Romania: l’ipocrisia della chiusura degli orfanotrofi
I minori abbandonati sono una vera e propria piaga della Romania. Attualmente si parla di circa 70.000 minori che vivono al di fuori delle famiglie di origine. Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo approfondimento sul tema della de-istituzionalizzazione
“De-istituzionalizzazione”, “reinserimento familiare”, “chiusura degli orfanotrofi”… Tante belle espressioni che stiamo sentendo in quest’ultimo periodo in Romania.
La Romania è il paese europeo con il più alto numero di minori che vivono fuori dalla famiglia d’origine. Le cifre non sono uniformi, ma si parla di circa 70.000 / 80.000 minori abbandonati: 24.000 che vivono in strutture di protezione dell’infanzia, 45.000 quelli che sono sotto la tutela delle Assistenti Maternali (una specie di affido temporaneo con assunzione da parte della Regione) e più di 2.000 quelli che vivono in altre strutture di assistenza (Rapporto Eurochild 2010).
Un numero enorme di minori abbandonati che si confrontano con i problemi e le conseguenze che questo comporta (istituzionalizzazione, mancanza di affetto, condizioni difficili, emarginazione, mancanza di adeguata formazione alla vita futura…). Realtà che segnano negativamente il corso della loro vita e che rappresentano un macigno e un punto interrogativo sul futuro che li attende.
Allora le notizie che si sentono sulla “de-istituzionalizzazione” e il “reinserimento in famiglia” sono accolte con grande aspettativa, come risposta che finalmente lo Stato e le Ong impegnate in questo ambito sono riusciti a dare a questo problema per cambiare in meglio tante vite destinate al disagio.
Credo che la stessa Commissione europea, e tutti gli Stati civili e le persone sensibili, si rallegrino del cambiamento di tendenza nei confronti di questo problema che colpisce i più piccoli e indifesi in un aspetto così importante come l’affetto e l’appartenenza a una famiglia.
Sighetu Marmației
Anche a Sighetu Marmației (Maramureş) dove noi abitiamo e operiamo come Associazione “Frati Minori Capucini” occupandoci soprattutto dell’infanzia con attività a favore di bambini/ragazzi istituzionalizzati o di famiglie disorganizzate (si veda a questo proposito il sito www.amicidisighet.it e www.centromissionario.it ), quest’estate sono apparsi articoli che parlavano della chiusura dell’orfanotrofio cittadino, che al momento ospita circa 80 minori di età scolare (vedi a questo proposito il sito di Hope and Homes for Children – HHC Romania). Ricordo che a Sighet, oltre a quest’orfanotrofio, ci sono 5 case-famiglia statali con circa 13 bambini per casa (oltre alle 5 case-famiglia per adulti portatori di handicap), più 4 case-famiglia private, un Centro di accoglienza di urgenza e un centro maternale (per ragazze madri o mamme abusate). Una buona concentrazione per una città di 42.000 abitanti.
L’obiettivo che la Direzione regionale per la protezione dei bambini insieme a Hope and Homes for Children (HHC Romania), Ong che opera fortemente nel Maramureş e a cui va riconosciuto il merito di aver dato vita alla maggioranza di queste Case-famiglia, è quello di chiudere quest’ultimo tipo di istituto che esiste in regione e “cambiare il sistema di assistenza del bambino da quello basato sull’istituto a quello basato sulla famiglia”.
Questo perché il vivere in istituto porta all’emarginazione del minore, al suo isolamento per la privazione di affetto e di socializzazione. La mancanza del sentimento di amore, dell’attaccamento specifico alla famiglia, di stimoli, di un’attenzione personale specifica di cui ha bisogno ogni bambino, sono catastrofiche. E’ in pericolo la sua stessa identità. Gli effetti dell’istituzionalizzazione, di natura fisica, psichica, emozionale, intellettuale e sociale, segnano profondamente la sua capacità di stabilire relazioni interpersonali e di affrontare la vita.
Con la chiusura di questo centro a Sighet è prevista la creazione di 2 case-famiglia (capaci di ospitare fino a 26 minori!) e la reintegrazione nelle famiglie di origine dei ragazzi. Obiettivi molto belli, quelli di chiudere gli istituti e dare una famiglia, peccato che lo siano solo sulla carta e che nella realtà abbiano dei risvolti non proprio positivi e non così trasparenti come si vuole presentare.
