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Romania: Yosif Kiraly, viaggio nelle memorie ricostruite

“Nessuno ha mai avuto interesse nello studio della nostra arte…”, esordì incredulo Yosif Kiraly, mentre preparava con calma zen un paio di tazze di tè accompagnate da deliziosi biscotti. Un incontro, datato 2010, ma che non ha perso la propria attualità. Riceviamo e volentieri pubblichiamo

29/04/2015, Laura D'Angelo -

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Incontro Yosif Kiraly, artista visuale e professore di fotografia e video presso l’Accademia d’Arte di Bucarest, nell’estate del 2010. E’ domenica mattina e la città è pressappoco deserta a causa dell’afa persistente. L’appuntamento è per le 11.00 di fronte alla biblioteca della Uniunea Artiștilor Plastici, l’edificio universitario che ospita lo studio dell’artista, raggiungibile attraversando corridoi stretti e bui negli intricati sotterranei del palazzo.

L’ufficio di Yosif è una vera e propria officina di lavoro e studio: pile di libri in ogni angolo, poster murali, scaffali colmi di faldoni e cd. Schermi di computer e stampe fotografiche sono i principali addobbi della stanza, un contorno adatto a quest’uomo placido e composto, timido e riflessivo.

Nessuno, confessa Yosif rompendo subito il ghiaccio, hai mai mostrato interesse nel documentare l’arte rumena, eppure c’è sempre una prima volta, rispondo io strappandogli un sorriso. Allora cinquantaduenne, l’artista inizia a raccontarmi le due facce di una nazione che ha affrontato, improvvisamente, cambiamenti radicali, essendone lui stato spettatore e partecipante.

“Siamo passati da un sistema caratterizzato dal totale controllo sociale ad una forma di liberalismo selvaggio senza mezze misure. In questo passaggio è come se avessimo subito una sorta di alienazione spirituale, di caos interiore a cui noi artisti cerchiamo di dare una forma”.

Incuriosita dalle sue esperienze “tra i due mondi”, lo invito a rispolverare il passato chiedendogli come gli intellettuali dell’epoca comunista reagirono contro la rigida sorveglianza imposta del regime. “Da giovane appartenevo a quel gruppo di artisti che per sfuggire al sistema cercavano ad ogni costo di fare qualcosa di diverso. Emigrare all’estero era impensabile, così come esporvi le proprie opere; non solo i controlli della Securitate erano duri e continui, ma per esser riconosciuti artisti bisognava iscriversi all’Unione degli Artisti, uno degli organi statali creati per esercitare il controllo sociale, politico e culturale. Chiunque fosse in possesso di una macchina da scrivere, inoltre, era obbligato ogni anno a dichiararla presso la polizia. Ogni singolo apparecchio veniva specificatamente marchiato in modo tale da poter identificare le opere prodotte. Guai dunque a stampare manifesti anti-regime”.

Negli anni ’80 molti artisti ebbero come alternativa l’adesione a Prolog, un movimento di matrice religiosa in opposizione al miscredente regime politico, altri invece, appartenenti a correnti underground, si impegnarono nella creazione e diffusione di messaggi subliminali attraverso opere letterarie e teatrali. In questo contesto Yosif Kiraly optò per una nuova forma artistica, la Mail Art o arte postale: “Anche se si trattava di un fenomeno marginale nel complesso dell’arte mondiale, per noi, artisti dell’Est, la Mail Art fu molto importante. Ci diede l’illusione di essere partecipi nella storia mondiale, di comunicare globalmente”.

Iosif Kiraly

Iosif Kiraly

La Mail Art si realizzava tramite l’interazione tra un mittente ed uno o molteplici destinatari, sulla base di un tema di riferimento. Alle volte sulle buste venivano volutamente scritti indirizzi inesistenti con l’intento di scatenare le ire dei postini, o più semplicemente indurli alla riflessione distraendoli per un attimo dalla routine del loro lavoro; lettere che vagavano da un punto all’altro del pianeta, per tornare infine al mittente, piene di timbri esotici. Un nuovo modo di fare arte, libero ed accessibile a tutti, che permise agli artisti del blocco sovietico di travalicare gratuitamente i confini della propria nazione, fino alla caduta del muro di Berlino.

Dagli anni ’90 in poi gli artisti rumeni sono d’un tratto liberi di viaggiare all’estero per partecipare ad esposizioni internazionali e residenze e, proprio grazie ad una di queste, Yosif, assieme al collega Dan Calin, si trasferisce tre anni a Berlino realizzando progetti a nome del gruppo SubREAL, finché, divenuto ormai padre, decide di tornare in patria.

“Oggi tutto è cambiato, ma nulla è stato risolto”, evidenzia l’artista. “Se durante il comunismo nei supermercati mancavano i generi alimentari, fatta eccezione per i barattoli di sottaceti, ora invece c’è di tutto ma a mancare sono i soldi”.

