Sarajevo-Amsterdam: cercando la libertà
Vondelpark, un luogo di culto per gli hippie di tutt’Europa. Anche per Azra, Snježana, Cvele, Paja e Gorki che vi passarono una loro estate negli anni ’70
Da adolescente riuscivo a evitare, a casa, i lavori che detestavo. Lavare le finestre, ad esempio. Ma quando ci fu bisogno di soldi per il viaggio, lavai instancabilmente per un’intera settimana tutti i vetri della sede sindacale di Sarajevo, un palazzo a due piani e lungo circa 60 metri.
Io e la mia amica Snježana volevamo andare insieme ad Amsterdam nell’estate 1973. Il denaro necessario ce lo guadagnammo pulendo i vetri, un lavoro ottenuto tramite il Servizio studentesco (Studentski servis) che procurava piccoli lavori occasionali agli universitari.
Ad Amsterdam la nostra meta era il Vondelpark, che negli anni Sessanta e Settanta era diventato un posto di culto e di ritrovo di hippies e di giovani da tutto il mondo. Un luogo giusto per noi che eravamo tutto fiori, pace, amore e contro qualsiasi cosa. Da giovani contestavamo spesso, e non necessariamente per dei motivi reali.
Infatti, per molti giovani, in Jugoslavia gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso furono un periodo d’oro. Le università e le scuole erano eccellenti, aperte a tutti, la vita culturale era fiorente. Gli stessi spettacoli e i film che si vedevano nelle metropoli occidentali, potevano essere visti anche da noi in Jugoslavia. Si leggeva la letteratura moderna, si ascoltava la musica rock e blues, si allestivano mostre importanti. Si pubblicavano tantissimi giornali e riviste, si traducevano opere di narrativa e di poesia.
Ma noi eravamo alla ricerca di qualcos’altro, di quello che è stato poi chiamato “flower-power” che per noi significava la libertà assoluta, il vivere in armonia con gli altri e la natura. E, secondo un’opinione diffusa tra i giovani, per raggiungerlo bisognava viaggiare all’estero.
Snježana, Cvele, Paja e Gorki
Fu Snježana S. a propormi di andare a Vondelpark. Lei era più informata e ideò la nostra avventura. Ci vedevamo in vari circoli culturali, partecipavamo a diversi incontri, alle discussioni e spesso finiva dicendo: “Sì, ma questo non è nulla. Bisogna andare all’estero, in occidente”.
Era di quelle persone talentuose che hanno successo in qualsiasi attività intraprendano, ottenendo risultati ben più che mediocri. Studiava all’Accademia di Belle Arti, era una pittrice eccezionale, ma sarebbe riuscita ugualmente come poetessa o scrittrice. Inoltre era una ragazza molto bella, figlia di un ufficiale dell’esercito e di un’impiegata amministrativa. Tanto i suoi genitori erano rigidi e ordinari, tanto lei era aperta e originale.
A cinquecento chilometri più a est, a Belgrado, tre amici e studenti, Cvele, Paja e Gorki, mettevano da parte i soldi per il viaggio estivo. Anche loro, tramite il Servizio studentesco, avevano un lavoro che consideravano una miniera d’oro. Il governo federale riforniva periodicamente le riserve nazionali. Venivano acquistate, tra l’altro, tonnellate di zucchero che bisognava sistemare nel magazzino vicino a Belgrado. Cvele, Paja e Gorki scaricavano i sacchi dai container e li sistemavano nel deposito.
Dopo, quando li conoscemmo a Vondelpark, ci spiegarono come si svolgeva il loro lavoro. I sacchi di zucchero avevano pesi diversi a seconda della loro provenienza: quelli ungheresi pesavano 80 chili, quelli jugoslavi 50 e quelli importati da Cuba 100 chili. Paja e Gorki prendevano un sacco, ciascuno da una parte, e lo caricavano sulle spalle di Cvele che “costruiva” castelli di sacchi. Guadagnavano 75.000 dinari a testa al giorno (la borsa di studio mensile era di 25.000 dinari, ndr). “Dieci giorni lavoravamo e gli altri dieci riassestavamo la schiena”, ci dicevano, e ridevamo come matti come se stessero raccontando una barzelletta.