I dubbi
Punto primo: forse non tutti sanno che l’orfanotrofio di Sighet nel 2005 è stato ristrutturato con la partecipazione della Regione Emilia Romagna , Provincia di Reggio Emilia e Comune di Reggio Emilia , ISCOS – CISL …, ed è stato trasformato da istituto di “vecchia concezione” in 6 appartamenti familiari in cui ogni appartamento è autonomo, pur essendo nello stesso stabile. Ogni appartamento è composto da cucina, soggiorno, bagno e 2 camere da letto. Non è quindi “vecchio stile” con cameroni, mensa, lavanderia dove i ragazzi non erano coinvolti nelle attività, ma è come una casa-famiglia dove gli 8/10 ragazzi ospitati hanno la possibilità di fare da mangiare, di fare le pulizie, di lavarsi i panni… quindi indirizzati verso una gestione normale della vita che li aspetterà un domani. Hanno inoltre un laboratorio di falegnameria, cucito, parrucchiera. Il limite, se mai, non è nella struttura, ma nella scarsezza del personale (un solo educatore per gruppo!) per cui non si riesce a dare la formazione adeguata, a fare le attività necessarie e ad accompagnare individualmente questi ragazzi. Si accusa quindi la struttura quando di fatto il problema è gestionale.
Punto secondo: come si può affermare che si vuole dare al bambino un sistema di assistenza basato sulla famiglia quando le Case-famiglia sono rette da educatori che fanno i turni? L’affetto, il calore familiare è forse dato dalla struttura della casa? Non è forse dato dalla presenza stabile di punti di riferimento affettivi ed educativi come sono i genitori (come è per esempio nelle quattro case-famiglia private che vedono la presenza di una coppia di sposi 24 ore su 24)? Se mai l’obiettivo della casa di tipo familiare è di aiutarli a gestirsi come in una famiglia. Ma non si può investirla del rispondere al bisogno di affetto, di amore, di attenzione che solo i genitori possono dare e che di fatto mancano e purtroppo mancheranno perché sono stati abbandonati. E, pur riconoscendo il lavoro educativo e il coinvolgimento affettivo che gli educatori ci mettono (ma che ogni giorno ritornano nella loro famiglia), purtroppo non si può cancellare il fatto che sono abbandonati.
Punto terzo: la reintegrazione nelle famiglie di origine e che di fatto riguarderà buona parte dei ragazzi del centro di Sighet. Quale ipocrisia su questo punto! In questi ultimi anni sono stati chiusi vari orfanotrofi e “reintegrati” nella famiglia naturale diversi ragazzi, soprattutto grazie all’Ong HHC – Romania nella nostra regione e in altre della Romania. Noi questa fase l’abbiamo vista e vissuta in prima persona insieme ai ragazzi con la chiusura nel 2010 dell’orfanotrofio di Ocna Şugatag (un paesino a 15 km da Sighet) dove c’erano 85 ragazzi e ben 38 sono stati reintegrati in famiglia.
A vari di questi ragazzi si è cercata la famiglia di origine che aveva interrotto i rapporti al momento dell’abbandono, che per vari è stato all’ospedale al momento della nascita. A parte le pressioni che sono state fatte sui ragazzi perché ritornassero “a casa”, dopo aver trovato la famiglia, la si è aiutata pagando le bollette della luce, fornendo la legna per il riscaldamento, facendo alcune migliorie nella casa, comprando la motosega perché potessero guadagnare qualcosa… e si e “reintegrato” il figlio.
Il risultato quale è stato? Che i ragazzi vivono “estranei tra estranei” (queste sono parole loro) perché non li avevano cercati né desiderati e quindi non avevano un reale interesse nei loro confronti; era tanto dura e grottesca la situazione che gli stessi ragazzi hanno richiesto la reistituzionalizzazione per gli abusi subiti e le condizioni materiali in cui erano costretti a vivere (come risulta dal Telefono del Bambino, il nostro Telefono Azzurro).
L’aver aiutato economicamente (proposta molto allettante per queste persone) nel breve termine le famiglie di origine non ha risolto i problemi alla radice. Sono famiglie disorganizzate e tali rimangono. Il degrado materiale in cui vivono è spesso causa di un degrado morale e umano. Per cui nel lungo termine, ritornano alla situazione materiale precedente. Ma con uno o due figli in più da sfamare. Il vero problema non è la questione economica, ma la mentalità. La nostra Associazione lavora molto con questa tipologia di famiglie. In certi casi non c’è niente da fare e comunque anche nei casi migliori queste famiglie sono da seguire costantemente e in modo massiccio perché non si sanno gestire sotto tutti i punti di vista. Non parliamo poi del piano relazionale–affettivo: non li hanno cercati, non interessa loro dei propri figli, come possono essere in grado di dare quell’affetto, calore, senso di appartenenza che si ricerca con il reinserimento? A questo si aggiunge che generalmente sono presenti problemi come alcolismo, violenza, disinteresse per il lavoro… La nostra assistente sociale si sta occupando ora di alcuni di questi ragazzi rendendosi conto di persona delle condizioni umane e materiali in cui sono costretti a vivere. Si ha quindi la chiara impressione che le istituzioni si siano volute “liberare” di questi ragazzi, non cercare il loro bene, ma dimostrare in modo ipocrita che la reintegrazione funziona.
