Sarajevo, la mia città
Un commento dai toni poetici e letterari sulla capitale della Bosnia Erzegovina, sulla sua capacità di rialzarsi e di ricominciare, sulla resilienza e sullo humor nero che la caratterizzano, ma anche sulla voglia di andarsene senza riuscirci
La mia Sarajevo, purtroppo, si rimpicciolisce giorno dopo giorno. Le persone vanno e vengono in questa città, dove si continua a costruire, spesso in modo disordinato, ma quello che non può essere ricostruito rimane nei ricordi.
Ho scritto un intero libro su questa città, un libro di poesie; innumerevoli testi giornalistici e letterari; ho innestato questa città nella mia opera letteraria e la città si è innestata dentro di me, è stato un processo bidirezionale. Per un certo periodo ero fortemente dipendente da questa città, ogni volta che andavo da qualche parte non vedevo l’ora di tornare.
Ho provato un paio di volte a trasferirmi in un’altra città, ma senza successo. Chi vive a Sarajevo, o ci ha vissuto, sa quanto ciò sia difficile. Oggi più che mai sono tentato di andarmene, perché l’unica cosa che continua a legarmi a questa città sono alcuni bei ricordi.
Per intenderci, la vita a Sarajevo è per molti versi più facile per chi aspira a vivere relativamente bene lavorando poco. A Sarajevo questo è possibile. In realtà, l’intera Bosnia è così, in qualche modo si sopravvive; la gente ama divertirsi e godersi la vita, le tentazioni dell’edonismo vi aspettano dietro ogni angolo. Il cibo è buono ed economico, soprattutto per chi arriva dall’Europa occidentale e da altri paesi ricchi. La gente è accogliente e calorosa, ad eccezione di alcuni tassisti e simili truffatori.
Qui la vita è bella, ma solo per chi è in grado di costruire intorno a sé una capsula impenetrabile, un guscio indistruttibile, per evitare che quell’energia negativa di cui è impregnata l’atmosfera della città penetri nel suo organismo.
Se siete turisti stranieri dovete sapere che Sarajevo è l’unica capitale europea dove in qualsiasi momento può verificarsi un’interruzione nell’erogazione dell’acqua potabile, che può durare per giorni. A volte, grazie a una fortuna cosmica, capita che il mio quartiere e la mia strada vengano risparmiati dalle riduzioni dell’acqua da mezzanotte fino alle cinque del mattino, ma ci sono stati anni in cui non ho mai avuto acqua da mezzanotte fino al mattino. E vivo in centro, vicino a uno dei quartieri più benestanti di Sarajevo.
Se vi chiedete perché non ci siamo ribellati contro questa situazione, vi dico che ci siamo ribellati, soprattutto nel febbraio 2014, quando le strade intorno al palazzo della Presidenza della Bosnia Erzegovina hanno nuovamente assunto il ruolo che avevano durante la guerra, diventando preda delle fiamme e dell’estasi della battaglia. La protesta non ha dato alcun frutto perché la maggior parte dei cittadini sarajevesi non era favorevole al cambiamento del sistema né tanto meno al cambiamento del governo, al quale evidentemente non rimproverava nulla. Noi, che all’epoca eravamo minoranza, siamo rimasti una minoranza frustrata.
È vero, Sarajevo in un certo senso è una città mitica, sappiamo di quanti strati è composta la sua storia. Tuttavia, di questa storia oggi rimane ben poco nella città. Nel XVI secolo gli edifici nel centro storico di Sarajevo erano dotati di riscaldamento a pavimento, ovvero di impianti di riscaldamento a vapore, e il sistema di approvvigionamento idrico funzionava meglio dell’attuale. Anche i primi tram comparvero presto, ben prima della loro comparsa a Vienna.
