Sarajevo vieta l’export di armi verso l’Ucraina
La recente decisione della presidenza bosniaca indica positivamente una direzione contraria all’escalation della crisi ucraina, anche se non è stata assunta in piena autonomia
Mercoledì scorso, ponendo fine ad una lunga diatriba, la presidenza della Bosnia Erzegovina ha emesso un comunicato contrario all’esportazione di armi all’Ucraina. “L’esportazione di equipaggiamento militare e di armamenti dalla Bosnia Erzegovina all’Ucraina – si legge nella dichiarazione – in questo momento non rappresenta gli interessi di politica estera del Paese perché non contribuisce alla sicurezza regionale, alla stabilità e agli attuali sforzi diplomatici internazionali diretti a raggiungere una soluzione pacifica della crisi in Ucraina”.
Il presidente della Commissione Parlamentare per il Commercio con l’Estero, Šemsudin Mehmedović, ha definito la decisione come “dannosa”. La maggior parte della classe politica bosniaca, però, ha accolto positivamente la decisione della presidenza, oppure non ha commentato.
Il ministro per gli Affari Esteri, Zlatko Lagumdžija, ha incontrato nei giorni successivi l’ambasciatore russo a Sarajevo, Peter Ivantsov, che ha espresso “soddisfazione” per la posizione assunta dalla presidenza bosniaca.
La vicenda, che ha movimentato la scena politica della Bosnia Erzegovina in questo inizio di anno, sembra essersi così conclusa. I suoi esiti però non dimostrano un’improvvisa vocazione pacifista del paese balcanico, quanto la crescente influenza di Mosca nelle sue decisioni.
L’industria delle armi rappresenta infatti un importante elemento dell’export bosniaco. La tradizione della Bosnia Erzegovina in questo settore data da prima della guerra e (purtroppo) non sembra conoscere crisi. Secondo i dati forniti dalla Camera per il Commercio con l’Estero, e riportati dal portale informativo Balkan Insight , nei primi 10 mesi del 2014 la Bosnia Erzegovina ha esportato armi per 36 milioni di euro. Nello stesso periodo del 2013, le vendite avevano raggiunto i 25 milioni di euro.
Il giornale in lingua inglese “Bosnia Daily” ha fornito ieri cifre relative alla sola Federazione della Bosnia Erzegovina (FBiH) che confermano questo trend crescente, ma che sono molto più consistenti. Il giro d’affari dell’industria militare, nei primi 9 mesi dell’anno scorso, ammonterebbe a 48 milioni di euro nella sola FBiH, segnando un aumento del 40,8% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. La componente più rilevante dell’export militare, in forte espansione dal 2010, sarebbero le munizioni: bombe, granate, siluri, razzi ecc. Bloccare la commessa del governo di Kiev che, secondo i media locali, valeva intorno ai 5 milioni di euro, non è stata certo una decisione indolore.
Il fornitore, la ditta Unis-Group di Ilidža, Sarajevo, ha annunciato ricorso. Secondo il manager del gruppo, Suvad Osmanagić, la decisione di bloccare le esportazioni rappresenta un “abuso di potere” ed è stata presa in violazione della legge. L’Ucraina, secondo Osmanagić, non è in nessuna lista di Paesi verso i quali sia vietato l’export di armi, e i ministri avrebbero ceduto alle “pressioni russe”. Il gruppo sostiene inoltre che la decisione della Presidenza non può essere applicata retroattivamente, e lamenta perdite per 10 milioni di marchi convertibili, circa 5 milioni di euro. Tutte le munizioni che avrebbero dovuto essere esportate in Ucraina, infatti, erano contrassegnate “con il nome del cliente”, i.e. l’esercito ucraino, e se non consegnate dovranno essere distrutte.
L’affare della Unis-Group segnala una volta di più quanto la mutata situazione in Europa proietti le proprie conseguenze sui Balcani. La Bosnia Erzegovina, stretta tra le aspirazioni europee e il patrocinio esercitato da Mosca sulla parte serba del Paese, è l’anello debole della regione. Quando, il 22 gennaio scorso, il ministro per il Commercio con l’Estero e i Rapporti Economici, Boris Tučić, si è trovato sulla scrivania il dossier della Unis per approvazione, non ha trovato di meglio da fare che dimettersi. Il presidente della Republika Srpska e leader del suo stesso partito, Milorad Dodik, aveva dichiarato che la Bosnia Erzegovina non avrebbe dovuto fornire armi ad un Paese impegnato in un conflitto armato con la Russia. Dopo le dimissioni del ministro, Mosca è intervenuta nuovamente chiedendo esplicitamente alla Bosnia Erzegovina, tramite il portavoce del ministero degli Esteri, Alexander Lukashevich, di non vendere all’Ucraina armi “che verrebbero utilizzate per uccidere civili”.
I media locali , però, hanno messo in rilievo che Mosca, mentre chiede a Sarajevo di non inviare armi a Kiev, fornisce armi ai separatisti, inclusi tank T-80, razzi e armi leggere, citando le relative inchieste del Guardian e del New York Times. L’opinione pubblica del Paese sembra essere divisa. Si tratta di una questione non solamente economica, ma che assume anche un rilievo simbolico in un Paese che ricorda gli effetti asimmetrici dell’embargo di armi decretato dalle Nazioni Unite nella guerra 92-95.
L’analista Ivan Krastev, intervistato da Radio Free Europe , ha allargato la prospettiva mettendo in relazione quanto sta avvenendo sul piano regionale (balcanico) con quello europeo e globale. Secondo Krastev, “il sostegno russo alla politica secessionista della Republika Srpska potrebbe destabilizzare profondamente la Bosnia”, ma la pressione esercitata in questo momento da Mosca nei confronti di Serbia o Bosnia Erzegovina non è diretto ai Balcani, ma rappresenta in realtà una pressione “nei confronti di Berlino, dal momento che è la Germania ad aver assunto un ruolo guida nei Balcani, e Mosca sta informando Berlino del fatto che [la Russia] potrebbe essere estremamente efficace nel creare problemi.”
Secondo il fondatore dello European Council for Foreign Relations, Mosca non considera il conflitto in Ucraina come un conflitto "contro l’Occidente", ma come un confronto con gli Stati Uniti, e obiettivo strategico della politica estera russa sarebbe in questo momento quello di cercare di allontanare le posizioni americane da quelle europee, partendo da Berlino e passando (anche) per i Balcani.
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