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Rotta balcanica: viaggio nella repubblica migrante della Bosnia occidentale

Un ampio resoconto di un periodo passato da volontaria nei campi che accolgono migranti nella Bosnia occidentale. Riceviamo e volentieri pubblichiamo

24/09/2018, Michela Pusterla -

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La rotta balcanica – via per la quale sono entrate in Europa migliaia di persone senza documenti – è ufficialmente sgombra dal 2016, come effetto dell’accordo tra EU e Turchia che costringe le persone migranti a chiedere asilo in Grecia per evitare la deportazione in Turchia. In verità però, la rotta non è mai stata davvero abbandonata e i suoi numerosi confini non sono mai stati impermeabili: nel 2017, il confine serbo-ungherese è diventato il cuneo settentrionale dove le/i migranti si arenavano (temporaneamente) alle porte d’Europa: a Belgrado, circa mille persone vivevano in strada, prima che la polizia ne distruggesse le baracche a maggio 2017; a Subotica, sul confine serbo-ungherese, Sombor e Šid, sul confine serbo-croato, centinaia di persone hanno trascorso mesi o anni in jungles, accampamenti spesso appena fuori dai campi ufficiali, con il supporto dei gruppi di attivisti di No Name Kitchen, Rigardu ed Escuela con Alma.

Il «muro di Orbán», che impediva il passaggio dalla rotta serbo-ungherese, l’intensificarsi dei controlli e dei respingimenti al confine serbo-croato e la deportazione nei campi governativi a centinaia di chilometri dal confine hanno determinato un progressivo allontanamento dei migranti dalla Serbia, per quanto, secondo l’UNHCR, ancora ad agosto 2018, vivevano in Serbia circa 4mila persone migranti, delle quali 500 fuori dai campi ufficiali. Nella primavera 2018, centinaia di migranti hanno cominciato a spostarsi dalla Serbia alla Bosnia ed Erzegovina, per tentare il passaggio attraverso il confine bosniaco-croato; i migranti di Šid e Belgrado sono poi stati raggiunti in Bosnia da chi aveva aperto la nuova rotta sud-nord attraverso l’Albania e il Montenegro e da numerosi iraniani e indiani giunti a Belgrado dopo la liberalizzazione dei visti da parte della Serbia.

La rotta si è mossa verso la Bosnia nell’aprile 2018 e si è incagliata nel suo estremo confine occidentale, nel territorio lungo la valle del fiume Una: qualche migliaio di persone si trova oggi proprio nelle città di confine di Bihać e Velika Kladuša, mentre poche centinaia restano a Sarajevo. Dall’inizio del 2018 a fine giugno, l’UNHCR ha registrato 7600 arrivi in Bosnia: si tratta di persone provenienti da «Pakistan (30%), Siria (17%), Afghanistan (12%), Iran (11%) e Iraq (10%)», ma sono presenti anche vari nordafricani e alcuni nepalesi. I numeri reali sono probabilmente maggiori, considerato che quelli ufficiali si basano sui dati raccolti dalla polizia bosniaca, che consegna ai migranti che intercetta una specie di “foglio di transito” che ne legalizza la presenza sul territorio nazionale per 15 giorni. Questa registrazione ufficiale è stata in parte regolarizzata nel mese di agosto, soprattutto dalla polizia della Federazione (una delle due entità costitutive della Bosnia Erzegovina, ndr), che controlla i documenti delle persone non bianche sui pullman provenienti dalla capitale.

Nei primi mesi della nuova rotta si è registrata una diffusa solidarietà da parte della popolazione nel territorio della Federazione (a Tuzla, Bihać, Sarajevo), spiegata dai solidali e soprattutto dai giornalisti attraverso il richiamo al trauma della guerra bosniaca. Tuttavia, ora, passata la sorpresa e sistematizzata l’emergenza, la tensione di questa convivenza coatta a lungo termine comincia a emergere. La complessità della situazione a fronte di una rappresentazione semplificata e allarmista, la stratificazione storico-politica del territorio e l’incombenza dell’inverno rendono la questione migrante bosniaca cruciale e un’attenzione critica imprescindibile.

