Sarajevo, la croce della discordia
Sulla collina di Zlatište, sopra Sarajevo, da dove i cittadini durante la guerra venivano quotidianamente bombardati, dovrebbe ora sorgere una croce di 26 metri di altezza, per ricordare le vittime serbe. I sarajevesi insorgono
"Non ce la faranno a costruirla. Glielo impediremo. Abbiamo il diritto morale che è proprio di tutte le vittime e lo difenderemo, dovessimo andare lì ad occupare il cantiere". Nel piccolo edificio che ospita la sede dell’associazione “Unione delle vittime civili di guerra” (Udruženje – Unija Civilnih Žrtava Rata) del Kanton Sarajevo, il segretario Muzafer Teskeredžić ripete anche a Osservatorio Balcani e Caucaso quello che ormai è diventato il suo mantra, riportato regolarmente da tutti i quotidiani della città. Vibrante di collera, si alza in piedi. Indica un foglio, appeso in bella vista dietro di sé, al muro della segreteria. Sopra ci sono scritti dei numeri: 50.000, i sarajevesi feriti; 11.000, le persone uccise; 1.601, i bambini che hanno perso la vita; 329, le granate che sono cadute ogni giorno; 1.425, i giorni di durata dell’assedio di Sarajevo, "il più lungo", sottolinea una volta di più Teskeredžić, "della storia militare moderna".
Quella croce, che per adesso esiste solo sulla carta, sarà alta ben ventisei metri. Avrà iscritti su di sé i nomi dei serbi morti durante l’assedio della capitale bosniaca. E sorgerà su una delle colline sopra il quartiere di Grbavica, a Zlatište, lì dove il territorio della Federacija Bosne i Hercegovine cede il passo all’entità della Republika Srpska (RS). Da queste stesse colline l’artiglieria delle milizie serbe bombardava quotidianamente la popolazione di Sarajevo. Qualche centinaio di metri più in basso c’è l’antico cimitero ebraico che, come scrive lo storico sloveno Jože Pirjevec, fu "una zona tra le più contese tra le parti in lotta". Da qui era possibile infatti "centrare qualsiasi bersaglio nel centro della città, distante in linea d’aria solo qualche centinaio di metri".
Le carte in regola
Tra qualche mese, su quelle stesse colline, potrebbe sorgere una gigantesca croce, a somiglianza di quanto fatto sul colle di Hum, a Mostar, dai croati bosniaci. "Abbiamo le carte in regola, e siamo in possesso dell’autorizzazione del governo della Republika Srpska", sottolinea Branislav Dukić, il presidente dell’associazione delle vittime dei campi di concentramento della RS, che rappresenta chi durante la guerra venne internato nei campi musulmani e croati. "Nella sola Sarajevo, più di seimila serbi sono stati uccisi durante il conflitto", ci ripete. "Abbiamo cercato a più riprese, con le autorità della Federacija, di costruire un memoriale in città, nei pressi della vecchia caserma Viktor Buban, ma non ci siamo mai riusciti. Il permesso ci è sempre stato negato, con la scusa che ‘nessun cetnico è mai morto a Sarajevo’. Questo ci hanno detto. Siamo stati costretti a costruirla a Zlatište, che è a tutti gli effetti territorio della Republika Srpska".
Dukić parla pacatamente e non nasconde che i nomi, iscritti nel memoriale, saranno "sia quelli delle vittime civili, sia dei militari". Alla domanda se la costruzione di un memoriale di questo tipo non possa venire interpretata come una provocazione da parte degli abitanti della città, comincia a dare in escandescenze: "Perché, secondo lei è una provocazione? È questo quello che pensa? Abbiamo scelto la croce – si giustifica – perché volevamo che il memoriale fosse un simbolo capace di unire tutti i serbi, al di là delle proprie affiliazioni politiche. Noi siamo serbi, siamo cristiani ortodossi".
