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Area: Grecia

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Salonicco ed i suoi profughi

Come sono organizzati, chi ci lavora, quali le aspettative di chi è obbligato ormai da mesi a risiedervi. Un viaggio nei campi profughi della Grecia. Riceviamo e volentieri pubblichiamo

06/09/2016, Gianluca Solera -

Salonicco-ed-i-suoi-profughi

Immaginate un’immensa periferia di prateria gialla, bruciata dal sole di fine agosto; un incrocio di vie e stradoni che raggiungono fabbricati di ogni dimensione, su cui la vegetazione riguadagna terreno. Era la florida zona industriale della Grande Salonicco, a monte della città, colpita poi dalla crisi. I cancelli di molti lotti sono chiusi, e gli arbusti rompono il vecchio asfalto lungo linee irregolari; l’ailanto è il primo ad aggredire il cemento. Alcune ditte tengono, e sfreccia ancora qualche trasportatore su quelle strade polverose. È in questo paesaggio rur-urbano, punteggiato ancora di fichi e olivi, che i profughi che si ammassavano alla frontiera con la Repubblica di Macedonia, sono stati ricollocati, occupando vecchi magazzini di aste di svendita e terreni di silos di granturco dismessi. A Oreiokastro, in una vecchia manifattura di tabacchi, sta uno dei più grandi dei circa venticinque centri aperti nel nord della Grecia. La maggioranza di loro proviene da Idomeni, da quando l’accampamento spontaneo creatosi sulla frontiera con la FYROM1 è stato sgomberato. In questo grande capannone, dalla copertura alta ed imponente, si impara a non contare più il tempo se non per lo stretto necessario. Non c’è posto per i profughi impazienti.

Hozan, curdo siriano alloggiato nel campo di Derveni, era uno di questi. Aveva pensato che tutto si sarebbe concluso in una settimana. Una settimana in Grecia, come un qualsiasi turista nordeuropeo, e poi dietro a loro verso nord. Arrivò nei primi mesi di quest’anno, è ancora qui, con quella sua espressione decisa da baffuto energumeno. È un uomo onesto, che non permette ai suoi di perder tempo all’ora della distribuzione degli alimenti, quando i suoi compagni impacchettano le verdure fresche offerte da Caritas Hellas sotto il suo sguardo attento. Quella settimana più lunga del previsto gli pesa. Abou Jenna, invece, è due anni che si sposta. È palestinese siriano, del campo di Yarmouk, ed ora sta a Oreiokastro. Scappato in Libano, vi risiedette diversi mesi per poi andare verso il nord della Siria, poi in Turchia, e dalla Turchia in Grecia. Magro e dalla barba malfatta, gesticola con movimenti lenti, attendendo il thè che ci prepara la moglie, mentre i figli sono andati a ritirare la loro razione di catering quotidiano. “Vivremo come i palestinesi, da tenda a tenda, se l’accordo Ue-Turchia fallirà?” chiederà un rifugiato siriano a un legale durante una riunione aperta, al centro socio-culturale Micropolis.

Per ingannare il tempo, nei campi aprono bancherelle di alimentari alle intersezioni dei passaggi tra una fila di tende e un’altra. Solo chi ha ancora dei soldi in tasca farà spesa, ma non importa. L’importante è ricreare l’atmosfera del sūq, con i cocomeri ben in vista e le cassette di verdura disposte come i colori sulla tavolozza di un pittore. Naturalmente, è tutto commercio in nero, però non importa né ai soldati greci, né agli operatori. Quello che importa è cercare di ricostruire l’impressione della normalità e dell’abbondanza. Incontri allora il barbiere, al-Hallāq, a cui basta una prolunga cui allacciare il rasoio elettrico, un pettine, una forbice ed una seggiola di plastica. Poi incontri l’asilo-nido, un rettangolo di cemento dedicato, dove un gruppo di suore italiane che vive in Albania intrattiene i più piccoli con matite colorate e album da disegno appoggiati su tavolini bassi. Lo stesso rettangolo dedicato nel pomeriggio si convertirà in due campetti di pallavolo. C’è anche il tabacchino, che vende sigarette e pile; stravaccato su una poltrona sfondata, mi ricorda certi commercianti di Alessandria d’Egitto che si dedicano a osservare il passeggio.