Questo articolo è stato scritto dopo un periodo trascorso nei campi della Bosnia ad agosto 2018.

La Bosnia ed Erzegovina e i migranti

La Bosnia ed Erzegovina è l’unico Paese europeo di fatto commissariato, cioè sotto il controllo militare dell’UE (EUFOR, a guida austriaca dal 2009), che ha sostituito la NATO, e sotto il controllo politico dell’Alto Rappresentante per la Bosnia. La presenza dell’Alto Rappresentante – dal 2009, l’austriaco Valentin Inzko – pone la politica bosniaca in uno stato di subalternità a un varo esterno e complica il già articolato sistema statale e amministrativo, deforme figlio di Dayton. Questa situazione politica, le elezioni imminenti («le elezioni storiche che non cambieranno nulla») e la questione religiosa sollevata dal partito nazionalista serbo (in riferimento a un ripopolamento musulmano della Bosnia attraverso i migranti che sarebbero benvoluti dai politici bosgnacchi) determinano un disinteresse politico per le condizioni di vita delle persone migranti e per l’avvio di procedure di asilo: al momento ci sono tre soli – e pienissimi – centri di accoglienza statali, uno a Delijaš, in Republika Sprska, uno a Salakovac (vicino a Mostar) e uno a Sarajevo, già ripulita dai migranti per strada una prima volta per la visita del dittatore turco Erdoğan a febbraio 2018 e una seconda volta in occasione del Sarajevo Film Festival ad agosto.

La Bosnia sta sopperendo all’assenza di un’organizzazione statale delle migrazioni attraverso il volontariato e le donazioni locali (cresciute esponenzialmente nel mese di Ramadan per poi riassestarsi al ribasso), la presenza di ong internazionali (Croce rossa, Medici senza frontiere e vari gruppi minori) e di molti volontari indipendenti e l’intervento dell’Organizzazione mondiale per le migrazioni (OIM, finanziata localmente dai ministeri dell’Interno) e dell’Alto commissariato per i rifugiati (UNHCR), che spesso suggeriscono ai migranti diretti in Europa di fare domanda di asilo in Bosnia o di rientrare nel paese di origine attraverso forme di rimpatrio assistito. In ogni caso, l’equilibrio vacillante tra questi attori e la gestione acefala e caotica non garantiscono che le condizioni minime di sopravvivenza saranno assicurate sopraggiunto il freddissimo inverno dei Balcani centrali.

Se i fondi per la gestione umanitaria delle migrazioni vengono dalle organizzazioni internazionali e dalle donazioni private spesso locali, la gestione militare viene finanziata con fondi europei: «dal 2007, la Commissione europea ha garantito assistenza alla Bosnia, nel campo della migrazione e della gestione dei confini, attraverso lo strumento di assistenza preadesione, per un valore di 24,6 milioni di euro. Dal gennaio 2016, la Bosnia gode anche del programma regionale “Support to Protection-Sensitive Migration Management”, per un valore di 8 milioni di euro». Dopo un primo finanziamento di un milione e mezzo di euro, il 10 agosto 2018, la Commissione europea ha adottato una misura speciale (6 mln euro) per la questione migrante in Bosnia: i fondi sono destinati a «migliorare la capacità della Bosnia Erzegovina quanto a identificazione, registrazione e assistenza di persone di nazionalità terze che attraversano il confine, garantire alloggio e servizi primari a rifugiati, richiedenti asilo e migranti e rafforzare la capacità di controllo dei confini e sorveglianza, così contribuendo alla prevenzione e alla lotta al traffico di esseri umani». Nel frattempo, l’Agenzia europea per il controllo delle frontiere sta stipulando un accordo per una missione Frontex in Bosnia: l’UE dimostra in Bosnia, come altrove, come la questione umanitaria e quella poliziesca siano inevitabilmente intrecciate nella gestione europea delle migrazioni.