"Pensate davvero che sia una provocazione?", incalza Dukić: "allora andate a chiedere ai bosgnacchi perché hanno costruito centinaia di moschee in città, chiedete loro che fine hanno fatto i vecchi abitanti serbi e croati. Noi abbiamo permesso ai musulmani di costruire i loro monumenti, a Srebrenica, a Prijedor, a Bratunac… Loro invece rifiutano di fare altrettanto". Chi pagherà per questo monumento? E quanto verrà a costare? "Un preventivo non è ancora stato terminato, a dire il vero lo stiamo elaborando ora. Posso dire però che non si tratterà di denaro pubblico. Non abbiamo chiesto un marco al governo della RS. Apriremo un bando per trovare un costruttore disposto a realizzarlo. Ci piacerebbe che a finanziare quest’opera fossero delle donazioni private, fatte spontaneamente da tutti i cittadini della Republika Srpska".
L’oltranzismo delle associazioni, il vuoto legislativo
I lavori per la costruzione del memoriale dovrebbero cominciare in ottobre. In perfetto orario per le elezioni del 2014. Senida Karović, presidentessa dell’associazione delle vittime civili del Kanton Sarajevo, riconosce che "sì, probabilmente c’è un discorso anche di propaganda e di campagna elettorale". Però questo è un tema su cui, in effetti, si discute da parecchio tempo. "Un monumento del genere sarebbe un caso isolato, finora a Sarajevo non ci sono mai stati degli esempi di memoriali così controversi". L’anno scorso, il vicepresidente della Federacija, Svetozar Pudarić, aveva lanciato un’iniziativa per la costruzione di un monumento alla memoria di una trentina di cittadini serbi di Sarajevo, uccisi dai soldati dell’Armija ai comandi di Mušan Topalović ‘Caco’ e gettati in una foiba sul monte Trebević. L’idea aveva ottenuto il sostegno dell’allora sindaco di Sarajevo, Alija Behmen, ma non se ne è più fatto nulla.
Secondo il Tribunale dell’Aja, 836 civili serbi vennero uccisi a Sarajevo durante l’assedio. "Ma sono stati ammazzati anche loro dalle granate dei cetnici", sottolinea con vigore Karović, "le granate, quando esplodevano, non chiedevano la nazionalità delle vittime. Ad oggi ci sono dei memoriali che ricordano i nomi di questi civili". Non sono, però, dei monumenti alle vittime serbe. "In città esistono già 43 lapidi, che ricordano il martirio sofferto da tutti i cittadini di Sarajevo, senza distinzioni di sorta", spiega Karović.
A mani nude
Se le cose non cambiano, il memoriale di Zlaštite si farà. Riaprendo così polemiche e rinvigorendo tensioni delle quali il Paese, vista la delicata situazione economica e la perdurante crisi politica, non sentiva alcun bisogno. Il fatto è che i cittadini di Sarajevo e le vittime dell’assedio non hanno strumenti giuridici per contrastare la decisione delle autorità di Banja Luka. "Ce ne freghiamo se quella è Republika Srpska", minimizza sempre Teskeredžić. "Quell’entità è stata costruita sul sangue e sul genocidio, e i suoi giorni sono contati, così come quelli dell’accordo di Dayton. Quella è Bosnia Erzegovina e noi siamo cittadini di Bosnia Erzegovina. Abbiamo la giustizia dalla nostra parte, il Tribunale dell’Aja ha riconosciuto che siamo stati vittime di un genocidio negli anni novanta, e ci sono più di tremila sentenze, emesse dal Tribunale di Sarajevo, che indicano chiaramente che i cittadini della città sono stati vittime di un’aggressione da parte dei serbi".
Interrogati su quali sono gli strumenti legali realmente a loro disposizione per impedire la costruzione della croce monumentale, messi di fronte alla realtà dei fatti, i responsabili dell’associazione delle vittime civili del Kanton Sarajevo ammettono tuttavia di non averne alcuno. E citano, alla disperata, l’aiuto che sicuramente verrà "dall’Unione Europea, dall’OSCE, dall’Alto rappresentante internazionale, da Tanja Fajon [deputata slovena al parlamento europeo], da Peter Sørensen, dall’EUFOR, dalle ambasciate straniere".
E se cominceranno i lavori? "I lavori non cominceranno", assicura Teskeredžić: "Verremo a migliaia. Smantelleremo quella croce a mani nude, se serve".
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