Giro il campo di Oreiokastro con Katarina, operatrice di Caritas Hellas, per distribuire sacchetti di plastica con indumenti per famiglie con necessità particolari. Sui sacchetti sta il numero della tenda, A14 o F22, ad esempio, e questo basta. In queste ultime ore, sono nati due bimbi, portando il loro numero a 618 (gli altri circa settecento ospiti sono maggiorenni). Katarina mi lascerà poco dopo per partecipare ad una riunione di coordinamento con gli altri organismi non-profit che operano nel campo. Riunioni specifiche si alternano a seconda delle problematiche di gestione quotidiana: distribuzione alimentare, accompagnamento psicologico, attività scolastiche e educative, coordinamento generale. È facile fare amicizia nel campo, a maggior ragione se ti muovi solo. Distanze incolmabili fatte di lingue e storie personali profondamente diverse si sfiorano lungo quei lunghi passaggi tra le tende, dove transitano personale del campo e profughi. La falda di una tenda in tessuto stesa sul davanti separa i segreti di famiglie affaticate dal vociferare pubblico. Una tensione sottile si articola camminando tra quei corridoi senza pareti; quella di chi cerca di difendere l’ultimo tesoro conservato dopo aver perso tutto nella fuga: l’intimità. Poi, d’improvviso, una sola parola di cortesia può riempire le distanze, quando raccogli l’attimo per un “Sabāh el-Kheir”, il nostro “Buongiorno”.

“La cosa peggiore nel campo” spiega Katarina “è il senso di inutilità, di non poter far nulla, soprattutto tra gli uomini. Dobbiamo far qualcosa per rompere questa monotonia”. Gli uomini arabi nei campi si trovano imprigionati doppiamente, perché possono uscire, ma non possono permettersi delle spese per moglie e figli, e perché non possono imporsi, non possono essere uomini in una società in cui gli uomini sono quasi tutto, relegati ad un ruolo di inutili comparse. Le donne, invece, nella loro funzione materna, diventano perni di questa comunità transitoria. Sicuramente un profugo di sesso maschile ha scritto su un muro del campo: UN, we are not caged animals!

Anatomia del campo

Ma come funziona un campo? L’esercito greco assicura la supervisione generale, alcuni campi sono coordinati dal Ministero greco, altri dal Commissariato ONU per i rifugiati2, altri da ONG a cui il Commissariato ha affidato la gestione. Quello di Oreiokastro è stato affidato ad esempio al Norwegian Refugee Council. L’autorità pubblica assicura il catering, installa le tende e i servizi igienici3, il non profit integra con prodotti alimentari freschi (come le verdure), servizi igienici supplementari o altri servizi. A Vasilika, su richiesta del Ministero, Caritas Hellas ha installato una tanica per lo stoccaggio dell’acqua, 50 bagni, 50 docce, 2 bagni per i disabili. Ha inoltre installato un piccolo parco-giochi per bambini, ed all’apertura del campo – avvenuta il 13 giugno scorso – ha anche distribuito dei kit igienici. A Karamalis, la Croce rossa svizzera ha trasformato un intero capannone in un centro per i rifugiati con scuola, area giochi, degli uffici, un barbiere, e un bar e un chiosco di Falāfel gestiti dai profughi. Al bar, però, mi racconta un volontario libanese, ci vanno solo i non-rifugiati, perché questi hanno finito i soldi… L’abbecedario degli organismi presenti è lungo, ed alcuni hanno nomi curiosi, come la parmense Mam Beyond Borders, ma sono poche quelle presenti continuativamente sul terreno. Rino Pistone, coordinatore del programma di Caritas Hellas per i rifugiati, riferendosi al campo di Vasilika come esempio cita InterVolve, Médecins du Monde e Save the Children. “I campi funzionano quando le organizzazioni si coordinano tra loro e assicurano una presenza costante nei siti”, spiega. Poi, ogni giorno incontri giovani con tanto di casacca dell’associazione con cui sono entrati. Tra personale di varie entità e volontari, Ahmed – che ha conosciuto numerosi campi – stima in una cinquantina le persone che lavorano in un campo. “È un sistema, che dà lavoro a molti, e noi?” si chiede con una punta di ironia. Il passaggio di volontari, nonostante le difficoltà di gestire persone che non operano in modo permanente, ha tuttavia un vantaggio: “Permette una presa di coscienza della distanza tra popoli e governi” suggerisce Rino. Nei campi, insomma, si diventa amici per forza, oltre le barriere imposte da governanti e politiche pubbliche, e amplificate dai mezzi di informazione.

