Rotta balcanica: chiusa, anzi no
Nonostante due anni fa le autorità ne avessero decretato la chiusura, la rotta balcanica ha continuato ad essere percorsa, pur con flussi decisamente minori rispetto al recente passato
Ufficialmente, è stata chiusa nella primavera del 2016. Con l’azione unilaterale di chiusura dei propri confini di diversi stati europei e, successivamente, con l’accordo siglato tra l’Unione europea e la Turchia, la cosiddetta “rotta balcanica” ha smesso di esistere due anni fa. Tuttavia, il corridoio che ha permesso il passaggio di centinaia di migliaia di persone tra il 2015 e il 2016 continua in realtà ad essere percorso ogni giorno da centinaia di migranti e rifugiati provenienti dal Medio Oriente e dall’Africa. E questo, con rischi maggiori rispetto al recente passato e spesso incontrando la violenza delle autorità locali.
Per dare un’idea complessiva della situazione nei Balcani, basti pensare che secondo i dati presentati a fine febbraio dalla portavoce dell’Unhcr in Bosnia Erzegovina Anne-Christine Eriksson, tra i 40.000 e i 50.000 rifugiati si trovano nel territorio compreso tra la Grecia ed il confine croato, in attesa di poter continuare il proprio viaggio verso l’Europa occidentale. Se la maggior parte di questi si trova in Grecia, come fa sapere l’Unhcr (precisando che 11.400 persone si trovano sulle isole dell’Egeo e 18.700 nelle strutture predisposte dallo stesso Alto commissariato sulla terraferma), il resto della penisola assiste ad un incremento degli ingressi attraverso le proprie frontiere.
Una nuova rotta bosniaca?
È il caso ad esempio della Bosnia Erzegovina, che pur trovandosi nel cuore dei Balcani occidentali, non era stata coinvolta nel grande flusso migratorio del 2015. Dal 1° gennaio al 18 marzo 2018, tuttavia, la polizia di frontiera bosniaca ha rilevato 695 attraversamenti irregolari dei propri confini, praticamente tanti quanti i casi accertati in tutto il 2017 (che in dodici mesi si erano fermati a quota 753). Secondo i dati pubblicati dalle autorità di Sarajevo, di queste 695 persone fermate ai confini, 208 sono di origine siriana, 107 vengono dal Pakistan, 78 dalla Libia e 66 dall’Afghanistan, confermando le prime nazionalità riscontrate anche nel resto della penisola balcanica.
Di fronte ad un numero degli ingressi in continua ascesa (nel 2016 erano poco più di cento), il ministro della Sicurezza bosniaco Dragan Mektić ha avvertito a fine febbraio che se da un lato “la situazione non è allarmante”, dall’altro le forze dell’ordine bosniache hanno bisogno di più mezzi e più personale per poter tenere sotto controllo questo flusso. “Soltanto nella polizia di frontiera abbiamo un quinto di posti vacanti. Ci mancano circa 500 agenti per proteggere i confini”, ha dichiarato il ministro. Sempre a fine febbraio, Mektić ha incontrato il suo omologo croato, Davor Božinović, responsabile degli Interni, con cui ha discusso proprio della crescente attività presso la frontiera comune.
Infatti, se la maggior parte degli ingressi irregolari in Bosnia sono registrati nell’area di Trebinje, al confine col Montenegro, e in quella di Višegrad, al confine con la Serbia, la rotta seguita da rifugiati e migranti porta inevitabilmente verso nord, in direzione, dunque, della Croazia. Zagabria, o meglio la sua politica di deterrenza nei confronti delle persone in arrivo dai Balcani meridionali, sarebbe peraltro all’origine della nuova rotta bosniaca.
In un’intervista alla Deutsche Welle, la giornalista ed attivista bosniaca Nidžara Ahmetašević ha infatti affermato che un flusso sempre più importante di persone ha iniziato ad attraversare la Bosnia con l’intenzione di entrare nell’Ue, proprio mentre la Croazia rinforzava i suoi controlli ai confini con la Serbia.
Il culmine, tuttavia, è stato raggiunto nel novembre del 2017 quando Madina Hussiny, una bambina afgana di 6 anni, è morta investita da un treno al confine serbo-croato, dopo che la polizia croata aveva ordinato alla sua famiglia di ripercorrere a ritroso i binari in direzione di Belgrado. “A quel punto, penso che la maggior parte delle persone abbiano capito che non potevano più passare in quel modo tra Serbia e Croazia e la rotta ha cominciato a spostarsi in Bosnia Erzegovina”, ha spiegato Ahmetašević alla Deutsche Welle.
Le violenze al confine serbo-croato
Al confine serbo-croato, in effetti, le testimonianze della brutalità della polizia di frontiera croata sono numerose e questo già da prima del caso Madina. A Šid, una cittadina semiaddormentata di 16.000 abitanti nella campagna serba, ad appena 6 km dal confine con la Croazia, molti rifugiati si lamentano della violenza delle forze di polizia croate. Nei locali di un’ex tipografia abbandonata dove un’associazione spagnola – No Name Kitchen – distribuisce due pasti al giorno ai rifugiati, un graffito riassume lo stato d’animo dei migranti nei confronti della polizia: “Roses are red, violets are blue, fuck Croatian police and Serbian too”.
I rifugiati denunciano di essere stati picchiati, di aver visto il proprio smartphone distrutto o ancora di aver subito l’estorsione di denaro. Ma soprattutto, il fatto di essere stati illegalmente rispediti sul territorio serbo, senza che sia stato permesso loro di presentare una domanda di asilo in Croazia. Delle cento persone che si trovano oggi a Šid, volendo restare il più vicino possibile al confine dell’Unione europea, quasi tutte hanno già tentato l’attraversamento una decina di volte. A piedi, nascosti sotto un camion o un treno, sono riusciti ogni volta ad entrare nel territorio croato. Ma ogni volta, la polizia li ha intercettati ed espulsi in Serbia.
Se il ministro dell’Interno croato (MUP) nega tutte le accuse, affermando che i suoi agenti rispettano sempre la legge, diverse ONG hanno dal canto loro recensito centinaia di respingimenti illegali. La legge croata prevede che ogni rifugiato che si trovi sul territorio nazionale abbia il diritto di presentare una richiesta di asilo nel paese. Un principio non sempre rispettato, secondo i rapporti di diverse associazioni come Are you Syrious e Inicijativa Dobrodošli. “In generale, i poliziotti croati fermano i rifugiati e si rifiutano di registrare la loro domanda di asilo. Li accompagnano poi fino alla frontiera serba e indicano loro di seguire i binari, a piedi, per tornare a Šid”, spiega Milena Zajović dell’ONG Are you Syrious.
I respingimenti sono spesso accompagnati da violenze, come confermano i rapporti di Medici senza Frontiere (MSF) in Serbia. Nel 2017, la filiale serba di MSF ha trattato “una quarantina di casi di persone ferite e di ritorno dalla frontiera croata”, confermava a dicembre 2017 il rappresentante di MSF, Andrea Contenta. Proprio per verificare quanto riportato dalle associazioni locali in materia di violenze e violazioni della legge, Human Rights Watch (HRW) ha chiesto a metà marzo 2018 al Comitato sui Diritti dell’Infanzia delle Nazioni Unite di invitare le autorità croate ad aprire un’inchiesta in materia. Secondo le ONG, durante il 2017, la Croazia avrebbe respinto illegalmente più di 3000 migranti.
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