Bihać: we all fucked up

Secondo l’UNHCR, a giugno 2018, nel cantone di Una-Sana (Bosnia nordoccidentale) c’erano 3500 persone migranti, con arrivi giornalieri di 60/80 persone: la maggior parte di queste persone si trovava a Bihać, città di 60mila abitanti sulle rive del fiume Una. Da fine aprile, una parte delle persone migranti di stanza a Bihać è alloggiata nel campo di Borići (Đađki dom), gestito durante l’estate dai (giovanissimi) volontari della Croce rossa (CR) locale: Borići è costituito da un edificio non-finito che sarebbe dovuto essere una casa dello studente jugoslavo, ma che è stato abbandonato allo scoppio della guerra. Nell’edificio, i migranti si accatastano nei vani che si aprono su ogni piano: dormono dentro questo scheletro con le tende e i sacchi a pelo per ripararsi dalla pioggia che entra dalle finestre senza vetrate e cola dalle solette marce. Uno stanzone è pieno di letti a castello sui quali sono sdraiati uomini giovani: "Questi letti ce li abbiamo in giro dalla guerra", dice un volontario alle attiviste in visita. Intorno all’edificio, in un prato di pini, si estende il campo esterno, costituito da tende da campeggio e tappeti.

A Borići vivono circa mille persone cui vengono grossomodo garantiti tre pasti al giorno da parte della CR (che molti evitano, preferendo cucinare autonomamente), mentre in un container/infermeria (donato da MSF) si può trovare un medico locale durante ogni mattinata feriale, per quanto, stando alle testimonianze, il personale medico sia scostante e disinteressato. La scabbia è endemica, e incurabile in quelle condizioni igienico-sanitarie. Bagni e docce chimici – sgradevoli ma in numero sufficiente – sono gestiti da CR, tuttavia molte persone preferiscono lavarsi nel fiume, dove però pare sia già annegata almeno una persona.

A metà agosto, nei giorni successivi a una manifestazione di piazza di insofferenza verso la presenza dei migranti e verso il disinteresse delle autorità statali per la questione locale, la polizia bosniaca ha sgomberato circa la metà del campo: le persone che dormivano nelle tende esterne sono state costrette ad ammassarsi in uno spazio molto ridotto, non a caso meno visibile dalla strada principale. La polizia che presidia il campo e controlla il centro-città spesso non lascia che le/i migranti si muovano liberamente, ingiungendo «go back to camp», se sono in centro; «you stay here», se tentano di uscire dal campo. Da fine agosto circa, l’accesso a Borići è stato fortemente limitato alle volontarie e agli osservatori internazionali.

Fuori dal campo vive probabilmente un altro paio di migliaia di persone; fuori da qualsiasi circuito umanitario e assistenziale, queste persone avevano occupato una struttura abbandonata sulle rive della Una (che è stata sequestrata e sigillata dalla polizia dopo che alcune persone si sono ferite gravemente cadendo dal tetto) e varie case in città, alle volte affittate in nero. Spesso le persone scelgono di restare fuori dai circuiti umanitari ufficiali, per maggiore disponibilità economica e/o per scelta di autonomia dal controllo umanitario e per altre ragioni. Per queste persone e per quelle a Borići – nonostante la presenza di molte ong a Bihać – il problema è l’assenza di una struttura dove trascorrere l’inverno. L’hotel Sedra a Cazin, un hotel recentemente chiuso per fallimento dove l’OIM e UNHCR hanno trasferito qualche decina di famiglie, è una soluzione insufficiente e problematica: troppo lontano dal confine, rende ancora più difficile il tentarne l’attraversamento, che è la motivazione unica della presenza di persone migranti nel cantone di Una-Sana.

Velika Kladuša

Se Bihać è una cittadina di medie dimensioni tenuta in vita dal turismo e dalla bellezza del fiume Una, Velika Kladuša – nonostante i 40mila abitanti del comune e la sua storia come epicentro economico dell’impero Agrokomerc – appare come un paesone depresso e di fortissima emigrazione: d’estate, automobili targate Austria e Germania sono parcheggiate di fronte a case senza intonaco. Kladuša è una città di confine e un punto di passaggio, che – a seguito dei continui respingimenti da parte della polizia croata – è diventato territorio stanziale dalla primavera 2018.

