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Romania: storia agricola di un villaggio del Banato

Il villaggio di Dudeștii Vechi nella Romania occidentale, ha attraversato il comunismo, la deportazione dei suoi abitanti, la frammentazione della terra. Sopravviverà ora all’agricoltura industriale? 

25/11/2016, Vlad Odobescu -

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(Pubblicato originariamente da theblacksea.eu il 3 maggio 2016)

Sulla mappa appesa al muro di fronte a noi, il villaggio di Dudeștii Vechi si presenta come un insieme di chiazze verdi e puntini rossi, si tratta di giardini e case. Circa una quindicina di fili arancioni si diramano dal villaggio in direzioni diverse, sono strade. Al centro c’è una grande linea blu, piegata a creare delle curve. E’ il fiume Aranca circondato dai campi degli abitanti del paese.

Gheorghe Kalcsov, un insegnate locale di storia ormai in pensione, ha colorato ogni solco di terra con un pennarello verde. Gli appezzamenti di terra sono piccoli, perpendicolari l’uno all’altro, ma abbastanza per tutti.

Questa è una copia di un dettaglio di una mappa catastale disegnata all’incirca attorno al 1770, quando il villaggio faceva parte dell’Impero austro-ungarico.

Kalcsov muove un dito su e giù per la mappa imprecando: “Gli italiani hanno distrutto tutto!” dice. “Molte di queste strade non ci sono più! Questa era una foresta, non lo è più! Da qualche parte qui intorno [l’italiano] ha messo una diga e spostato i canali dell’acqua. Le rive si prosciugano in estate. [L’italiano] Sta prendendo l’acqua per sé e questo non interessa a nessuno”.

L’italiano è Lucio Martini, proprietario della Emiliana West Rom, un’azienda agricola che lavora su oltre undici mila ettari attorno a Dudeștii Vechi, nella contea di Timis, Romania del sud-ovest. Martini ha ormai settantotto anni e, anche se viene spesso in Romania, non è conosciuto personalmente da nessuno dei residenti con cui ho parlato.

Dal 2000, quando sono arrivati in Romania, gli italiani hanno continuato a comprare terra nell’area del Timis, unendo gli appezzamenti e sbancandoli. Hanno trasformato in campi le vecchie strade che connettevano Dudeștii e i villaggi vicini e costruito nuove strade lungo i canali d’irrigazione.

Hanno spostato terra fertile sopra a terreno improduttivo, peggiorandone la qualità, mentre i loro bulldozer distruggevano tracce di antichi insediamenti. Questo è l’ultimo episodio nella tumultuosa storia di Dudeștii Vechi e della sua gente, una storia che ci racconta come un villaggio della Romania si sia frammentato, sia stato cucito insieme dal comunismo, come abbia visto la sua gente deportata, la sua società lacerata dalla politica post-rivoluzionaria per poi essere ricucito nuovamente insieme dagli italiani.

Troppi pascoli

In un piccolo villaggio vicino a Dudeștii Vechi, prossimo al confine con la Serbia, un treno merci aspetta. L’amministratore delegato dell’Emiliana West Rom è Sebastiano Stoppa, un italiano di trentaquattro anni vestito con una polo Lacoste rossa. Sta guardando le mucche pascolare in lontananza. Dice che ci sono troppi pascoli e che questa terra sarebbe buona per l’agricoltura.

Sta supervisionando i suoi dipendenti romeni mentre caricano circa 1,060 tonnellate di grano biologico su di un treno in partenza per l’Italia.

In un anno, da quando gli italiani hanno preso in gestione la ferrovia abbandonata dalla compagnia petrolifera Petrom, hanno già caricato circa venti treni. Nel 2014, circa il 20% della produzione di grano è andata in Italia, il resto è stato venduto in Romania e nel resto d’Europa. Ma quest’inverno sarà spedito quasi tutto in Italia, poiché il mercato rumeno non è in grado di assorbirlo, sostiene Stoppa.