Auto-stop
Snježana e io avevamo preso l’autobus da Sarajevo fino a Slavonski Brod, la città croata dove passava l’autostrada della Fratellanza e dell’Unità (Bratstvo i Jedinstvo), percorsa da molte auto in entrambe le direzioni, verso l’Europa Occidentale e il Medio Oriente. Eravamo convinte che da là non sarebbe stato difficile continuare il viaggio in auto-stop. Infatti, la gente che ci offriva un passaggio era entusiasta, avevo l’impressione che apprezzasse quello che stavamo facendo. Spesso, mentre si parlava, durante il viaggio, la maggioranza delle persone concordava con le nostre opinioni, le nostre scelte piacevano, la gente approva la nostra disubbidienza.
Avremmo potuto pagarci tranquillamente il viaggio, in quell’occasione il nostro non era un problema di soldi, ma all’epoca, per i giovani, spostarsi in auto-stop era la regola. Anche il nostro modo di viaggiare era la dimostrazione delle nostre scelte, coerente con l’ideologia dei giovani dell’epoca, l’opposizione alle istituzioni, alla cultura formale, alla classe politica, alla società di mercato, contro le armi nucleari, contro la guerra.
Vondelpark
In due giorni arrivammo a destinazione. Sporche, con i vestiti stropicciati, i capelli unti, con gli zainetti di tessuto grigio-verde, quelli che si compravano nei deposti di roba militare scartata, eravamo in perfetta sintonia con gli altri giovani che la pensavano come noi e che si riunivano a Vondelpark.
Il parco era bello e grande, con un laghetto artificiale, gli alberi e ampi prati. Era stato costruito alla fine del diciottesimo secolo e doveva essere un posto elegante, in stile inglese, solo che dagli anni Settanta è stato “sequestrato” da giovani risoluti a cambiare il mondo.
Finalmente eravamo nel posto dove, come immaginavamo, avremmo trovato la libertà assoluta. Ma la libertà non è una cosa istintiva o automatica. In quel mese trascorso a Vondelpark ho capito che, per essere liberi, bisogna avere coraggio, essere coscienziosi e saper gestire la propria libertà.
Nel nostro paese c’era la famiglia o lo stato che pensava e organizzava per noi tutto o quasi tutto. Nei primi giorni io e Snježana giravamo, sprovvedute, qua e là, senza sapere esattamente cosa e come fare, ci accostavamo ai gruppi per ascoltare i discorsi, la musica, guardavamo cosa e come facevano gli altri, ma rimanevamo sole.
Una mattina, mentre ero in fila per lavarmi, sento qualcuno che parla la “nostra” lingua, cioè il serbo-croato. Mi giro e vedo i tre ragazzi: alti, magri, con i capelli lunghi spettinati, la barba incolta. “Ehi, siete nostri?”, domando.
Una volta, tutti noi jugoslavi ci consideravamo “nostri”, nel senso di conterranei, amici, parenti. Per poi diventare, negli anni Novanta, acerrimi nemici. Oggi, quando sento qualcuno parlare la nostra lingua, sto bene attenta a non rivelare la mia identità. Prima di tutto devo controllare da quale delle ex repubbliche jugoslave proviene, per valutare se siamo “nostri”, oppure nemici.
Quei tre mi furono subito simpatici. Erano studenti di Belgrado. Cvele era di origine bosniaca, studiava filosofia, Gorki studiava ingegneria (il padre gli aveva dato il nome del pedagogo e scrittore russo Maksim Gorki) ed era di Spalato, mentre Paja era di Čačak, una cittadina di provincia della Serbia, e studiava medicina.
Li presento a Snježana e noto che i tre rimangono affascinati dalla mia amica. Ci propongono di stare insieme, cioè di trasferirci nel loro accampamento. Snježana esita: “Non con i nostri, siamo qui per incontrare gente da altre parti del mondo”, mi sussurra, ma poi cede e ci spostiamo per campeggiare con i belgradesi.
L’accampamento
Il nostro gruppo si era sistemato in un posto meno centrale, tra gli alberi. I belgradesi erano ben organizzati con i sacchi a pelo, il fornello per cucinare, la chitarra. “Il nostro gruppo” tanto per dire. Non c’era niente di fisso o che si considerasse di proprietà. Tutto era in comune. C’era un via vai continuo di gente: chi si sedeva per chiacchierare o mangiare con noi, chi si fermava per partecipare alle discussioni, alcuni stendevano a terra le proprie cose e si mettevano accanto a noi. Anche qualcuno del nostro gruppo, ogni tanto, si allontanava e tornava di sera o il giorno seguente.
Le nostre giornate passavano mangiando, bevendo, prendendo il sole sdraiati sul prato, cantando, ascoltando musica, partecipando alle continue discussioni su temi che riguardavano il mondo. E c’era tanta erba. Te la offrivano, si condivideva.