La tendopoli di Velika Kladusa è stata approntata dai volontari locali del team di SOS Kladuša: si trova in un campo vicino a un rivo, che straripa in caso di pioggia forte, e un canile, dal quale escono decine di cani randagi. Entrando, ci si trova di fronte un graffito sul telo: «No pictures. We are all humans». Di fronte, una donna spazza la terra battuta davanti alla tenda dove dorme con la famiglia. Un pasto quotidiano (di scarsa qualità) viene assicurato dall’associazione locale Emmaus o dalla cucina di un ex-ristorante, riconosciuto anche dal Guardian come esempio di meritevole volontariato bosniaco, oggi finanziato e quindi controllato dall’OIM. La distribuzione di acqua potabile, la gestione delle docce e della distribuzione di vestiti e scarpe viene coordinata dall’ong spagnola No Name Kitchen, da anni sulla rotta balcanica, che svolge anche un enorme lavoro militante di denuncia. Kladuša, fatta salva la presenza bisettimanale di un furgone/infermeria della squadra bosniaca di Medici senza frontiere, vive in una sorta di autogestione controllata, fuori dai circuiti delle grandi ong internazionali. Nessuno pare essere realmente responsabile di niente. Davvero, la determinazione di cosa sia necessario al mantenimento della vita umana trova nelle situazioni emergenziali – e sicuramente nell’immaginario dei volontari delle ong della Bosnia occidentale – una ridefinizione al ribasso. La vita è garantita attraverso l’assicurazione di un pasto quotidiano – e non importa la qualità del cibo – e un tetto sulla testa – né importa che sia una tenda.

A tratti pare che, dopo l’economia socialista, già malata negli anni Ottanta, e l’economia di guerra, ci sia uno spiraglio per un’economia delle migrazioni, alla quale partecipano a vari livelli i trafficanti e le grandi organizzazioni umanitarie. Dal 2015, l’UE ha già stanziato più di 30 milioni per la cosiddetta crisi migratoria dei Balcani, la maggior parte (25) dei quali, per ora, sono andati alla Serbia, seguita dalla Repubblica di Macedonia (4), ma, come si è detto, nel giugno 2018, il primo milione e mezzo è stato inviato alla Bosnia.

The game

La ragione per la quale esiste una questione migratoria in Bosnia occidentale è – ovviamente – la presenza del confine. Dopo la «chiusura» del confine serbo-ungherese (settembre 2015) e di quello serbo-croato (marzo 2016) i flussi migratori – che sempre hanno trovato nuovi argini da rompere e sempre li troveranno – si sono immessi nella via di Bihać e Kladuša. Stanziarsi sul confine implica la possibilità quotidiana di tentarne l’attraversamento; stanziarsi nei campi implica la possibilità di entrare facilmente in contatto con gli smugglers, i contrabbandieri di persone. Ogni giorno, gruppi, famiglie, singoli preparano lo zaino e si avviano a piedi verso la frontiera bosniaco-croata: i punti di attraversamento sono molti, in zone boscose e alle volte minate, e raggiungere la Croazia sembra quasi facile. Come sa chi ha traversato fisicamente quel confine, tra Bosnia e Croazia non c’è alcuna frontiera geografica, linguistica, agronomica, infrastrutturale, né demografica evidente. Il confine è uno di quelli dove la fortezza Europa ha una ragione in meno di esistere, se mai ce ne sono o ce ne sono state di valide: non c’è un fiume, una falesia, un bosco; da entrambi i lati, solo campi e mucche, strade provinciali perlopiù maltenute, serbo-croato, pannelli «prodaje se» (cioè «vendesi») e case senza intonaco. Se il confine a sud della krajina (verso Knin e Sinj) è reso tangibile dalla presenza delle Alpi Dinariche, il confine di Kladuša è impercettibile se non fosse per la dogana, le camionette croate e i campi minati.