E’ stata risistemata la strada che collega alla ferrovia. Sul lato sinistro, la silhouette di un nuovo silo luccica. Sulla destra, dietro il grande pascolo, tra i piccoli tetti delle case del villaggio c’è il campanile di una chiesa bianca. Dappertutto ci sono appezzamenti ben ordinati, pronti per la prima neve. “Abbiamo trovato una terra disastrata”, racconta Stoppa.

Quando è arrivata, l’azienda italiana ha fatto un’offerta per la terra di quella che era la fattoria locale di stato (IAS), poi hanno comprato, appezzamento dopo appezzamento, la terra anche dai privati. Nel 2015, sui loro 11.000 ettari hanno coltivato grano, soia, girasoli, mais e barbabietola.

Secondo un documento fornito dall’Agenzia per i pagamenti e gli interventi nell’agricoltura (APIA), l’Emiliana West Rom nel 2014 si è classificata seconda tra le aziende agricole che in Romania hanno ricevuto maggiori sussidi europei con 6,6 milioni di lei (1,4 milioni di euro), la prima tra le aziende a capitale straniero. Secondo la Camera di commercio italiana per la Romania gli italiani sono i principali investitori stranieri nel settore agricolo. Non ci sono invece dati ufficiali delle autorità rumene sul totale di terra posseduta da stranieri. Alcune stime dicono che circa il 10-40% del terreno agricolo rumeno sia controllato da persone o aziende straniere.

Molti sono attratti dai sussidi europei per le aziende agricole. “Il trend cresce velocemente”, ci dice un intermediario locale. Spesso gli intermediari locali trattano con la burocrazia dei villaggi e negoziano con i contadini, prima di vendere la terra a fondi di investimento o ad aziende che poi li uniscono per creare grandi aziende agricole.

Dalla rivoluzione la ricomposizione fondiaria ha beneficiato di un grande sostegno in Romania. Il paese ha una delle più grandi popolazioni rurali nell’UE, oltre il 43 percento nel 2014 e il maggior numero di aziende agricole: 3,63 milioni. Sono troppe, e il governo rumeno vede la ricomposizione fondiaria come l’unica chance per costruire un’agricoltura moderna. Il numero delle piccole aziende agricole è continuamente decresciuto negli ultimi anni. Ecoruralis , associazione che sostiene la micro agricoltura, afferma che ogni ora tre piccole aziende agricole chiudono in Romania.

80 funerali contro 30 battesimi

Secondo un censimento del 2011, erano 4203 gli abitanti di Dudeștii Vechi, ma questo numero sta precipitando. Ioan Vasilcin, prete del villaggio da oltre cinquant’anni, ha un modo tutto suo di tenere il conto. Ogni anno dice di assistere ad 80 funerali, contro 30 battesimi.

“Le persone se ne stanno andando” dice, “circa cento persone se ne vanno ogni anno, i giovani che hanno completato la scuola superiore vanno all’università. La maggior parte delle persone che vive qui ha oltre sessant’anni. I giovani vanno a Timisoara e se qualcuno muore, la casa resta vuota. Ci sono cinque o sei case vuote per ogni via”.

Il paese si chiamava Besenova Veche sino agli anni sessanta, toponimo bulgaro. Il nome è ancora presente su cartelli in caratteri latini e in cirillico all’entrata del paese. Le sue larghe strade fanno sembrare il paese più vuoto di quanto non sia.

Nel villaggio infatti il 60% degli abitanti sono bulgari-cattolici. Per sfuggire agli Ottomani, il vescovo bulgaro Nikola Stanislavici fuggì oltre il Danubio fino a Oltenia e, nel 1738, mentre gli ottomani continuavano a espandere il loro potere attraverso l’odierna Romania, fuggì assieme ad una comunità di compatrioti nel Banato, sotto il controllo dell’Impero austro-ungarico. Qui il governo donò ad ogni famiglia trentasei ettari di terra. Prosperarono e fondarono nuovi villaggi. La regione rimase governata dagli austriaci e dagli ungheresi fino al 1918, quando la Romania annesse la regione del Banato.

