Sarajevo: effetto Ucraina
Il Consiglio dell’UE ha accolto la proposta anglo-tedesca per ridare vita al percorso europeo della Bosnia Erzegovina. Terza e ultima puntata dell’analisi di Osservatorio
Il seguente articolo è il terzo di una serie di tre dedicata al percorso di integrazione europea della Bosnia Erzegovina
Il recente dibattito in sede ONU sulla prosecuzione della missione militare europea in Bosnia Erzegovina ha evidenziato un mutato clima tra i diversi partner che collaborano al mantenimento della pace nel paese. In particolare, la posizione russa su EUFOR ha mostrato il rischio di un travaso nella regione balcanica del difficile confronto tra Mosca e Bruxelles sull’Ucraina. La missione EUFOR Althea, forte di circa 900 militari, più un numero imprecisato di riserve fuori dal paese, funge da forza di deterrenza per il mantenimento della sicurezza in BiH. Attualmente le truppe EUFOR, che si trovano nel paese dal 2004, sono attive soprattutto nella formazione e addestramento delle forze armate bosniache. Ogni anno il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite delibera sul prolungamento della missione.
Quest’anno, per la prima volta, la Russia si è astenuta dal voto. Secondo diversi analisti1, l’obiettivo di Mosca – che naturalmente dispone di diritto di veto nel Consiglio – è mostrare all’Occidente, e in particolare all’UE, che all’occasione può influenzare, o destabilizzare, il corso degli eventi nei Balcani. L’Ambasciatore russo in BiH, Petr Ivancov, ha però dichiarato che il voto di astensione non era diretto contro EUFOR ma contro altri aspetti della risoluzione, la cui sostanza – secondo l’Ambasciatore – era volta a sostenere l’integrazione del paese balcanico nella NATO. L’episodio, a lungo commentato sui media locali, rende in qualche modo evidente la fine del sistema di relazioni nel quale sono maturati gli Accordi di Dayton e sono state create le strutture che tutt’ora sovrintendono al mantenimento della pace e della sicurezza in Bosnia Erzegovina. Le nebulose conclusioni dell’ultimo direttivo del Consiglio di Amministrazione della Pace (PIC), svoltosi a Sarajevo il 9 e 10 dicembre, ne sono conferma.
Come sostenuto in un saggio di Francisco de Borja Lasheras, pubblicato dall’European Council for Foreign Relations, “il mondo nel quale è stato creato Dayton non esiste più, come non esiste più la Pax Americana che garantiva la forza necessaria a mantenere quel sistema in Bosnia e altrove. Dayton e le relative strutture di divisione del potere si sono atrofizzate2”.
Il crepuscolo
Questo processo sta però assumendo le forme di un lungo crepuscolo. Le strutture di Dayton, come l’Ufficio dell’Alto Rappresentante (OHR), sono sempre più avvolte nell’ombra, ma fatica ad emergere un nuovo ordine nel quale possa affermarsi un chiaro avvicendamento tra OHR e UE. Nell’interludio, entrambe le strategie – quella degli anni ’90 (OHR), e il soft power dell’UE – funzionano a fatica, e la Bosnia resta chiusa nel limbo.
In questa fase la Russia gode di una sorta di vantaggio diplomatico, rafforzando i legami politici ed economici con la Republika Srpska3 e dicendo ad alta voce quello che altri dicono solo tra le righe, cioè che l’OHR andrebbe chiuso. Il concetto è stato ribadito recentemente in un’ampia intervista rilasciata dal neo Ambasciatore russo in Bosnia Erzegovina al quotidiano «Oslobodjenje»4, e ha trovato espressione molto più accesa nella conferenza di saluto del rappresentante serbo uscente della presidenza bosniaca, Nebojša Radmanović5. L’ex presidente ha attaccato duramente il lavoro dell’Ufficio dell’Alto Rappresentante, dichiarando che era tempo di chiudere l’OHR: “Inzko e quelli come lui della comunità internazionale comandano qui. Loro non ci concedono la sovranità, cioè il governo sul nostro territorio”, e ha poi esortato tutti in Bosnia Erzegovina a dire “goodbye” a Inzko.