Passato questo confine, ci si trova di fronte l’epopea dell’attraversamento della Croazia, che nel lessico della rotta è – archetipicamente – un «big problem». La Croazia si supera in automobile (per chi può pagare uno smuggler qualche migliaio di euro) o a piedi (per chi non può permetterselo). Si viaggia di notte nei boschi, per non farsi vedere, con torce a energia solare, e si dorme di giorno. Dalla Bosnia, ci si porta un sacco a pelo, un cambio per quando si raggiunge l’Italia, il cibo e l’acqua necessari per quei dieci giorni di cammino necessari a raggiungere la Slovenia o l’Italia; scendere nei paesi e nelle cittadine lungo il percorso per cercare acqua o cibo è troppo pericoloso: essere avvistati da un cittadino croato significa quasi sempre essere segnalati alla polizia, che a sua volta significa la deportazione al confine bosniaco. La delazione sistematica – alimentata dalla strategia della tensione mediatica e politica contro la presenza di persone migranti – aumenta la perversione di questo gioco a guardie e ladri, che nel lessico della rotta è the game. Le persone che vengono respinte dalla polizia croata o da quella slovena vengono riportate sui confini di partenza, come se avessero pescato la carta «torna indietro di tre caselle». Quanti turni si debba stare fermi in questo gioco scellerato dipende dalla propria forza fisica e psichica e dal denaro che si ha a disposizione, e dalla fortuna e da dio, dicono tutti. Ma il punto fermo è che in ogni caso tutti ci riproveranno – chi due chi sette chi quindici volte – e tutti alla fine passeranno quelle frontiere inventate negli anni ’90. Tutte e tutti passeranno, dopo una folle stasi di qualche mese (o qualche anno) nella ex-Jugoslavia.

Le violenze sistemiche della polizia croata

Nel 2017 l’UNHCR e le organizzazioni partner hanno registrato circa 3mila casi di respingimenti illegali dalla Croazia, a fronte di un numero probabilmente maggiore. Oggi, i respingimenti dalla Croazia continuano. Nel lessico della rotta, sono i push-backs.

Legalmente, la polizia croata può respingere chi tenta di entrare illegalmente nei suoi confini se sprovvisto di documento valido, come vale anche per i Paesi in territorio Schengen (qui una breve guida ai respingimenti, di ASGI), non può tuttavia respingere coloro che fanno richiesta di asilo, essendo firmataria della Convenzione di Ginevra. Tuttavia, stando alle testimonianze raccolte, la maggior parte, anche se non la totalità, dei respingimenti dalla Croazia avviene contro persone che esplicitano verbalmente la loro richiesta di asilo. Respingimenti analoghi vengono messi in atto anche dalla polizia slovena, in coordinamento con quella croata: alcuni migranti vengono intercettati dalla polizia slovena e deportati al confine sloveno-croato dove vengono presi in consegna dalla polizia croata che li trasporta al confine croato-serbo o croato-bosniaco, senza tener conto del loro punto di partenza.

Negli ultimi mesi, il game si è fatto più duro: quando la polizia croata intercetta i migranti non si limita a respingerli verso la Bosnia, portandoli a una ventina di chilometri dal confine, ma li deruba, manganella e distrugge loro i telefoni cellulari. Le violenze della polizia croata contro chi attraversa illegalmente il confine sono registrate già da alcuni anni: se prima erano sul confine serbo-croato, ora si sono semplicemente delocalizzate su quello bosniaco-croato, seguendo la nuova rotta migratoria. Il blog Border violence le registra – su larga scala, ma senza sistematicità di copertura – dal 2016, con l’ausilio di gruppi volontari/e, attivisti/e, militanti (come Are you Syrious?, No name kitchen e Iniziativa Welcome!) e soggetti indipendenti. Alcuni episodi – come il ferimento con arma da fuoco di due bambini lo scorso 30 maggio – ricevono qualche peso mediatico, ma in generale la polizia croata opera non solo nel silenzio e nell’impunità ma proprio grazie al contributo di un esercito di informatori conniventi e con il consenso – quantomeno implicito – dell’Unione Europea. Un uomo diretto in Germania respinto dalla polizia croata mi ha raccontato che, mentre veniva picchiato, i poliziotti croati lo sbeffeggiavano: «this is German money». I primi migranti illegalmente respinti in Bosnia hanno deciso di fare denuncia pubblica e legale.