Ora il centro del villaggio, non è molto più di un incrocio, una chiesa, il municipio, la scuola e una locanda. C’è anche una statua del vescovo Nikola Bishop Stanislavici, con la mano alzata in un cenno di benedizione, mentre i ciclisti, i trattori e i SUV con targa italiana passano sfrecciando.

Negli anni ’30, il villaggio aveva 11.600 abitanti, circa il triplo rispetto ad oggi. Era una società di piccoli proprietari terrieri: ciascuno possedeva tra i 12 e i 18 ettari e solo pochi ne avevano più di 100. I poveri o i ‘servitori’, come venivano chiamati a Dudestii, lavoravano fianco a fianco con i contadini benestanti e apparentemente vivevano bene.

La gente del posto ha le lacrime agli occhi ripensando al periodo tra le due guerre, in quanto fu un periodo di pace sociale, dove i proprietari e chi lavorava la terra convivevano in armonia. “[Il proprietario] solitamente dormiva nel fienile con la servitù. E andava a dormire più tardi di loro”, sostiene Gheorghe Ghergulov, un ragioniere in pensione.

I proprietari erano i ‘Chiaburi’, i kulaki. “Erano buoni, persone lavoratrici”, aggiunge Ghergulov.

Il pensionato vive da solo in una casa squallida e fredda. Le persone vanno da lui con pratiche complicate legate alla pensione ed al recupero di terreni. Lui cerca tra le loro carte, strizzando gli occhi per leggere e se può cerca di aiutare.

Sebbene sia nostalgico degli anni trenta, la sua famiglia non sfuggì alla povertà. “Mia madre mi diceva che tutta la nostra famiglia lavorava fino allo sfinimento”, dice Ghergulov, “così potevano guadagnare dei soldi per comprare della terra, con la quale avrebbero potuto lavorare. Le persone non vivevano di truffe e furti, vivevano del loro lavoro. Se non avevano un lavoro, non avrebbero avuto abbastanza da mangiare”.

Dopo la Seconda guerra mondiale, i comunisti presero il controllo e crearono un’atmosfera di antagonismo di classe nel paese. “Le persone iniziarono a chiedersi perché le altre persone dovessero essere ricche ”, dice Ghergulov, “questo fu il momento in cui le ruberie, gli inganni e l’invidia iniziarono.”

Illustrazione di Sorina Vazelina Theblacksea.eu

Deportazioni

Nel 1949, il leader dei comunisti Gheorghe Gheorghiu-Dej introdusse politiche staliniste a favore di contadini poveri e piccoli proprietari. Allo stesso tempo, combatte’ contro la ‘chiaburimea’ , i ricchi contadini ‘kulaki’, accusati di sfruttare i contadini poveri. Nel periodo successivo iniziarono le confische di terreni e gli arresti dei ‘chiaburi’ benestanti.

Nel 1951, il partito deportò i ‘chiaburi’ nelle pianure quasi deserte del Bărăgan, nel sud-est del paese. L’esilio era il destino, oltre che dei proprietari terrieri anche di stranieri, collaboratori dell’esercito tedesco, persone con parenti all’estero, ‘nemici del socialismo’, criminali e prigionieri politici. Con la deportazione dei cittadini che vivevano nelle regioni vicino al confine jugoslavo, Dej voleva prevenire possibili influenze da parte del Maresciallo Tito su questa regione multietnica e intendeva limitare la resistenza contro la collettivizzazione.