Ahmed sa che le cose funzioneranno meglio e si starà meglio quando i profughi si organizzeranno e assumeranno maggiori responsabilità. È uno dei cinque rappresentanti ad Oreiokastro, scelti attraverso una consultazione democratica tra i residenti, ed a cui è affidato il seguito di problematiche specifiche, come istruzione e scuola, o condizione delle donne. Convocano un’assemblea generale almeno una volta alla settimana, a cui partecipano in media circa duecento persone. Forme di autorganizzazione della rappresentanza si sperimentano anche in altri campi, come Diavata e Konitza. Sono questi rappresentanti che canalizzano sovente richieste e informazioni verso i responsabili dei servizi del campo. Sono una prima palestra di educazione civica, cittadinanza responsabile e consapevolezza politica, sono un modo per rovesciare il senso di inutilità. Non che tutto funzioni e che questa rappresentanza abbia tutti i carismi della legittimità. Quando a Vasilika parliamo di rappresentanti, uno dei residenti sorride e dice: “C’è uno che si dice nostro coordinatore, ma è uno del regime e elargisce favori”.

“Non è stato eletto democraticamente?” chiedo io.

“Democrazia?” ribatte. E ride. Lamentele o accuse del genere sono frequenti in realtà complesse come un campo, che raccoglie persone di diversa estrazione. Quando qualche profugo assume un ruolo per così dire "attivo", rischia di attirare invidia e gelosia da parte degli altri compagni di sventura, o di incarnare sentimenti di frustrazione diffusi. La prudenza, però, non è mai troppa. Caritas sperimenta a Vasilika la distribuzione alimentare per gruppi di trenta, attraverso alcuni dei residenti che a sua volta redistribuiscono. Quando racconto a Rino della mia conversazione, reagisce dicendo: “Dobbiamo controllare se tutte le tende ricevono i sacchetti”.

Più difficile è il coordinamento tra profughi di diversi campi a causa della difficoltà e dei costi negli spostamenti, ma a Oreiokastro sperimentano forme di media di base, come il gruppo Facebook The Voices of Oreo Castro, che riferisce su base giornaliera di cosa succede nel campo. Sentirsi utili, padroni della propria giornata, ecco di nuovo il dilemma quotidiano di queste persone, che temono di restare molto più del previsto. “Dateci almeno delle cucine, fateci preparare i nostri pasti a modo nostro!” mi supplica un padre di famiglia.

Mangiare meglio per essere qualcuno

La questione dei pasti non è una questione secondaria. Il catering, assicurato dalle autorità greche, è vissuto come noioso, la dieta come monotona, a base di riso, formaggio, pane, qualche volta pasta o purè, o verdure cotte, una volta alla settimana con una razione di pollo. Una dieta standard di questo tipo andrebbe bene per un periodo breve, ma dopo un semestre per forza di cose indebolisce l’organismo. Potete ben capire che se questa dieta è somministrata ad un siriano, la cui cultura alimentare è tra le più raffinate del Mediterraneo, il suo corpo si spegne. Ricordo che il più prelibato Iftār4 che abbia mai consumato in vita mia risale all’anno 2000, erano gli ultimi mesi di Hafiz al-Asad, e mi trovavo dietro la Grande Moschea degli Omayyadi. Quando visitai uno dei primi campi di siriani in fuga dalla repressione del loro regime iniziata dopo la rivoluzione pacifica nel 2011, ad Antiochia, oltre il confine turco, un uomo preparò a forza di robuste bracciate l’impasto per polpette Kofta dentro una tinozza di plastica per il bucato. Mangiarono di questa manna in più tende. Cucinare per un siriano significa coltivare lo spirito e prendersi cura dei propri affetti. Cucine comunitarie migliorerebbero la qualità della dieta, il ruolo delle donne nel campo ne uscirebbe rafforzato, e si potrebbe garantire attenzione a soggetti che seguono diete particolari (diabetici, ecc.). In una situazione di incertezza, nella quale non si sa quanto tempo un campo resterà aperto, in presenza di una struttura di autogestione ancora fragile, sovente con gruppi etno-culturali differenti, montare una cucina collettiva non è certo la prima preoccupazione, né la cosa più semplice. Per ora non è in cantiere, anche se alcuni organismi non-profit ci stanno pensando. Il catering è più semplice, arriva verso le ore 13 e viene distribuito insieme alle bottiglie di acqua.