Punto quarto: di fatto sta aumentando il numero dei minori abbandonati. A seguito della crisi finanziaria e che ha coinvolto molte famiglie è in aumento il numero dei minori che chiedono l’istituzionalizzazione. Nei primi 10 mesi del 2010 al Telefono del bambino sono stati più di 200 minori a richiederla. Nelle zone rurali è in aumento l’abbandono minorile da parte di famiglie con più di 3 figli (nel 2009 è aumentato del 30%). E’ in aumento anche il numero di Assistenti maternali professioniste che desiderano rinunciare a questo mestiere per i tagli allo stipendio e per la difficoltà che hanno a gestire i ragazzi nell’adolescenza (nei primi 6 mesi del 2010 in 14 regioni sono state presentate 143 richieste di rinuncia di Assistenti maternali).
Uscire dall’ipocrisia
Quale conclusione possiamo trarre? Partendo dal presupposto che anche per noi la famiglia è il luogo ideale per la crescita dei figli, l’impressione è che si vogliano chiudere gli orfanotrofi per far vedere che si sta risolvendo il problema, calpestando di fatto il vero bene dei ragazzi che, oltre ad avere vissuto il trauma dell’abbandono, vengono rispediti “al mittente” in situazioni di disagio, di disinteresse, di mancanza di affetto, calore, opportunità. Siamo tutti d’accordo che l’orfanotrofio “vecchio stile” vada chiuso, ma sostituito con Case-famiglia sufficienti ad accogliere tutti coloro che hanno bisogno. Ed è per questo che l’orfanotrofio di Sighet è stato ristrutturato secondo questi nuovi criteri di appartamenti-famiglia. Pur nel suo limite, l’istituzionalizzazione è per tanti l’occasione di un’opportunità educativa (chiaramente per chi vuole), di scolarizzazione, di accesso all’università… e che in molti casi è molto meglio delle condizioni delle loro famiglie di origine. Dovreste sentire i racconti, ascoltare gli sfoghi, vedere sui loro volti e comportamenti i traumi che sperimentano in queste famiglie disorganizzate. Non voglio difendere gli orfanotrofi, non li considero un bene in sé, ma considerando la realtà dei fatti, per le situazioni in cui tanti minori si troverebbero a vivere, è un bene che ci siano.
La loro chiusura o riduzione non sarà possibile fin quando non sarà fatto un lavoro preventivo sulle famiglie di origine. Per quello che si può. E’ ipocrisia bella e buona sbandierare che si sono chiusi degli orfanotrofi, reintegrati i ragazzi in famiglia, quando poi vedi dove li hanno sistemati e in che condizioni sono costretti a vivere. E’ peggio dell’orfanotrofio.
Si ha la chiara impressione che non si cerchi il vero bene di questi ragazzi, ma che siano strumentalizzati per sbandierare percentuali e risultati raggiunti. E quindi ottenere finanziamenti dimostrando che si è lavorato bene.
Mascherare il problema non vuol dire che questo non esista. Molti di questi ragazzi sono istituzionalizzati perché non hanno una famiglia anche se fisicamente hanno un padre e una madre, ma che di paternità e maternità non hanno la minima consapevolezza.
La soluzione credo che non sia quella di far affidamento su queste famiglie reintegrando i minori, ma quello di rafforzare lo sforzo formativo, investendo in educatori, psicologi, pedagoghi…. personale specializzato che accompagni la crescita di questi ragazzi perché il rischio è che se ci si accontenta semplicemente di accudirli nelle necessità primarie, questi stessi ragazzi non saranno in grado di formare una vera famiglia, di creare relazioni stabili, e metteranno al mondo figli destinati a loro volta all’abbandono, alla solitudine, al disagio…
Vorrei quindi dire alla Direzione per la protezione del bambino e ad HHC Romania: pensiamoci bene prima di fare passi che condanneranno questi ragazzi a un’esistenza peggiore, facendoci belli e sentendoci bravi perché sono stati “reintegrati in famiglia”, non facciamo scelte basandoci solo su criteri economici o di percentuali, perché questi ragazzi sono persone fragili e bisognose di attenzione e contano solo su di noi per sperare nel proprio futuro.
* Padre Filippo Aliani è presidente dell’associazione “Asociatia Frati Minori Capucini ” con sede in Romania
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