Una generale stanchezza sembra attraversare l’opinione pubblica bosniaca nel suo rapporto con la comunità internazionale, presente in maniera così massiccia nel paese a partire dalla fine della guerra. Anche il Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia, un tempo considerato una sorta di deus ex machina non solo per garantire la giustizia per quanto avvenuto negli anni ’90, ma anche per promuovere un processo di riconciliazione, è visto con sempre maggiore insofferenza. La luna di miele tra le associazioni delle vittime e i giudici è finita da tempo, a seguito di una serie di sentenze (in particolare nei casi Gotovina e Markac, Stanišić e Simatović e Perišić) che sono state ampiamente criticate dai media locali e dai comitati. Il pasticcio del rilascio provvisorio di Vojislav Šešelj6, però, ha recentemente rinfocolato le polemiche. Nel corso dell’ultima visita compiuta dal presidente del Tribunale, Theodor Meron, in Bosnia Erzegovina, i rappresentanti delle associazioni delle vittime (Murat Tahirović, dell’Associazione Vittime e testimoni del genocidio e Hatidža Mehmedović, dell’Associazione Madri di Srebrenica) hanno chiesto senza mezzi termini le sue dimissioni7.
I conservatori
Gli esiti della tornata elettorale del 12 ottobre scorso hanno confermato in larga parte il successo dei partiti conservatori che, con qualche parentesi, hanno dominato la scena politica della BiH a partire dagli anni ’908. Data la natura del sistema istituzionale bosniaco, tuttavia, la formazione dei nuovi governi procede con lentezza, tranne che nella Republika Srpska, dove la premier designata, Željka Cvijanović, dispone però solo di un’esigua maggioranza9.
La questione principale sollevata dagli analisti, infatti, è se i vincitori saranno in grado di dare vita rapidamente a governi in grado di governare, paventando il rischio che coalizioni complesse e deboli, con maggioranze diverse nei diversi livelli di governo, non riescano a far ripartire il paese10, impoverito da anni di crisi politica, economica e sociale, e ulteriormente segnato dalle catastrofiche alluvioni del maggio e agosto di quest’anno11.
Nel frattempo gli operai e i disoccupati del cantone di Tuzla, coloro che hanno dato vita alle rivolte che nel febbraio scorso si sono estese a tutto il paese, hanno già ripreso la loro mobilitazione12. Per il momento le proteste si esprimono in forme pacifiche, quali blocchi stradali o occupazione di edifici pubblici, restano confinate al livello locale e orientate alla soluzione di problemi concreti (pagamento di stipendi o di prestazioni arretrate, in generale la definizione dei problemi sociali lasciati in eredità dagli opachi processi di privatizzazione avvenuti nell’area di Tuzla). Le problematiche espresse in quel cantone, per quanto in forme più acute, non sono però dissimili da quelle presenti su tutto il territorio nazionale, e nessuno è in grado di prevedere eventuali nuovi episodi generalizzati di rivolta.
I Plenum
Il movimento di protesta emerso a partire dalle manifestazioni di febbraio, sviluppatosi poi nei cosiddetti Plenum, sorta di assemblee permanenti costituite nei principali centri del paese, in particolare nella Federazione, rappresenta sotto diversi profili uno sviluppo importante nello scenario politico e sociale della Bosnia di Dayton. In un paese privo di una consistente tradizione di democrazia, e di movimenti di base, passato dal socialismo alla guerra e poi a un lungo dopoguerra nel quale il sentimento di cittadinanza è stato rifondato su basi etniche e i rapporti sociali precedenti sono stati recisi, migliaia di persone hanno cominciato a sperimentare metodi completamente nuovi per discutere e decidere del proprio futuro. Gli esiti sono stati inevitabilmente limitati sul piano dei risultati concreti ottenuti, ma è evidente che questo movimento ha sedimentato frutti in termini di creazione di reti, di acquisizione di esperienza politica e in generale di capacità di superare la fase della mera rappresentazione del dissenso. Eventuali nuovi movimenti sociali in Bosnia Erzegovina trarranno quindi inevitabilmente linfa dall’esperienza del 2014, in termini di accresciuta consapevolezza della propria forza, di capacità organizzativa e di proposta.