Non molti ‘chiaburi’ vivevano a Dudeștii Vechi, così le autorità comuniste dovettero inventarseli. Questi nuovi leader erano odiati dagli abitanti. “L’intera società implose”, racconta Gheorghe Kalcsov, “ubriaconi abituati a giocare a carte e ad andare a prostitute diventarono importanti comunisti, presidenti e Dio sa cosa”. Dietro le porte chiuse del centro culturale, i nuovi capi del paese compilarono una lista di persone da deportare, dove le parentele, le dispute personali e le gelosie erano più importanti del fatto che la persona fosse o meno un ‘Kulako’. “Se io avessi avuto dell’astio per qualcuno e in qualche modo fossi stato al potere”, dice Kalcsov, “ avrei detto: che vada la diavolo, mettetelo sulla lista, mandatelo nel Bărăgan!”.

A metà del giugno 1951, alcuni vagoni merci iniziarono a radunarsi nella stazione di Dudeștii, squadre di soldati arrivarono in paese e le voci iniziarono a diffondersi, come scrive Rafael Mirciov nel suo libro ‘Il campo di concentramento. Pagine dal campo di Baragan (1951-1956)’: “Di domenica, di fronte alla chiesa, l’annunciatore del paese, Ioan Mirciov, suonava i tamburi con il seguente inusuale annuncio: Informiamo tutti che per i prossimi cinque giorni nessuno è autorizzato ad andare nei campi, poiché i soldati compiranno delle esercitazioni di tiro”, scrive Mirciov.

Quella notte soldati armati andarono di porta in porta domandando alle persone la loro identità. Tutti i presenti nelle case prescelte avevano due ore di tempo per andare in stazione. Alla fine furono 87 famiglie, 443 persone in tutto. Non venne data loro alcuna spiegazione.

I parenti di Caradjov erano tra questi. Avevano meno di sette ettari di terreno. Lui aveva sei anni all’epoca. “Presero il mio bis-nonno e la mia bis-nonna. Dissero a mio padre che poteva restare. Mio padre non voleva andarsene, ma io volevo partire, e così disse: ‘ Veniamo con voi!’. Non sapevamo dove ci avrebbero portati”.

Avevano il permesso di portare con loro un carro con i propri averi, così impilarono un letto, un materasso, un paio di vassoi, un lenzuolo, un cuscino ed un prosciutto. Alcuni non avevano neppure cibo da portare con sé. Mentre la famiglia Kalcsov si stava preparando per partire, alcuni vicini aprirono il cancello di casa loro, si presero un maiale e rubarono del vino.

I comunisti confiscarono presto i beni rimasti. Il partito trovava un uso per tutto.

Quando il convoglio iniziò a marciare verso la stazione, molti abitanti del villaggio abbassarono le persiane e sedettero al buio, sbirciando i deportati attraverso le tende.

I deportati misero i loro beni, incluse mucche e cavalli, dentro i vagoni merci. Una volta che il treno fu in movimento venne comunicato loro che stavano andando a seicento chilometri da lì, nel Baragan. Suonò come andare nella steppa russa. Il treno a volte si fermava e i bambini ricevevano tè e marmellata dalla Croce rossa. Le donne mungevano le mucche nei vagoni e nutrivano i bambini con il latte. Il viaggio durò una settimana.

Arrivarono ad una collina nei pressi della riva della Borcea, un ramo del Danubio, dove il vento e il caldo erano feroci. L’insediamento era nominato ‘Valea Viilor’ (Valle dei vigneti), ma non c’erano né valli né vigneti. Né c’erano case. C’era solo un grande campo e 250 lotti quadrati, messi in evidenza da alcuni paletti.

Il primo giorno arrivò una tempesta, e gli esuli dovettero nascondersi sotto i tavoli e dentro gli armadi. La notte, un cane da pastore si prese il prosciutto che i Cardajov si erano portati da casa. All’inizio, gli esuli bevvero l’acqua dal fiume, dai fossati e dalle impronte fatte dagli zoccoli dei loro cavalli. Nel villaggio più vicino, ogni casa aveva un pozzo. Ma gli abitanti all’inizio non vollero dare l’acqua ai nuovi arrivati in quanto credevano fossero criminali, traditori o kulaki.