Il catering è una fabbrica di plastica: dalle bottiglie agli imballaggi, senza dimenticare sacchetti, posate e cellophane, la produzione giornaliera di rifiuti plastici è notevole. Non c’è cibo senza plastica, pare essere la legge in vigore. Il non-profit integra il catering con altri prodotti. Caritas Hellas, ad esempio, distribuisce verdure fresche – pomodori, cetrioli, patate o melanzane – e cartoni supplementari di acqua in tre campi almeno due volte alla settimana. Per fare questo, ha selezionato tramite bando un supermercato (The Mart) che ha offerto i prezzi più competitivi. Il loro furgoncino arriva un’ora prima del catering. Prezzi bassi significa però soggiacere alle regole del mercato, ed è così che sono già arrivati anche pomodori polacchi! Un assurdo del capitalismo, per un paese mediterraneo. Per il rifornimento di verdura, Caritas sta dunque pensando anche a produttori locali. Sarebbe anche un modo per favorire l’economia locale e ridurre gli attriti tra profughi e abitanti della regione5. Come fare, però?

Salonicco insegna qualcosa in questo. Nel mezzo della crisi che ha colpito la Grecia, il professor Christos Kamenidis, un luminare della facoltà di Agraria dell’Università di Salonicco, si inventò nel 2011 quello che si fece conoscere come il “movimento delle patate”. Kamenidis e i suoi studenti aprirono il campus universitario ai piccoli produttori delle province di Serres e Drama, che grossisti e grande distribuzione soffocavano pur di ottenere il prodotto a prezzi stracciati e mantenere lo stesso margine di profitto. Al campus iniziarono a vendere i loro prodotti direttamente agli abitanti di Salonicco. Fu una rivoluzione. Questa esperienza ha ispirato altre iniziative simili in tutta la Grecia (i farmers’ markets), e grazie ad essa il governo greco ha introdotto una nuova legislazione in favore dei mercati contadini nel 20146. Inoltre, grazie al lavoro di Kamenidis, stanno sorgendo per la prima volta in Grecia cooperative che riuniscono produttori e consumatori. Ben undici dei tredici distretti della Grande Salonicco7 ospitano dei mercati contadini, riforniti da tra i venti e i cinquanta produttori. E se la nuova economia greca post-crisi si incontrasse con la solidarietà verso i profughi? Kamenidis, che è un signore distinto oltre i settant’anni, mi assicura che sarebbe possibile. “La nostra agricoltura tartassata dal mercato potrebbe ridare lavoro anche a loro” spiega con convinzione mentre pranziamo sul mare di Kalamaria.

Procedure

Ma possono lavorare i profughi? Maria, avvocatessa che offre supporto ai profughi tramite il centro socio-culturale Micropolis, mi spiega che la procedura di riconoscimento dei profughi ha tre fasi: pre-registrazione, prima intervista e seconda intervista. Un rifugiato ha tre possibilità: ricollocamento in altro paese europeo, ricongiungimento famigliare, stabilimento in Grecia8.

Con la pre-registrazione, il rifugiato non può lavorare. Dopo la prima intervista, diventa un “richiedente asilo”, e può lavorare passando per un’agenzia di collocamento greca, la quale può assegnare uno specifico lavoro offerto da un datore di lavoro se non vi sono disoccupati greci disponibili. Solitamente, questo è possibile per mansioni stagionali nell’agricoltura o per funzioni specifiche come la traduzione. Dopo la seconda intervista, il rifugiato potrà finalmente cercare lavoro e lavorare liberamente. Le procedure sono complesse; è certo stato possibile pre-registrarsi direttamente via Skype, ma non tutti hanno dimestichezza con Internet o accesso ad esso, e vi sono state delle falle. Nei campi aperti dalle autorità in questi ultimi mesi sono state dunque organizzate operazioni di pre-registrazione in situ o trasferimento in bus agli uffici competenti sul territorio (la pre-registrazione si è ufficialmente conclusa in luglio). Inoltre, gli appuntamenti per le interviste, che venivano comunicati prima per SMS, poi per telefono, sono ora solo disponibili su una lista pubblicata su Internet. “Controllate se vi siano i vostri nomi sulla lista!” urla in arabo il ragazzo che fa da interprete durante una riunione informativa a Micropolis, a cui partecipano persone che stanno nei campi o in città a Salonicco. “Quand’è che potremmo partire?” chiede un altro ragazzo in inglese, e l’avvocatessa non può che rispondere: “Come posso prevedere con certezza quando partirete?”. Numerosa sarà la fila dei casi singoli con cui Maria dovrà parlare a fine riunione. Questo è uno dei tanti servizi offerti da Micropolis.

