Rudno, il Wyoming della Serbia
Rudno, un altopiano selvaggio al centro della Serbia più profonda, un incontro tra amici lontani, una festa e un mare di neve. Racconto del viaggio avventuroso della delegazione di una piccola comunità dell’Italia, quella di Lavarone in Trentino, in occasione del capodanno ortodosso
Articolo tratto da Viaggiareibalcani.it, il sito del turismo sostenibile nel Sud est Europa
Un sole tiepido illumina pigramente la strada umida che si insinua per le gole disegnate dal fiume Ibar, il pullmino la percorre deciso con i suoi passeggeri ancora assonnati.
Un gennaio strano anche in Serbia: nebbioso e caldo in valle, eccezionalmente nevoso e freddo appena si superano gli 800 metri di altitudine. La città di Kraljevo e l’altopiano di Rudno sono separati da circa 70 km e 900 metri di dislivello, amplificati dalla durezza delle condizioni invernali. Ma è proprio questo che andiamo cercando.
Un salto nel passato per ridurre la distanza tra noi e la natura, sentirsi circondati, quasi assediati dall’immensità dei boschi di abeti, larici e betulle che coprono le decine di colline del territorio del Parco Nazionale del Monte Golija (Biosfera Unesco), dove ancora il lupo è una delle variabili da tenere a mente quando affondi il primo passo nella neve vergine del mattino.
Una superficie di oltre 75.000 ettari di risorse naturali incontaminate e meno di 1.000 abitanti, sparpagliati come se un Dio raffreddato li avesse starnutiti su di un enorme fazzoletto. Minuscole isole umane in un mare di neve. E anche questo si va cercando: il calore che sprigiona l’animale-uomo, quando non si sente più baldanzoso domatore della natura, ma fa gruppo, si stringe intorno al fuoco e ai suoi simili, fa di necessità virtù. Quando qualche suo simile, come noi, viene da così lontano è festa grande.
Morena la bibliotecaria, Marco e Alberto le guide di montagna, Isacco il consigliere, tutti dall’altopiano di Lavarone, Trentino. E il sottoscritto come “ufficiale di collegamento” tra le due comunità. Questa la delegazione italiana, invitata dall’Associazione Abitanti di Rudno (Rudnjaski Domacini) e dall’Ong IDA (Ibar Development Agency) a festeggiare insieme il capodanno serbo, il 13 gennaio, ultimo dell’anno secondo il calendario giuliano utilizzato nei Paesi cristiano-ortodossi come calendario religioso. E’ ovviamente anche un’ottima occasione per toccare con mano i progressi fatti nel campo delle offerte di turismo responsabile e di sensibilizzazione ambientale promosse dal Tavolo Trentino con Kraljevo attraverso la cooperazione tra le due comunità.
Appena entrati nella valle tributaria dell’Ibar che porta all’altopiano di Rudno, facciamo un breve sosta al monastero femminile di Gradac (XII secolo), una delle perle architettoniche dello stile Raška, un misto di romanico e greco. Davvero un ottimo modo per iniziare la giornata. Il monastero di Gradac fa parte di un gruppo di centri religiosi disseminati nell’area del basso corso del fiume Ibar. Sopocani, Zica, Stara Pavlica, Djurdjevi Stupovi, Petrova Crkva, alcuni di rara bellezza e riconosciuti Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco come il monastero di Studenica. Una volta infatti era questo il centro del regno della dinastia dei Nemanjic, che tra l’ XI e il XV secolo ha forgiato la nazione serba estendendo i propri domini dall’Adriatico al Danubio. Salutiamo la graziosa monaca che ci ha fatto da guida e ripartiamo. Dopo una dozzina di tornanti siamo arrivati.
Le attese non sono deluse, appena scesi dal pullman, subito impattiamo con la durezza delle condizioni: il posto che ci ospiterà sulla collina di Srnjača (traducibile con un avventuroso “Capriolaia”) non è raggiungibile se non con le slitte trainate a cavallo. Carichiamo i bagagli, ci sediamo sulle travi delle slitte e lasciamo quello che si può definire il paese: una dozzina di case, una piazza con un minuscolo alimentari, la posta, la pensione-ristorante Beli Bagrem e lo spoglio bar dove il fumo di decine di sigarette copre le facce dure dei cacciatori e le numerose bottiglie vuote di Jelen Pivo.
Dopo un’ampia curva superiamo la prima altura e godiamo già dell’immensità del territorio: una mare di colline dolci, fitte foreste scure ricoperte di neve, accecanti pascoli aperti. La giornata è bella e si può intuire a sud-est il profilo del massiccio di Kopaonik (famosa località sciistica) e a ovest il monte Radocelo (quasi 1.700 m.s.l.m.). Tutto è palesemente improvvisato, le guide dei cavalli sono dei ragazzi di 16 anni, che per darsi un tono hanno attaccato sul retro delle slitte un foglio a scritto a penna: 5€. Ridono, ridiamo, indicano, annuiamo, ci insegnano gli ordini da dare ai pazienti quadrupedi e improvvisiamo anche noi. Due pacche sulle spalle, quattro sigarette, dieci foto e in poco più di mezz’ora siamo arrivati in cima alla collina di Srnjača, dove ci si apre la vista su un meraviglioso tramonto rosso fuoco.