Presto i deportati avviarono le prime attività ed iniziarono a coltivare i campi. Tutti i giorni, un uomo di bassa statura che si chiamava Ion prendeva in prestito un cavallo per scavare un pozzo di sessanta metri usando una carrucola e un sistema di ruote. “L’acqua che raccoglievamo era piena di argilla,” racconta Caradjov, “la mettevano in pentole, lasciandola riposare, prima di berla”.

Alcuni scavarono dei ripari nel terreno, coprendoli con un tetto in paglia. Altri a tagliare alberi e covoni di grano per creare delle rudimentali capanne. Lentamente i deportati cominciarono a costruire delle case.

Uno di loro aveva conoscenze di edilizia, un altro era carpentiere, uno era macellaio. Presto fu permesso loro di lavorare nelle fattorie e nei giardini locali. Cuocevano il pane in forni scavati nel terreno, poiché la terra nel Baragan era spessa e resistente. Preparavano l’impasto durante la notte e durante il giorno cucinavano cinque chili di pane alla volta. La gente del posto non aveva mai visto un pane simile prima di allora e presto si fecero più gentili con gli esuli.

“Questi nuovi venuti rappresentarono una sorta di scoppio di civiltà,” racconta Gheorghe Kalcsov, nato nel Baragan nel 1953.

Ma i più anziani non potevano dimenticare le loro case. Necessitavano di uno scopo nel Baragan e questo era rappresentato dalla loro terra lasciata a Dudestii Vechi. Ioan Petcov, un’ottantenne, dovette abbandonare circa cento ettari, scrive Rafael Mirciov nel suo libro: “Nel Baragan, un altro paesano, Ghita, pregò Petcov, suo parente, di un ettaro del suo vasto possedimento in cambio di aiuto e assistenza. Petcov rifiutò la proposta, poiché al suo ritorno voleva lavorare tutta la sua terra”.

Nel frattempo a Dudeștii Vechi il nuovo sistema socialista confiscava le terre e creava aziende agricole di stato (IAS) o forzava i contadini a collettivizzare i loro appezzamenti in Cooperative di produzione agricola (CAP). La differenza tra le due era che nelle cooperative gli abitanti avrebbero teoricamente mantenuto il diritto sulla loro proprietà.

Il nonno dell’ingegnere Dancu Vasilcin entrò in una cooperativa. “Potevi in teoria uscire dalla CAP, ma, in pratica, a nessuno era permesso di uscire” dice Vasilcin.

Prima del 1989, 411 IAS e 3776 CAP operavano in Romania. Ufficialmente, la collettivizzazione era basata sul desiderio dei contadini di lavorare la loro terra insieme.

A Dudeștii Vechi, la deportazione fu il miglior modo per convincere quelli rimasti nel Banato a lasciare la propria terra. “[La deportazione] fu il più grande passo verso la collettivizzazione. Quando [i deportati] se ne andarono, metà delle terre del villaggio diventarono di proprietà dello stato,” spiega Gheorghe Ghergulov. I rimanenti sapevano che, in un modo o nell’altro, avrebbero perso i loro appezzamenti.

I rappresentanti del partito ammisero di aver anche fatto degli errori. Un documento del 1952, presso gli archivi nazionali, recita: ”Alcuni organi del partito e del consiglio del popolo di queste regioni applicando meccanicamente le regole per identificare le famiglie di ‘chiaburi’, inserirono erroneamente famiglie contadine”. Responsabili per questi errori furono ‘elementi sovversivi’, si legge sul documento. A Dudeștii Vechi, gli ‘elementi sovversivi’ includevano persone del villaggio.

All’inizio del 1956, i comunisti misero gli esuli del Baragan nuovamente nei vagoni e li rimandarono a casa. Quando ritornò nel Banato l’ottantenne Petcov attraversò il paese con una falce in mano pronto a lavorare i suoi cento ettari, ma la terra era andata.

