Sarajevo, locus teologicus
La visita di Papa Francesco in Bosnia Erzegovina come messaggio di pace in un luogo simbolo del dialogo inter-religioso in Europa e nel mondo. Conversazione con Franjo Topić, presidente dell’associazione culturale Napredak
Qual è il significato di questa visita per la Bosnia Erzegovina e in particolare per i cattolici che vivono in questo paese?
Questa visita ha un significato straordinario. È il secondo paese che il Santo Padre visita in Europa, dopo l’Albania, ed è un paese che vede la presenza di tre grandi comunità religiose, i cattolici, gli ortodossi e i musulmani. Io personalmente ritengo che la Bosnia Erzegovina (BiH) sia locus teologicus fondamentale per il dialogo e l’ecumenismo. Il pericolo di una guerra tra le religioni è, purtroppo, un tema di grande attualità, dopo gli attentati terroristici di Parigi e alla luce di quanto avviene in Nigeria, in Iraq e Siria. Il Santo Padre ha già più volte ricordato che non si può uccidere in nome di Dio e della religione, e credo che lo ripeterà anche qui, a Sarajevo.
Questo paese, luogo simbolo del dialogo ecumenico, è però stato anche simbolo del disastro e del fallimento di questo dialogo, negli anni ’90…
È chiaro che qui non si è sempre vissuto bene in termini di relazioni tra i diversi gruppi religiosi, purtroppo esiste anche una dimensione politica che esercita la sua influenza. La religione è stata usata anche come strumento per portare alla guerra, dato che qui religione e identità nazionale sono praticamente la stessa cosa, quasi tutti i croati sono cattolici, e lo stesso si può dire per i serbi, ortodossi, e per i bosgnacchi, musulmani.
Quanti sono oggi i cattolici in Bosnia Erzegovina?
Un terzo della popolazione cattolica di questo paese non c’è più, proprio a causa della guerra degli anni ’90. In alcune zone, in particolare nella Bosnia settentrionale, oggi Republika Srpska, dove c’era una grande presenza di cattolici, oggi praticamente non c’è più nessuno. La gente ha trovato una nuova vita e un lavoro altrove, per quanto riguarda i cattolici soprattutto in Croazia, e ormai, a 20 anni dalla fine della guerra, non c’è più ritorno. Sono rimasti in pochissimi. In altre zone però la situazione è diversa. Un anno fa è stato fatto il censimento della popolazione, ci sono risultati non ufficiali secondo cui in BiH ci sono 3.800.000 abitanti, di cui 550.000 sarebbero cattolici. Alcuni politici parlano di cifre inferiori. In ogni caso, è certo che abbiamo perso un gran numero di persone. Nel ’91, all’ultimo censimento fatto prima della guerra, eravamo 760.000.
Detto questo, dobbiamo anche aggiungere che la nostra Chiesa vive molto bene, nel senso delle sue attività, e della sua vitalità. Abbiamo molti seminaristi, con numeri superiori a quelli di molti altri paesi europei, abbiamo 840 sacerdoti, 540 suore, 4 giornali mensili e un settimanale, 19 radio e 3 televisioni private. L’organizzazione che dirigo, Napredak, che non è ufficialmente un’associazione cattolica ma è vicina al mondo cattolico, non ha mai cessato di operare, nemmeno durante la guerra. Oltre a sostenere la popolazione di Sarajevo e del resto del paese con gli aiuti umanitari, abbiamo continuato a organizzare concerti, 80 durante la guerra, mantenendo il nostro profilo, che è soprattutto culturale.
Anche oggi continuiamo il nostro lavoro con la realizzazione di eventi, la pubblicazione di libri e la promozione in generale della cultura. In questo senso direi che la nostra comunità, nonostante le perdite degli anni ’90, vive bene.
La comunità cattolica accoglierà naturalmente il Pontefice con grande entusiasmo. Qual è secondo lei l’atteggiamento del resto dei bosniaci nei confronti di questa visita?
Mi sono incontrato, anche recentemente, con il Gran Muftì della Bosnia Erzegovina, il reis Kavazović. Il leader della comunità islamica bosniaca ha espresso fin dall’inizio il suo sostegno nei confronti di questa visita, dicendo che la sua comunità farà tutto il possibile per appoggiarla. I bosniaci aspettano il Papa con cuore aperto, direi con amore, ci sono stati anche diversi sondaggi in questo senso. Forse una parte della politica serba in Bosnia Erzegovina non è entusiasta di questa visita, ma credo che la maggioranza dei serbi del paese riceveranno con simpatia il Pontefice. È importante ricordare che il Santo Padre non viene solo per i cattolici, ma – anche in quanto capo di Stato – per tutta la Bosnia Erzegovina e per i suoi cittadini. Tutti sanno che il Vaticano ha sempre appoggiato la Bosnia Erzegovina, in ogni istanza internazionale, in quanto paese multietnico, multireligioso e sovrano. Pensiamo a Giovanni Paolo II, oggi Santo, che ha parlato ben 263 volte della Bosnia Erzegovina. Questo è un segnale dell’affetto e dell’importanza attribuita a questo paese. Se guardiamo al miliardo e duecento milioni di cattolici che esistono al mondo, noi non significhiamo nulla. Eppure Papa Wojtyla ha anche nominato un cardinale a Sarajevo quando noi, se guardassimo alla dimensione della nostra comunità, non meriteremmo neppure un vescovo ausiliario (sorride).
C’è una questione che divide il Vaticano da una parte della comunità cattolica in Bosnia Erzegovina, quella di Medjugorje. Si tratta di un luogo visitato da milioni di fedeli provenienti da tutto il mondo, che il Vaticano però non riconosce. Questo potrebbe influenzare il successo della visita del Papa?
Non credo. È vero che una parte della Chiesa in Bosnia Erzegovina è divisa su questo. Alcuni si sono espressi sostenendo la soprannaturalità del fenomeno, altri in senso contrario. È chiaro che Medjugorje è attualmente uno dei più grandi fenomeni cattolici al mondo, è un luogo visitato da molta gente, ed è chiaro che non si tratta di una questione semplice, dato che il fenomeno dura ancora e ci sono i cosiddetti segreti dei veggenti. Ma dobbiamo ricordare che il Vaticano ha già creato una commissione internazionale, guidata dal Cardinale Ruini, che ha da poco terminato i propri lavori e consegnato le proprie conclusioni alla Congregazione per la Fede e al Santo Padre.
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