Sarajevo, un secolo di cinema
Lungometraggi, corti e documentari: le promesse del cinema bosniaco. Breve rassegna cinematografica sui film presenti al Film Festival di Sarajevo, conclusosi il 27 agosto scorso
Centosette lungometraggi in 108 anni di cinema (la prima proiezione a Sarajevo risale al 27 luglio 1897) con un sensibile incremento negli ultimissimi anni. I premi a Danis Tanovic, Srdjan Vuletic o Pjer Zalica hanno stimolato la produzione bosniaca e richiamato l’occhio di produttori internazionali e istituzioni che sostengono progetti cinematografici. Così per il secondo anno dentro il Sarajevo Festival è stato creato il Nation Film Festival of Bosnia Herzegovina. Una vetrina – abbinata a una piccola pubblicazione per i tre lungometraggi, i 10 documentari, i sei cortometraggi e i setti progetti (cui si aggiungono tre coproduzioni) in corso.
Non è un caso se le due menzioni speciali della giuria cortometraggi sono andate a due lavori bosniaci: «Prva plata – Paycheck» di Alen Drljević e "Ram za sliku moje domovine – Frame for the Picture of My Homeland" di Elmir Jukić, che confermano la ricchezza di talenti della recente scuola del cortometraggio bosniaco.
Tra i lungometraggi l’attenzione era per "Go West" di Ahmed Imamović, proiettato fuori gara nell’arena Open Air: lunghi applausi e una standing ovation per regista e cast (Tarik Filipović, Mario Drmać, Rade Šerbedžija, Miriana Karanović). Il film del 34enne sarajevese, che si era già segnalato con il corto "10 minuti" vincitore di numerosi premi, aveva suscitato accese polemiche fin dal momento della lavorazione.
Le ragioni si capiscono dall’inizio, quando il protagonista, raccontando la sua storia a una giornalista francese (la grande Jeanne Moreau che appare solo nel finale) dice che "nei Balcani è più facile accettare di avere un criminale in famiglia che un gay". La storia è, sulla falsariga di "A qualcuno piace caldo", l’amore omosex tra un serbo e un bosniaco mussulmano nel bel mezzo della guerra. Il primo fa travestire da donna l’amico per portarlo al villaggio natale spacciandolo come sua fidanzata. Il trucco riesce ma l’esercito chiama e il giovane deve rispondere lasciando al villaggio il compagno. La guerra è più implacabile delle discriminazioni e solo uno dei due, alla fine sedotto con successo da una straordinaria Mirjana Karanović nei panni di una donna selvaggia e genuina, ce la fa.
Più corale e complesso "Well Tempered Corpses" dell’altro bosniaco Benjamin Filipović, coprodotto dall’italiana Sintra di Rosanna Seregni e presentato in gara. Storie che si intrecciano nel dopoguerra tra imprenditori scalcinati (Lazar Ristovski), ministre concentrate sull’apparire (strepitosa la scena in cui si masturba rivedendosi intervistata in televisione) e coppie gay – di nuovo – alle prese con i pregiudizi. E tutto ruota attorno a una camera mortuaria e una macabra scommessa. Non tutte le storie sono allo stesso livello, ma efficaci nel descrivere l’assurdità della situazione, da qualsiasi punto di vista la si osservi.
Terzo lungo "Kod amidže Idriza" di Zalica che ha già circolato per molti festival ottenendo anche premi, tra questi allo sloveno Izola Cinema.
Tra i documentari si segnala "Ljubav na granici – Borderline Lovers" di Miroslav Mandić (già in gara nella competizione video al Festival di Locarno a inizio agosto) che mostra i piccoli grandi drammi amorosi e familiari di coppie divise dalle frontiere. L’amore non guarda le nazionalità, i familiari e i vicini di casa sì. Mandić non cerca il colpo a effetto, il ricatto emotivo, si mette accanto ai protagonisti e li filma con discrezione e partecipazione; l’effetto è di verità e il documentario crea partecipazione e dà un calcio ai pregiudizi.
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