Alcuni abitanti dovettero addirittura andare in tribunale per riprendersi le loro case. Poi come la Romania iniziò ad industrializzarsi vennero aperti stabilimenti nelle vicine città di Sannicolau Mare e Timisoara, e molti giovani smisero con l’agricoltura. La vita in città aveva nuove attrazioni.

Illustrazione di Sorina Vazelina Theblacksea.eu

Una piccola rivoluzione

Il comunismo cadde nel 1989, con l’esecuzione del dittatore Nicolae Ceausescu il giorno di Natale.

Nella primavera del 1990, Stoian Caradjov inizò la sua piccola rivoluzione. Si ricordava dove era posizionato l’appezzamento della sua famiglia, vicino ai binari della ferrovia. Ora faceva parte di un’azienda agricola statale. Tutti conoscevano questo luogo. Durante il comunismo l’appezzamento veniva chiamato “ai Giardinieri” come il cognome della sua famiglia. Caradjov prese un trattore dall’azienda agricola statale e andò sul suo appezzamento. Diversi paesani cercarono di fermare quest’uomo dalla corporatura robusta.

“Che stai facendo?”, gli chiese uno dei vicini.

“Non ci vedi, sto arando!”, rispose lui.

“Che significa che stai arando?”

“Di chi è questa terra?” disse Caradjov. “Vieni qui e te lo dimostro!”

Non riuscirono a farlo scendere dal trattore poiché era un uomo forte e corpulento. Persino ora, a settant’anni, le sue braccia sono larghe come badili. Arò da solo. Altri, come Dancu Vasilcin, seguirono il suo esempio.

Nel 1991, la legge democratica del nuovo stato fece qualcosa che nemmeno i comunisti avevano osato fare: requisire anche la terra delle cooperative che i contadini almeno formalmente possedevano ancora, come da contratto. Poi i funzionari diedero ad ogni famiglia tra i 0,5 e i 10 ettari, e lo stato rumeno si prese tutto il resto. Questo pose fine al contratto di cooperazione, il quale prevedeva che una volta sciolte le aziende agricole, ogni contadino avrebbe avuto indietro la sua terra.

“Mio nonno entrò nella CAP”, dice Vasilcin. “Anche mio padre entrò nella CAP. (…) I nostri genitori sapevano dove erano i nostri appezzamenti”. Nacquero numerose dispute in quanto la terra passò dai contadini alle cooperative e poi ritornò ad altri contadini. Una nuova legge del 2000, la legge Lupu, capovolse questa legge. Questo permise alle persone di Dudestii di reclamare indietro gli appezzamenti che avevano perso durante il comunismo.

Ma questi appezzamenti erano già stati redistribuiti tra i lavoratori delle cooperative e i deportati, così i membri dei comitati locali decisero di dividere solo appezzamenti rimasti inutilizzati, spesso distanti dal villaggio e su terreni di minore qualità, inclusi pascoli, che erano inutili a chiunque non fosse una mucca o una capra. Chi ottenne questi terreni ricevette inoltre solo un certificato con la superficie dell’area, non i confini. Anche questo creò ulteriore confusione.

A Gheorghe Kalcsov venne riconosciuto il diritto su due ettari del suo appezzamento, ma questi erano già stati assegnati ad un altro contadino. Il municipio gli propose allora l’equivalente superficie di terra, ma distante da casa sua.

Un avvocato al municipio lo convinse a vendere i diritti su quei due ettari di terreno. “Mi diede i soldi, e chissà cosa se ne fece”, dice Kalcsov, “ma non vidi mai quella terra”. Ogni volta che qualcuno voleva vendere la propria terra il municipio preparava la modulistica senza ritardi. Questo era il modo in cui il processo di aggregazione fondiaria procedeva. Nel frattempo i macchinari e le infrastrutture dalle aziende agricole collettive erano stati rubati o distrutti.