Sladjana Milikic Sretovic, 40 anni scarsi, capelli neri corvini, padrona indiscussa della Pansion Nebo (Pensione Cielo), cuoca sopraffina, materna e sensuale allo stesso tempo, ci accoglie con un gran sorriso e con tutta la famiglia al completo dietro di lei: il marito Saša, la piccola Sandra di 3 anni, il figlio Damian di 9 e due cani. La pensione sorge su di un’ampia radura circondata da boschi di altissimi abeti scuri e consiste in quattro bungalow e una locanda con annesse le stanze della famiglia Milikic-Sretovic. In tutto una ventina di posti letto.
Giusto il tempo di sistemarci, mettere sotto i denti uno spuntino e via, usciamo per una notturna con le ciaspole guidati da Ivan. Appena fuori dall’uscio dell’osteria, il naso punta subito verso l’alto: nell’aria gelida e quasi ferma, miliardi di stelle e una gigantesca luna ci danno il benvenuto in un mondo magico. La neve è davvero alta, poco trasformata, la traccia non è battuta: che fatica! Soprattutto quando abbandoniamo la strada forestale e ci inoltriamo nel bosco. Le piante sopra di noi sono cariche di neve e non è semplice muoversi, trovare il passaggio. Ogni tanto incontriamo le tracce degli animali, volpi, lepri, caprioli, cinghiali e lupi. Ma anche loro, con questa quantità eccezionale di neve (in alcuni punti quasi due metri), non escono molto dalle loro tane. Dopo circa tre ore e mezza, quando sembra di esserci quasi persi, usciamo su di un ampio pascolo dove qua e là fanno capolino dal manto nevoso intatto i tipici covoni i fieno a cono. Le frontali puntano sulle pendici della collina di Srnjača, sinonimo di Sladja e di caldo ristoro. Sono state ore intense, per lunghi tratti ci siamo sentiti quasi inghiottiti dalla natura stessa, che sembrava scherzare con noi, piccoli uomini immersi in quel bianco ovattato. Anche Ivan, che è nato qui, ha perso più volte l’orientamento. La sensazione è quella di aver giocato una partita alla pari con i boschi e le colline, dove il risultato finale non è così scontato: ma non è forse questo il significato della parola “avventura”? Un’ottima čorba (zuppa) di vitello e delle calde coperte fanno a dovere il loro lavoro.
Ci svegliamo il giorno della vigilia di capodanno mentre fuori il sole perde la sua battaglia con le nuvole e in breve tempo
inizia una nevicata intensa che sconvolge ogni agenda. “Non si può venir qui e pensare di fare quello che si vuole” sembra ammonirci la natura. Quindi va a farsi benedire la gita sul sentiero delle piccole chiese, con nostro rammarico. Il “Sentiero Culturale” preparato da IDA consiste in un percorso circolare di circa 10 km attraverso i boschi dove sono nascoste 14 piccole chiese del XIII secolo, perfettamente conservate. Molte sono poco più grandi di una stanza, è praticamente una caccia al tesoro. Ma con questo tempo e questo livello della neve non se ne parla proprio. Sarà per la prossima volta.
Verso il pomeriggio, mentre Sladja è intenta a preparare il cenone di capodanno, smette di nevicare e il sole ritorna con la sua tavolozza di colori caldi a dipingere i profili di colline, montagne e foreste. Con il sole spuntano anche i ragazzi delle slitte che ci offrono ad un prezzo pressoché ridicolo di fare una passeggiata a cavallo sulla neve. Semplicemente impossibile resistere. Sono salito su un cavallo non più di 3 volte quasi vent’anni fa, praticamente peggio di un principiante, ma con Rubin è subito feeling. Tre comandi (fischi e grugniti preistorici, niente di sofisticato) e io, Marco e Ljubomir, sembriamo Tex Willer, Kit Carson e la guida indiana, tutti e tre con tanto di sigaretta a mezza bocca e sguardo di ghiaccio perso oltre l’orizzonte del Wyoming serbo.
Rientriamo che è già arrivato Mihajlo il fisarmonicista e altri avventori, amici, umani. Si stringono le mani, girano i primi bicchieri di rakija (grappa) di prugna e di pera, si stappano le bottiglie di Teroldego, l’atmosfera si scalda e quando arrivano i primi piatti metà dei presenti o sta cantando o sta bevendo. Favolose sarme (foglie di vite ripiene di carne, riso e verdure) aprono le danze, poi il kajmak (formaggio di mucca invecchiato appena 3 giorni), carne di capriolo e prosciutti di ogni tipo, arriva pure il cavallo di battaglia della padrona: un delizioso gulasch di funghi. Vino trentino, grappa serba e birra scorrono a fiumi, i bambini ballano con noi, la musica riempie la locanda insieme al fumo, ai canti a dialoghi fitti fitti in una lingua che tutti capiscono ma non si sa bene che radici abbia, se ne riconosce qualche parola, qua un po’ di italiano sporcato dalle parlate trentine, là nell’angolo del tedesco di austroungarica memoria, serbo e inglese da viaggio fanno a pugni in mezzo alla stanza e addirittura spunta l’albanese (!). 3…2…1: Srecan Nove Godine! Buon Anno! Balli e risate proseguono tutta la notte, fino alle prime luci del mattino. A volte mi capita di uscire fuori nella notte, chiudermi la porta di legno dietro per prendere una boccata d’aria, tre passi nella neve e la festa non si sente più, mille anni luce di distanza. Il paesaggio sembra immobile, cristallizzato dal Mago dell’Inverno, rivoli di vento disegnano meringhe di neve sulla radura, vibra il cuore di qualche abete, una pace indescrivibile, mista a timore reverenziale per una bellezza quasi commuovente.
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