Anche l’UNHCR registra «deportazioni da più Stati nella regione, sia sotto forma di diniego di accesso alle procedure di asilo sia alle volte come violenza e ruberia da parte di alcune autorità dello Stato» e registra 18 morti nel 2018 nei Balcani: la maggior parte morti per annegamento, soprattutto lungo il confine croato-sloveno, dove scorrono il Dragonja e il Krupa, proprio dove il passaggio era stato sbarrato con il filo spinato.

La Croazia – tra i pochissimi membri UE privi dell’onore – vorrebbe aderire allo spazio Schengen (e lo farà nel 2020): l’adesione pone come condizione la capacità e la responsabilità di controllare i confini esterni dell’UE. La Croazia quindi ferma e respinge i migranti non tanto perché siano un pericolo per la sua sicurezza interna né perché esista una questione rifugiate/i in Croazia (che è solo terra di transito), ma esclusivamente per provare all’UE di costituire davvero il suo limes meridionale, come una krajina dell’Europa cristiana prima delle terre ottomane.

Per gli anni 2014-2020, la Croazia partecipa al programma europeo Fondo asilo, migrazione e integrazione (Fami), che le garantisce 17 milioni di euro (310 sono quelli garantiti all’Italia), mentre il Fondo per la sicurezza interna garantisce alla Croazia 35 milioni per la gestione dei confini (156 all’Italia) e 19 milioni per la polizia (56 all’Italia): la questione dei confini europei è una questione economica.

No borders

Le persone migranti che oggi si trovano in Bosnia – a 230 chilometri da Trieste, Italia – sono, a ben vedere, poche: si tratta di qualche migliaio. Verrebbe da dire che l’incombente crisi umanitaria della quale hanno parlato ad agosto i giornali si potrebbe risolvere aprendo i confini per una notte. Ma se risolvere la crisi significasse aprire la «crisi», nel senso di innescare un vero flusso di migranti? E se al contrario, come lo dicono i numeri ma non i giornali, una grande crisi non c’è, ma fa comodo riattizzarla costantemente, attraendo la presenza di ong e insieme permettendo i respingimenti violenti?

La situazione di stasi o di lentissima trasformazione della primavera/estate 2018 si è retta su un bilanciamento di circostanze e interessi: l’interesse croato a mostrarsi la frontiera meridionale dell’Europa e quindi meritevole di un inglobamento in Schengen; quello bosniaco – e delle grandi ong locali – nel dimostrarsi in grado gestire autonomamente (per quanto con finanziamenti esterni) una crisi migratoria; e soprattutto quello dell’UE nel subappaltare ai Balcani la costruzione della frontiera, cioè nel far sì che si tramutassero essi stessi in frontiera della fortezza. Tuttavia, questo equilibrio si basava tutto su un presupposto meteorologico fondamentale: l’estate, che garantiva da sola le condizioni di sopravvivenza minime (clima, spazi, possibilità quasi quotidiana di tentare il game).

A Velika Kladuša, inizialmente pareva che la soluzione per affrontare il freddo fosse la creazione di un campo invernale in un capannone abbandonato dell’Agrokomerc, fuori Kladuša, sotto (forse?) la benedizione di Fikret Abdić, ex-magnate, criminale di guerra e dal 2016 sindaco di Kladuša; tuttavia l’Unione Europea ha rifiutato il finanziamento di un campo ufficiale sul confine: l’obiettivo è tenere le persone migranti più lontane possibile dalla fortezza. A Bihać, pareva che l’OIM avrebbe finanziato la ristrutturazione edilizia di Borići, ma ad ora i lavori non sono ancora iniziati, né potrebbero mai iniziare senza lo sgombero dell’edificio. Insomma, non esiste alcun piano invernale sul tavolo.

L’estate è al termine e il caos bosniaco, piccolo ma tesissimo, è pronto a detonare, e forse ce ne accorgeremo quando ci arriveranno gli echi dei primi migranti crepati di freddo nel tentativo di arrivarci alla frontiera orientale. O forse quello stesso piccolo ma tesissimo caos si riverserà altrove, sparpagliandosi per l’inverno, e si neutralizzerà fino alla primavera, al di qua e al di là di frontiere che non esistevano né ha alcun senso umano che esistano.

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