“I funzionari delle aziende agricole iniziarono a dividersi gli equipaggiamenti”, dice Gheorghe Kalcsov “qualcuno si prendeva un trattore, qualcun altro una trivella o un aratro. E se un agricoltore come me, voleva arare o lavorare il suo appezzamento, sarebbe stato alla loro mercé. Tutte le persone povere si presero pecore, mucche e cavalli dalle aziende cooperative. Nel giro di un anno avevano mangiato tutti gli animali. Poi iniziarono a distruggere gli stabili per i mattoni o il legname e a tagliare gli alberi nei campi. Era il caos!”.

Illustrazione di Sorina Vazelina Theblacksea.eu

Non puoi essere lo stesso contadino dopo 50 anni

La gente era felice di riavere la propria terra indietro e di riprendere il controllo della propria vita. “Era un simbolo della loro dignità recuperata”, scrive l’antropologa americana Katherine Verdery nel libro “L’ettaro sparito”, dove racconta la restituzione della terra in un paese della Romania negli anni 90.

Ghergulov stava ancora lavorando in municipio all’inizio degli anni ’90 e tentava di moderare l’entusiasmo degli anziani abituati a lavorare la terra prima del comunismo. Se erano ventenni quando rimasero senza terra, ora erano settantenni. Ghergulov una volta chiese ad un anziano:

“Cosa pensa di poter fare con la terra? Sono passati cinquant’anni”.

Lui replicò furibondo: “Perché t’interessa? Dammi la terra! La lavoravo, posso rifarlo!”

Ci provarono davvero.

Nella Romania odierna può capitare spesso di vedere un contadino con un cavallo e un carretto su una strada di campagna. Ma questa non era un’immagine comune durante l’era comunista, è qualcosa che cominciò negli anni 90.

I pensionati che persero la loro terra negli anni ’50, comprarono cavalli e carretti per lavorare la propria terra riprendendo l’agricoltura nella maniera in cui l’avevano lasciata. “Lo facevano allo stesso modo di quando erano bambini”, dice Kalcsov. “Pensavano di poter girare intorno alla storia. Molti si sentirono male e morirono di attacchi di cuore sul loro campo”.

Quelli sotto i quarant’anni, come lui, lottarono per lavorare i loro dieci ettari. Ma non avevano l’accesso ai mercati per vendere i loro prodotti, niente sussidi e alcun prestito. E quando avevano i soldi, non riuscivano a trovare un conducente di trattori per arare o seminare. E anche nei casi in cui riuscissero a noleggiare il mezzo, questo si rompeva spesso.

I genitori di Ghergulov erano ancora vivi dopo la rivoluzione; ed ebbero indietro il loro pezzo di terreno. Stavano arando il mais con l’aiuto di alcuni vicini che possedevano un asino. Sua madre stava controllando il lavoro dei vicini, e Ghergulov li avrebbe aiutati una volta finito il lavoro al municipio.

Una scena è fissa nella sua mente, che lui dice essere l’epitome della vergogna. “Stavo osservando la nostra terra, dove il mio bis-nonno, che era il capo, ci lasciava entrare solo a piedi nudi quando la soia era soffice. Ora c’erano alcuni bambini: uno stava tirando un asino, e l’altro stava spingendo l’animale, per provare a costringerlo a lavorare. Se il vecchio avesse potuto risorgere dalla terra, avrebbe detto che siamo pazzi”.

“Questa era la tragedia: le persone erano entusiaste e avrebbero voluto lavorare. Ci provarono. Alcuni di loro morirono nei campi poiché stavano facendo uno sforzo che non potevano più reggere. E’ accaduto anche quest’anno. Una persona di passaggio nei campi ha scorto un anziano disteso per terra ed ha pensato stesse riposando. Quando gli è andato incontro ha capito che era morto”.