Indebitatosi con i paesi europei, negli anni ’80 Ceausescu ordinò l’intera esportazione della produzione agricola e industriale, incurante della miseria in cui versava la popolazione. Il Leu, moneta nazionale, venne svalutato ed una visita dal dottore era comunemente pagata con ciò che si possedeva o produceva, carne, pesce, sigarette. Quando veniva annunciata la distribuzione di carne o uova, intere famiglie accorrevano in massa dalla sera precedente sperando nell’ottenimento di una razione di cibo, e se si era a lavoro, si pagava un disoccupato o un anziano per tenere un posto in fila.

Iosif Kiraly

Iosif Kiraly

Anni di lotta per la sopravvivenza, condizioni estreme, eppure ancora oggi è possibile scontrarsi con nostalgici del regime. “Durante la dittatura ognuno in genere aveva una casa e una razione di cibo assicurate”, spiega Yosif. “Ora per poter sopravvivere c’è bisogno di pensare, di avere un lavoro. Molti rifiutano la libertà di pensiero, vorrebbero tornare indietro, non doversi ingegnare. Non è semplice vivere qui ed io mi sento fortunato, posso lavorare come artista, ogni tanto viaggiare all’estero…”.

Gli chiedo se si considera un attivista: “In realtà non mi considero né un attivista né un artista politicizzato, tranne che per qualche esperienza avuta con SubREAL. Semplicemente faccio arte perché non so fare nient’altro”.

Durante la sua carriera da artista Yosif Kiraly decise di specializzarsi in fotografia. “Rispetto ad altri mezzi mediatici, la fotografia ebbe più fortuna durante gli anni del totalitarismo. Il governo la considerava un passatempo innocuo, materiale spazzatura, ignorandone completamente le potenzialità documentaristiche. Non a caso decisi di diventar fotografo…”.

Del suo essere fotografo Yosif ama soprattutto indagare il meccanismo della memoria e “Reconstructions” ne è la prova. Progetto nato nel 2000 l’artista lo definisce “Un’indagine su come ricordo e dimentico le persone, i posti, gli eventi.” Yosif si considera un flaneur, ovvero “una persona che cammina la città per sperimentarla”, vivendo lo spazio come il palcoscenico di un teatro e il tempo il frutto di una percezione intima. In questa serie fotografica Yosif riprende la tecnica del collage con immagini attaccate le une sulle altre: ogni istantanea rappresenta un luogo, un quartiere cittadino, una stazione ferroviaria o un ambiente intimo, ma in momenti differenti, a distanza di minuti, giorni, mesi, anni, dando un senso finale di coerenza spaziale ma discontinuità temporale.

Oltre al tema della memoria Yosif Kiraly documenta anche i cambiamenti urbani avvenuti nell’era post-comunista attraverso l’analisi dell’architettura: “L’architettura da sempre è testimonianza del potere politico ed economico di una nazione. Abbattere palazzi storici e monumenti significa negare la storia”, afferma Yosif. “Tinseltown (termine gergale per indicare la Hollywood contemporanea) è un documentario di strada realizzato tra il 2000 e il 2001 sulle abitazioni zingare”, continua l’artista, indicandomi un poster in cui sono ritratti due sorridenti ragazzi gitani con alle spalle un imponente e pittoresco edificio dallo stile orientaleggiante. “Queste case, così sontuose, sono un pretesto per dimostrare alla gente che il popolo gitano non è solo in grado di distruggere ma anche di costruire qualcosa di bello. Nonostante si tratti spesso di pura scenografia, con tetti che volano via alla prima tempesta di neve e acqua o elettricità spesso assenti”.

Per questo progetto l’artista ha inoltre subito numerose pressioni personali: da parte dei soggetti ritratti poiché molte abitazioni erano, e probabilmente continuano ad essere abusive, da parte dei suoi connazionali, indignati per aver prestato attenzione agli zingari e ancora dai rappresentanti rom al governo, intimoriti che questa immagine di ricchezza potesse interrompere il flusso di fondi derivanti dalle fondazioni internazionali per le minoranze gitane vittime di povertà e discriminazione. Ebbene sì, documentare la realtà rispondendo ad una vocazione, quella dell’artista, non è impresa facile!

Dopo questa piacevole chiacchierata io e Yosif ci salutiamo, augurandoci un buon pranzo domenicale. Come il giorno innanzi mi dirigo, assieme al mio paziente compagno di viaggi, verso Lipscani Square. Il sole splende in cielo e, affamata e contenta, non vedo l’ora di assaporare qualche buon piatto della cucina locale accompagnato da una birra artigianale ghiacciata. Bucarest mon amour, Poftă bună și Noroc!

 

www.iokira.com

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