La Prima guerra mondiale è iniziata a Sarajevo, le montagne intorno alla città hanno ospitato i Giochi olimpici invernali, anche l’ultima guerra combattuta in Bosnia ha lasciato tracce ancora visibili nella città. La ripresa dalla guerra è ancora in corso. In questo senso, Sarajevo è una grande città. Una metropoli con uno spirito che non si è mai voluto piegare davanti alle granate, ai cecchini e alla potenza militare di coloro che, con l’approvazione dell’Europa e delle Nazioni Unite, uccidevano indisturbati come in un film distopico.
Probabilmente non lo sapete, ma durante la guerra diversi avventurieri stranieri si recavano sulle colline intorno alla città, dove erano posizionate le forze serbe, per provare la sensazione di sparare sui civili nella Sarajevo assediata. Il più noto tra questi turisti è lo scrittore russo Eduard Limonov, che è stato immortalato mentre sparava sulla città con una mitragliatrice chiamata sijač smrti [seminatrice della morte] dalle telecamere del regista polacco Pawel Pawlikovski nel film “Serbian Epics”.
Sarajevo è una grande città perché durante la guerra, oltre ad aver mostrato una strenua resistenza militare e oltre al fatto che i suoi cittadini hanno resistito al più lungo assedio militare avvenuto in Europa dopo quello di Stalingrado, si è dimostrata capace di opporre anche una resistenza spirituale, in cui la cultura ha giocato un ruolo fondamentale.
Durante l’assedio di Sarajevo hanno perso la vita 11.000 civili, cittadini sarajevesi di tutte le nazionalità e religioni. Ciononostante, Sarajevo è ancora una città aperta e non è mai caduta preda dell’odio.
Sarajevo è l’unica città in cui, durante i lunghi freddi inverni degli anni della guerra, i cittadini – persone comuni, scrittori, poeti, artisti – si scaldavano bruciando i classici della letteratura mondiale.
In una sua poesia intitolata “Kavu na Balzacu” [Caffè su Balzac] Ilija Ladin scrive:
“Bruciamo i libri sì
Prego sedetevi Volete un caffè su un Balzac
Oppure un tè su Goethe?”
Sarajevo è una città dove è del tutto normale che a febbraio la temperatura giornaliera sia di -16° C e che di notte scenda fino ai – 26°C, mentre le estati sono spesso torride, con temperature fino ai 41°C. Non c’è moderazione, si esagera in tutto, persino nell’uso dell’autoironia. L’umorismo nero è il marchio di fabbrica di questa città. Ecco una barzelletta sarajevese: Mujo cattura un cetnico d’oro nel fiume Miljacka e quest’ultimo gli dice: “Lasciami andare, ti riempirò tre fosse comuni” [il riferimento è alla fiaba russa del pesciolino d’oro che esaudisce tre desideri, ndr].
Molti stranieri erano rimasti a Sarajevo durante la guerra e anche dopo la fine della guerra. Ho sentito che in psicologia esiste l’espressione “longing for Sarajevo” [mal di Sarajevo]. So cosa significa, perché anch’io sono stato, e sono tuttora, ‘malato’ di questa città. A Sarajevo con questo termine viene indicato un fervente tifoso di una delle squadre di calcio della città, ad esempio un ‘malato’ dello Željo (FK Željezničar, lo storico club di calcio sarajevese fondato dai lavoratori del quartiere di Grbavica).
Ho avuto l’onore di vivere per un paio di mesi nella Sarajevo assediata. Dico l’onore perché ho visto com’era allora la città. Osservata dall’esterno sembrava distrutta, deserta, coperta da vegetazione, mentre all’interno, nei locali e nei bar era piena di vita, di allegria e di ottimismo.
Non dimenticherò mai quella Sarajevo. I jazz club dove bevevamo birra sarajevese e fumavamo erba scadente, ascoltando le note immortali del jazz, godendoci quei momenti dopo aver appreso che la guerra era ufficialmente finita, nonostante le granate continuassero a scoppiare (e le persone continuassero a morire nelle strade di Sarajevo).