Lo stato non aiutava con alcun sussidio.

“Tali richieste andavano contro i piani delle organizzazioni internazionali per ridurre il potere degli stati post-socialisti e venivano lette come una conferma che queste popolazioni erano prigioniere di una mentalità socialista.” scrive Katherine Verdery. “Gli agricoltori del villaggio capirono allora la situazione chiaramente: se lo stato non li aiutava come gli stati dell’Europa occidentale aiutavano i loro agricoltori, non sarebbero riusciti a farcela”.

Dopo un po’, Ghergulov iniziò a sentire sempre più spesso frasi come: “Voglio vendere la terra”. A Dudeștii Vechi gli anziani iniziavano a morire o ad essere privi di forza. I giovani volevano uno stile di vita occidentale, Bmw di seconda mano, elettrodomestici moderni, televisori e finestre a doppio vetro.

Agli inizi del 2000, quando gli italiani arrivarono, i prezzi erano di circa duecento marchi tedeschi per ettaro, che significa circa cento euro odierni. Comprarono. Molti che non avevano un legame forte con la loro terra vendettero.

“Quelli che avevano la terra, che la possedevano da generazioni, vendevano raramente”, racconta Cardajanov. “Quando però i più vecchi morivano e i loro eredi si trovavano in città come Timisoara e Arad e non vivevano più lì, allora vendevano la terra”. Molti degli ex deportati tennero la terra.

Uno dei vicini di Kalcsov aveva cinque o sei ettari. “Lavorò lì i primi tempi, ma dopo vendette la terra e si comprò due auto. Poiché le auto erano già vecchie, le sue galline ora dormono sui sedili e nel bagagliaio.”

Petru Uzun lavora come avvocato al municipio di Dudeștii Vechi, ed è responsabile di tutte le richieste per la vendita di terreni. Con i soldi derivanti dalla vendita di un appezzamento si compra una televisione. Dal 2000 il prezzo del terreno è aumentato di circa quaranta volte.

“E’ stato un errore,” dice Dancu Vasilcin. “Cosa possiamo farci?”.

Illustrazione di Sorina Vazelina Theblacksea.eu

Gli italiani

Paolo Rocchi è l’ex direttore dell’Emiliana West Rom. Si ricorda che nei primi anni 2000 le persone di Dudeștii Vechi erano gentili. Gli italiani prima comprarono quello che rimaneva delle aziende agricole di stato affittando poi i terreni dai privati. “E una volta affittati, lentamente le persone li vendettero” ci dice.

Per loro era più lucrativo nel breve termine vendere venti ettari di terreno a Dudeștii e comprare un appartamento in città “piuttosto di continuare a vivere qui, dove non avevano alcuna entrata,” ci dice il successore di Rocchi, Sebastiano Stoppa.

Stiamo attraversando Dudeștii Vechi nel suv di Stoppa, mentre ci fa vedere il terreno di proprietà degli italiani. “Il mio capo pagò ogni ettaro di tasca sua”, dice. “Non ebbe aiuto. Sognò di creare la più moderna e bella azienda agricola in Europa”.

Su entrambi i lati della strada ci sono canali d’irrigazione con cemento ancora fresco e dietro di questi il terreno è stato sbancato. Un lungo e intricato sistema di irrigatori su ruote è pronto ad entrare in funzione.

Gli italiani collezionarono più certificati di proprietà che poterono. Ma ci sono ancora delle zone che appartengono a piccoli proprietari.

Stoppa è sensibile alle critiche su come l’azienda italiana ha agito in zona. In sua difesa, compara ciò che loro hanno fatto a Dudeștii Vechi con il lavoro di un’artista. In questo raffronto, compara il terreno intorno al villaggio ad una pila di foglie secche. “Se un francese viene e si prende le foglie e con queste crea un bellissimo dipinto e lo vende, si può star certi che qualcuno andrà a dirgli che

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