Micropolis nacque con l’occupazione della facoltà di teatro di Salonicco in segno di protesta per l’uccisione di uno studente da parte della polizia ateniese9. Insediato in un edificio storico nei pressi di piazza Aristotele, per cui pagano un regolare affitto, Micropolis si qualifica come “spazio sociale di libertà”, governato dal principio della democrazia diretta. Ha un negozio di prodotti biologici, equo-solidali e di cooperative greche autogestite, uno spazio per bambini, una sala computer, una libreria, un gruppo cinematografico, un caffè-sala concerti e un bar. “In tutto, impieghiamo una quindicina di persone” mi spiega Mitos, uno dei soci lavoratori. Con la crisi dei rifugiati, sono riusciti a fare ospitare in case private ottanta persone, a cui attraverso la loro rete di solidarietà offrono cibo e alimenti e coupons per acquisti. L’ospitalità diffusa fa in modo che si sperimenti la coabitazione tra greci e profughi. Nelle loro regolari assemblee, affrontano le difficoltà che questa intrapresa porta. Oltre a offrire assistenza legale, Micropolis offre corsi per bambini e corsi di lingua per adulti, tedesco incluso. Un ragazzo alza la mano e dice: “Vorrei imparare il tedesco, ma se non so in che paese verrò mandato, a cosa mi servirà?”. La sera della riunione a cui assisto anch’io, viene anche proposto di aprire uno stand di cucina siriana ad un festival in solidarietà con i rifugiati previsto per la seconda settimana di settembre a Salonicco: se la cosa piacerà agli organizzatori, i fondi verranno devoluti a una cassa comune in favore dei rifugiati. Nel frattempo, al piano inferiore, sul banco del bar sono già servite le Falāfel per quando l’assemblea si scioglierà.

Il duro mestiere dell’attivista

Quel festival sarà una edizione locale del No Border Camp che a luglio portò a Salonicco attivisti da tutta Europa. Tra dibattiti, azioni dimostrative presso i campi, networking, concerti e proiezioni cinematografiche, in quei giorni tenevano alto lo slogan “Make Fortress Europe History”. L’adrenalina era al massimo nel momento in cui erano stati ricollocati nei nuovi campi i profughi che stavano a Idomeni. Attivisti come Kostantina e Manos, che ho conosciuto tramite il Coordinamento di sindacati e unioni studentesche Syprome, procacciavano alimenti, vestiario, assicuravano la presenza di personale medico volontario ai profughi senza passare attraverso delle Ong. Il 20 luglio portarono i rifugiati in marcia fino al centro di Salonicco in segno di protesta nei confronti delle condizioni in cui erano detenuti nei campi sulla terraferma e negli hotspots sulle isole10. Una settimana più tardi, una nuova protesta esplose dopo il decesso di una ragazza siriana che soffriva di epilessia e che viveva nel campo di Diavata. Il vento dell’entusiasmo, nel frattempo, perdeva energia e il primo duro colpo venne inferto il 27 luglio con la chiusura da parte delle forze dell’ordine di diversi centri di accoglienza autogestiti, dunque non-legali, come Orfanotrofeio, e la detenzione di una settantina di attivisti e una trentina di rifugiati. La protesta avvenuta davanti alla sede locale di Syriza porterà a un allentamento della tensione, ma ormai la linea era stata tracciata. Non più attivismo politico attorno a questa delicata partita su cui si gioca (forse) il futuro della Grecia per le delicate relazioni internazionali che intrattiene il paese. “L’azione di smantellamento dei centri di accoglienza autogestiti era già stata pianificata da tempo” aggiunge Kostantina “È stata messa in azione dopo No Border Camp per assicurarsi una qualche copertura di legittimità”. I nostri giovani amici sospettano che dietro il giro di vite governativo vi sia anche il beneplacito della Chiesa ortodossa: “È contro i migranti”, dichiara senza mezzi termini Manos.

