fattispecie nei comuni di Vukovar, Zvornik, sul territorio di Sarajevo e nei comuni di Mostar e Nevesinje” dal 1991 al 1993, e che “non esistono elementi legali importanti per qualsiasi responsabilità penale per crimini contro l’umanità”. Questa spiegazione è del tutto contraria alle sentenze pronunciate finora contro altri accusati, dove è chiaramente stato constatato che, in questi territori e in questo periodo, c’è stato un attacco diffuso e sistematico contro la popolazione civile.

L’idea della “Grande Serbia” chiamata a sottomettere con le armi la Bosnia Erzegovina e la Croazia dopo il riconoscimento internazionale di questi due paesi come stati indipendenti, per il giudice Antonetti è un’idea politica legittima secondo la quale “i serbi di religione ortodossa, cattolica e islamica” dovrebbero vivere in un unico stato. Basta questa costatazione per capire che il Tribunale dell’Aja ha rinnegato molte altre sentenze pronunciate dallo stesso tribunale, nelle quali era stato riconosciuto il movente politico di molti volontari dalla Serbia, fra cui gli uomini di Šešelj, ad andare in guerra.

Infine, il collegio giudicante in questa sentenza ha contestato anche l’esistenza dell’impresa criminale congiunta, in base alla quale sono già stati condannati i compagni militari e politici di Šešelj. Nella sentenza all’ex presidente della Republika Srpska Radovan Karadžić, recentemente condannato a 40 anni di carcere per crimini di guerra e per il genocidio di Srebrenica, Šešelj viene nominato proprio nel contesto dell’impresa criminale congiunta. Questa fattispecie criminale, relativamente nuova nella legge internazionale, è stata introdotta nella prassi del processo del Tribunale per dimostrare lo scopo criminale comune a cui partecipano individui collegati tra loro.

Quanto è stato grottesco l’intero processo giudiziario contro Šešelj, tanto è stata una farsa malriuscita la sentenza assolutoria e la sua motivazione. Con le loro conclusioni e con l’assoluzione di Šešelj, i giudici Jean Claude Antonetti e Mandaje Nijang hanno contestato crimini che sono stati già provati, hanno giustificato le motivazioni dell’aggressione dell’esercito serbo in Bosnia Erzegovina e in Croazia e hanno umiliato le vittime.

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