Era una sensazione paragonabile a quella provata dai cittadini di Londra sotto le bombe, a quello spirito di resilienza davanti alla morte, anche se la nostra piccola guerra e la Seconda guerra mondiale non possono essere messe sullo stesso piano.
La mia Sarajevo è quello spirito, quella forza di alzarsi in piedi dopo un colpo da knock-out e sconfiggere il nemico. Sarajevo è una grande vincitrice da questo punto di vista, da ogni altro punto di vista è una perdente, ma questa non dovrebbe essere una storia negativa.
La mia Sarajevo è quando il conducente ferma il filobus davanti al semaforo, apre la porta e va nel panificio a comprare un panino, mentre i passeggeri restano seduti senza protestare e aspettano che il viaggio prosegua. La mia Sarajevo è anche la terrazza del ristorante “Dva ribara” [Due pescatori] dove passavamo il tempo a interpretare il destino del nostro paese, con bevande alcoliche e spuntini, e dove ho concepito nella mia mente metà della mia poesia.
La mia Sarajevo è anche la libreria cafè “Buybook”, il cui nome è un gioco di parole, perché nel gergo sarajevese il termine bajbuk o bajbukana indica prigione, mentre il significato in inglese è del tutto chiaro. In quella libreria, seduto ad un tavolo, ho raccontato la maggior parte dei miei racconti di guerra e di quelli del periodo del dopoguerra. “Buybook” era la mia capsula in cui contemplavo la letteratura e, come al ristorante “Dva ribara”, scrivevo i miei testi sull’invisibile macchina da scrivere della mia mente.
La mia Sarajevo è grande nei miei ricordi, ma in realtà si rimpicciolisce ogni giorno che passa. Tuttavia, grazie alla sua grandezza metaforica avrà sempre un posto nella mia mente e nel mio cuore. È la città in cui ho vissuto più a lungo nella mia vita.
Sarajevo è la città che ha vissuto la distopia di Orwell ed è sopravvissuta. Una città che si è elevata al di sopra della morte già per il solo fatto di averla lasciata entrare nei suoi cortili, nei suoi campi da calcio, di averla addomesticata. Per quelli che non lo sanno, i soldati e i cittadini sarajevesi uccisi durante la guerra venivano sepolti nei cortili e nello stadio di riserva della FK Sarajevo, sia perché non c’era più spazio nei cimiteri sia perché i criminali posizionati sui monti non avevano alcun rispetto per la dignità degli esseri umani, sparando persino sui funerali. Come se non bastasse aver ucciso un uomo, ma bisognava, giusto per essere sicuri, ucciderlo un’altra volta. Ed è per questo che gli spazi pubblici fuori dal mirino del nemico venivano trasformati in cimiteri improvvisati.
Gli spazi pubblici venivano usati anche come orti per coltivare le verdure, e per molti anni dopo la fine della guerra si potevano vedere, davanti ai palazzi, le piante di pomodoro con frutti pendenti e i cavoli cappuccio viola, nonché le foglie verdi della cipolla rossa piegate a terra sotto il peso della pioggia.
C’è una canzone pop patriottica che dice: “Sarajevo rimarrà, tutto il resto passerà”. Questo verso è, in un certo senso, pura verità. Sarajevo è sopravvissuta, anche se le sue profonde ferite non sono ancora guarite del tutto. Ma se non vi interessa nulla di tutto questo, potete comunque godere delle attrazioni turistiche e di altre bellezze di questa città.
C’è chi ritiene che il XX secolo sia finito a Sarajevo con l’assedio e la distruzione della città. Secondo me, quel secolo non è ancora finito e non ha alcuna intenzione di finire. Sarajevo fu ridotta in polvere nel 1699, e poi di nuovo nel 1992. La mia Sarajevo ha la capacità di ricominciare sempre da zero. È la cosa migliore di questa città, la sua vitalità. Non sono sicuro che alcuni degli attuali abitanti di Sarajevo siano degni della sua grandezza. In fin dei conti, Sarajevo rimarrà, tutto il resto passerà.
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