Kostantina, Manos ed io ci incontriamo a piazza Aristotele, una delle poche piazze europee protese verso il mare. Era stata convocata una riunione aperta con i rifugiati, così era stato loro comunicato, ed invece si ritrovano in cinque-sei attivisti e nessun rifugiato… Ci spostiamo in un caffè a fianco dell’antico foro romano. “Vogliamo renderli parte della nostra società” spiega Kostantina; gli attivisti, però, non riescono più a entrare nei campi, quando lo potevano ancora fare fino a due-tre mesi fa, e i rifugiati sono situati troppo lontano dalla città per poter articolare un coordinamento ed un confronto regolare. Per giovani come Kostantina, resta aperta la questione del come organizzare o meglio riorganizzare la lotta dei rifugiati per i propri diritti. “Forse dovreste concentrare la vostra azione sul supporto legale” suggerisco io. Dopo il No Border Camp tenuto a Salonicco in luglio, molti rifugiati sono stati minacciati di essere privati del diritto di asilo, anche se questo non è possibile. Questo ha disarticolato il movimento di solidarietà degli attivisti indipendenti, costringendoli a riconsiderare la loro azione. Anche molti rifugiati escono sulla scena politica con più prudenza. Ahmed, uno dei rappresentanti a Oreiokastro spiega: “Abbiamo collaborato all’iniziativa di Moving Europe redigendo una dichiarazione pubblica su protesta e autorganizzazione11. Abbiamo partecipato a dei dibattiti con dei collettivi locali e altri rifugiati fuori dai campi, ma quello che non vogliamo è essere strumentalizzati a fini di lotta politica interna in Grecia, come ci è successo con un partito comunista locale”.

La visita

Il giovedì 25 agosto, una visita inaspettata (almeno a me e ai rifugiati) ha insegnato molte cose. Eravamo a Vasilika, un campo coordinato direttamente da UNHCR, uno dei campi che non verranno smantellati, ma che dovrebbero ospitare i 4500 rifugiati destinati a restare in Grecia in base agli accordi di ricollocamento in seno all’UE12. Veniamo a sapere che l’Alto commissario Filippo Grandi e il ministro greco per l’immigrazione Ioannis Mouzalas visiteranno in mattinata il campo. Alla spicciolata, arrivano i funzionari UNHCR e il personale degli organismi che operano nel campo. I funzionari delle Nazioni Unite si fanno fotografare in gruppo come se fossero anni che non si incontrassero. Una discreta folla si forma all’ingresso. Un profugo che ha messo in piedi un chioschetto di Nescafè vive la sua giornata d’oro. Quando le personalità arrivano, la polizia fa spazio e le grosse auto si aprono. Grandi porta una modesta giacca blu, e Mouzalas una camicia bianca. Per Vasilika si parla di strutture prefabbricate dove ospitare i rifugiati che otterranno l’asilo in Grecia. Le tende dovrebbero un giorno essere dunque smontate. InterVolve fa la parte del leone durante la visita, perché presenta all’Alto commissario i servizi che sta adibendo
in un capannone dividendolo in scomparti: aule scolastiche, una clinica, un bar, un cinema per bambini. Il Commissario è permanentemente circondato da operatori del settore, ascoltare quanto dice o gli si dice è impresa ardua. Grandi entra in una tenda, dove si intrattiene lungamente con una famiglia, poi esce dal capannone. In uno degli spazi esterni, alcuni rifugiati lo avvicinano e cominciano a interrogarlo. Gli animi sono provati.

“Avete attraversato la fase peggiore, la guerra. Questa non è peggiore della guerra. Almeno siete lontani dalla guerra", sento ripetere da Grandi. Naturalmente, sono in numerosi a voler dire la loro. Interviene allora Mouzalas, già fondatore della sezione greca di Médecins du Monde, e con il suo fare accaldato cerca di rincuorare gli animi: “Sappiamo che è difficile, ma stiamo facendo del nostro meglio”. Lo ripete tre volte. La voce gira – “Il Commissario è al campo” – e quando costui e il ministro salgono sulle auto per spostarsi verso un altro campo, una donna si piazza davanti al cancello e fa muro. “Venite donne, venite anche voi” grida con voce greve. “È ora il momento! Venite!”. La confusione si diffonde, la polizia cerca di spostare la donna, a cui dei bambini ed altri cercano di dare sostegno, e quando un poliziotto la tocca, lei lancia un grido acuto. Poi, tutto diventa più veloce, un uomo comincia a dare voce alle ferite dell’anima: “Il popolo siriano vi mostrerà la sua dignità!”. L’idea che qualcuno di loro possa essere destinato a continuare a vivere in un quel campo ben oltre i tempi dell’emergenza semina il panico. La polizia fa largo, le auto avanzano, tutto si gioca nello spazio di pochi metri. La donna grida ancora, l’auto del Commissario le scivola davanti agli occhi, un bambino dà un sonoro calcio all’auto della polizia che la segue, poi sono pianti e la donna che sviene.