Come sostenuto da Damir Arsenijević nell’introduzione al volume da lui recentemente curato sul movimento del 2014 in Bosnia Erzegovina13, infatti, “dopo le proteste del febbraio 2014 e i Plenum […] la politica, considerata per lo più come sinonimo di corruzione, nepotismo e clientelismo, è ritornata nello spazio pubblico14 […] La solidarietà, come concetto e come pratica, è stata recuperata dal suo essere tenuta in ostaggio da quanti volevano consegnarla alla storia15”, e infine “il linguaggio nel quale sono state articolate le strategie [del movimento] non ha lasciato alcuno spazio all’ambiguità; sui manifesti era scritto “Abbiamo fame in tutte e tre le lingue”, “Revochiamo le privatizzazioni criminali” e “Basta con il nazionalismo”, identificando chiaramente le nuove priorità politiche16”.
Rispetto alla più generale possibilità che questi movimenti svolgano un ruolo importante nel futuro del paese, in particolare nella trasformazione delle strutture politiche e istituzionali lasciate in eredità dalla guerra e dagli anni ’90, tuttavia, ci sono alcuni elementi da tenere in considerazione. Il movimento del 2014 ha espresso un fiero anti-elettoralismo che, verosimilmente, si è tradotto in una diserzione generalizzata delle urne. Il dato della partecipazione al voto di ottobre, infatti, è risultato addirittura inferiore, di due punti percentuali, a quello (già basso) del 201017. Le aspettative di chi si attendeva una trasformazione del quadro politico in conseguenza dell’ampiezza dei movimenti di protesta, e di una loro partecipazione al voto a favore delle forze considerate vicine, sono andate completamente disattese.
Se l’attuale condizione di impermeabilità tra movimenti sociali e forze politiche prosegue, senza sfociare in un processo costitutivo di tipo democratico-liberale, o si limita a forme di cooptazione di singoli, il potenziale trasformativo dei movimenti potrebbe sfociare in esperimenti di grande valore da un punto di vista sociale, ma risultare imbrigliato su un piano di più generale confronto con la politica e le istituzioni. Nella peggiore delle ipotesi, l’incomunicabilità tra la piazza e il palazzo potrebbe generare fenomeni di cortocircuito, innescando spirali degenerative. Sotto questo profilo va considerato che, nonostante la recente storia del paese, in Bosnia Erzegovina il livello di esasperazione sociale e, in alcuni casi, di disperazione individuale, fa sì che la violenza possa venire considerata come “l’unico modo per farsi ascoltare” in un generale contesto di crisi e mancanza di prospettive18.
(3 – fine)
1 V. ad es. Tobias Flessenkemper, del Centro Internazionale di Formazione Europea di Nizza, cit. in New strategy for Russia and BiH? , Oslobodjenje, 12 novembre 2014 e Kurt Bassuener, del Democratization Policy Council, cit. in Russia Flexes Muscles on EU Bosnia Mission, «BIRN Balkan Insight», 17 novembre 2014. Il consigliere politico della delegazione francese presso le Nazioni Unite, Philippe Bertoux, poco dopo il voto ha twittato “La Russia esporta la cattiva atmosfera ucraina in una questione non collegata. Gioco pericoloso. Male sia per la Bosnia che per il Consiglio di Sicurezza”.
2 Eight inconvenient truths on Bosnia and EU policy in the Western Balkans , di Francisco de Borja Lasheras, European Council on Foreign Relations, 22 ottobre 2014.
3 Incontrando il 18 settembre a Mosca il presidente della Republika Srpska (RS), Milorad Dodik, e la premier dell’entità, Željka Cvijanović, il presidente russo Vladimir Putin ha dichiarato che i legami tra Russia e RS sono un punto luminoso in “tempi difficili per le relazioni internazionali e in Europa”, con riferimento alla crisi ucraina.
V. Putin Praises Republika Srpska Leader Ahead Of Vote , RFE/RL, 18 settembre 2014.
4 Petr Ivancov, ambasador Ruske Federacije u BiH: BiH ne treba tutora , di Vildana Selimbegović, Oslobodjenje, 24 ottobre 2014.