Un giorno, mentre si discuteva di filosofia orientale, tutti seduti per terra e avvolti nel fumo di erba, notiamo due poliziotti venirci incontro. Interrompiamo la conversazione, ci giriamo verso gli ufficiali, aspettando, zitti, quello che sarebbe successo. Nulla. Quei due erano degli studenti del posto che durante l’estate svolgevano un lavoro di sorveglianza, una sorta di vigili urbani. Volevano fumare l’erba, sapevano che l’avevamo e che la potevano avere gratis.
Il movimento hippy non era solo “fumo”, un capriccio inconsistente e inutile. Il nostro mese di “apprendistato” a Vondelpark non lo rappresenta bene né nella forma né nell’essenza. La moda e i valori hippie hanno avuto un notevole impatto sulla cultura, hanno influenzato la musica popolare, la televisione, il cinema, la letteratura e l’arte in generale in tutto il mondo. Dagli anni Sessanta molti aspetti della cultura hippie sono diventati di comune dominio.
Ritorni
Paja fu il primo ad andarsene, doveva preparare l’esame di anatomia, considerato molto difficile. Poi dal mondo della “assoluta libertà” se ne andò anche Gorki con la sua chitarra. Prima dell’inizio del nuovo anno accademico doveva passare per Spalato e stare un po’ con i suoi.
Alla fine di luglio pioveva, faceva freddo, e stare fuori all’aperto non era piacevole. Cvele aveva mal di denti, Snježana e io dovevamo tornare a casa.
Noi tre tornammo insieme, in auto-stop naturalmente. In breve tempo raggiungemmo Colonia, in Germania. All’entrata della città un tizio con la jeep ci diede un passaggio solo per lasciarci in un posto, diceva lui, migliore per fare auto-stop. Difatti di lì a poco si ferma un camion e saliamo tutti e tre in cabina. L’autista era un tedesco, mi ricordo dei suoi baffi ottocenteschi e delle guance rosee. Non capiva una sola parola d’inglese, francese, o russo, le lingue che noi tre parlavamo. Qualsiasi cosa dicevamo, lui sorrideva e annuiva con la testa.
Per disperazione mi metto a elencare una filza di parole tedesche che utilizziamo in Bosnia (come se fossero nostre), spesso con la pronuncia sbagliata o di significato diverso: rajsferšlus, špajz, šrafciger, špenadla, zihernadla, rolšuhe, drajfirtel, gojzerice, luster, nahtkasna.
Il tedesco dapprima annuisce con la testa, poi capisce il gioco e comincia a ridere sonoramente, si piega in avanti e indietro, ride sempre più forte. Ci prende il terrore che possa perdere il controllo del veicolo. Poi si calma, alza il pollice per dirci che ha capito.
Aiutandoci con i gesti riusciamo a spiegargli dove stiamo andando. Quello, sì, conferma di aver capito, va bene, ma prima ci porta a casa sua, in una fattoria vicino alla città tedesca di Essen. La moglie e i tre figli, due maschi e una femmina, ci ricevono a braccia aperte.
Ci fermammo là un’intera settimana senza conoscere la lingua degli altri. La famiglia aveva un frutteto con alberi di mele, un piccolo orto e le galline. I nostri ospiti si prendevano cura di noi come se fossimo i loro figli. Quella settimana in fattoria fu per noi una sorta di riposo, dopo un mese a Vondelpark, dagli intensi impegni intellettuali, dalle proteste, dai canti contro la guerra e per la pace, dai dibattiti su come ordinare il mondo e soprattutto dal dormire sulla dura terra. Snježana dipingeva, aveva fatto i ritratti dei tre figli, Cvele era impegnato in cucina a mostrare agli ospiti la preparazione del principale piatto bosniaco, la pita, io aiutavo la signora nei piccoli lavori domestici.
Dopo una settimana il camionista, che nel frattempo aveva fatto un altro viaggio di tre giorni, ci fece salire sul camion e ci lasciò in un posto da dove potevamo proseguire il viaggio di ritorno in autostop. In due giorni arrivammo a Zagabria.
Stavamo discutendo su come procedere, se in treno, in pullman o in autostop, quando Cvele si accorse che il dente non gli faceva più male. “Vedi, l’internazionalismo ti fa male. È meglio che tu non ti muova dal tuo paese”, commentò con ironia Snježana. Tutti e tre scoppiammo a ridere. Non solo per la battuta, ma perché si stava bene, di nuovo, a casa.
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