“UN is zero” sibila un vecchio in inglese. Triste riquadro di frustrazioni reciproche, di impotenza di ambo i lati, perché non deve essere facile fare il ministro per altri più sfortunati dei greci in Grecia. Quel “Stiamo facendo del nostro meglio” sembrava più rivolto a se stesso che ai rifugiati. Né deve essere facile difendere la vocazione delle Nazioni unite in questa partita della guerra siriana. L’unica differenza, e l’unica certezza, è che chi viaggia in quelle grosse automobili non alloggia in tenda. Certo, chissà quante storie hanno sentito coloro che si occupano dei rifugiati, ma oltre i campi vi è una vita di sofferenze che nessuno potrà veramente capire e colmare. Se per noi, per UNCHR, attivisti e simili la partita è quella di difendere il diritto alla mobilità delle persone, per quei profughi la partita è altra: riconquistare la dignità perduta, riconquistarla per sé e per la propria patria. Per quei profughi, nella loro cultura, l’accoglienza è un dovere, non materia di dibattito, non necessita di giustificazione. Chi scappa dalla guerra di un regime contro il suo popolo non dovrebbe essere costretto a supplicare per tirare avanti, raggiunta la culla della democrazia, l’Occidente europeo. Per questo non capiscono, e sibilano come quel vecchio, o gridano come quella donna. Eppure, un paio di storie meritano di essere evocate: come quella di Nagwan.

Nagwan è di Darʿā, città da cui si diffuse la rivoluzione pacifica del 2011, e prossima alla frontiera con Giordania e il Golan occupato da Israele. Con i suoi tre figli ed il marito è scappata per sfuggire alla controffensiva militare del regime di Damasco. Per potersi imbarcare per la Grecia, ha dovuto però fare il periplo del suo paese in senso antiorario, andare a sud, poi a est, poi a nord, poi a ovest per raggiungere il porto di Smirne. Ad ogni posto di blocco, ha dovuto pagare ciascun uomo armato che incontrava, 150.000 lire siriane (circa 700 USD) nel sud della Siria, 100 USD a Deir el-Zour, nella terra dello Stato islamico. Pagava tutti. E a Smirne, per la barca, 750 € a famigliare.

Oppure la storia di Ismail, giovane ed atletico insegnante di educazione fisica di Damasco. Ismail è un campione. Nel 2009, corse i 100 metri con un tempo attorno ai 10 secondi primi, diventando campione nazionale. La sua velocità non gli fu però sufficiente per sfuggire un gramo destino: era infatti sunnita. Per questa ragione, venne emarginato fino a dover lasciare la squadra di atletica. Un altro suo concorrente, che aveva corso i 100 metri in circa 12 secondi primi, prese il suo posto e venne mandato a fare carriera atletica in Russia. Era decisamente più lento, ma sciita. La cattiva sorte lo perseguitò qualche anno più tardi; voleva concorrere ad un concorso di ping-pong in un quartiere in di Damasco frequentato dalla classe dirigente. Quando si presentò al posto di blocco per accedere al quartiere, al saperlo sunnita, le guardie gli tirarono la racchetta in testa e lo arrestarono per due settimane. Venne messo in una cella di 3 metri per 3, dove stavano circa duecento persone. Fu come la barzelletta dei quattro elefanti su una Fiat Cinquecento: due davanti e due dietro. Ebbene, in una cella di 9 metri quadrati, in un centinaio stavano in piedi lungo i muri della cella, e l’altro centinaio verso il centro, rannicchiati, ciascuno con altri due o tre sopra le spalle, a mò di guglie. Ogni ora, si davano il turno. Non tutti ce la facevano e circa cinque persone al giorno morivano. Stavano così stretti che si appoggiavano l’uno all’altro. La preparazione fisica di Ismail* gli permise di sopravvivere. Me lo dovetti far spiegare da lui tre volte prima di crederci.

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