5 Bosnia Presidency’s Outgoing Serb Slates OHR, di Elvira Jukić, «BIRN Balkan Insight», 14 novembre 2014.
6 Sul rilascio di Šešelj leggi l’analisi di Daisy Sindelar, In Releasing Seselj, ICTY Solves One Problem But Creates Many Others , di Daisy Sindelar, Radio Free Europe/Radio Liberty, 20 novembre 2014.
Sulle accuse al presidente Meron e la vicenda del giudice Harhoff, ricusato dal collegio giudicante nel caso Šešelj, leggi il mio commento Tribunale dell’Aja: il fattore Harhoff , di Andrea Oskari Rossini, «Osservatorio Balcani e Caucaso», 3 settembre 2013.
7 V. Preživjele žrtve rata u BiH tražile od Merona podnošenje ostavke , «Klix», 27 novembre 2014.
8 V. i risultati delle elezioni e un primo commento in La Bosnia di ieri , «Osservatorio Balcani e Caucaso», 13 ottobre 2014 e Il programma dei vincitori , di Andrea Oskari Rossini, «Osservatorio Balcani e Caucaso», 31 ottobre 2014.
9 V. Dodik, atto secondo , di Andrea De Noni, Osservatorio Balcani e Caucaso, 5 dicembre 2014.
10 V. Elections in Bosnia-Business as usual? , di Florian Bieber, «BIRN Balkan Insight», 15 ottobre 2014.
11 V. No Breakthrough in Sight after Bosnia’s Elections , di Srećko Latal, «BIRN Balkan Insight», 22 ottobre 2014.
I danni causati dalle alluvioni non sono ancora stati affrontati in maniera adeguata, nonostante una conferenza di donatori svoltasi nel mese di luglio abbia messo a disposizione delle autorità bosniache circa 800 milioni di euro. Solo una piccola parte di questi fondi, infatti, sono stati ad ora utilizzati, principalmente a causa di ritardi da parte delle autorità locali nel firmare i relativi accordi di programma con i donatori. L’Unione Europea ha stanziato 45 milioni di euro che sono già stati affidati direttamente all’UNDP, bypassando le autorità locali, per la ricostruzione di scuole, edifici pubblici e case (v. intervista dell’autore a Renzo Daviddi, Vice capo missione UE a Sarajevo, La Bosnia Erzegovina: un paese ricco , di Andrea Oskari Rossini, «Osservatorio Balcani e Caucaso», 6 ottobre 2014).
Nella giornata di ieri, la Commissione Europea ha sbloccato un ulteriore pacchetto di 41 milioni di euro di aiuti per le alluvioni, v. Evropska komisija usvojila paket za oporavak od poplava u BiH vrijedan 41 milion eura , di E.F., Klix, 18 dicembre 2014.
12 V. ad es. le notizie riportate dalla stampa locale sulla lotta dei lavoratori della fabbrica di scarpe “Aida” di Tuzla: Vlada nije ispunila zahtjeve: Radnici "Aide" u ponedjeljak na ulici , di Samir Karić, «Oslobodjenje», 22 novembre 2014 o, sullo stesso tema, Radnici "Aide" nezadovoljni prijedlozima Vlade TK, ostaju i dalje na raskrsnicama , di D. Brkić, Klix, 27 novembre 2014.
13 Unbribable Bosnia and Herzegovina. The Fight for the Commons (Damir Arsenijević (Ed.), Nomos, 2014).
14 op. cit., pag. 7.
15 op. cit., pag. 8.
16 op. cit., pag. 9.
17 Il 54,54% (2014) rispetto al 56,49% (2010) secondo i dati riportati dall’International Institute for Democracy and Electoral Assitance, (http://www.idea.int/vt/countryview.cfm?CountryCode=BA).
18 In questo senso ad esempio diversi interventi nel dibattito tenutosi il 3 ottobre al cinema di Sarajevo Meeting Point a margine della proiezione del documentario Bosnia rising, “La Bosnia insorge”, di Carlo Nero e Vanessa Redgrave. Nella sala gremita erano presenti molti operai e disoccupati di Tuzla e Sarajevo.
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