Romania: la libertà di circolazione nella periferia d’Europa
Per i cittadini romeni il mancato ingresso in Schengen ha un forte impatto simbolico: ennesima esclusione che arriva dall’Europa e tragico ricordo a quando erano prigionieri all’interno del loro stesso paese
Quindici anni dopo il loro ingresso nell’Unione Europea, ai romeni ed ai bulgari si chiede di aspettare ancora per l’ingresso nel pantheon dei cittadini UE cui è consentita la libera circolazione. Nelle scorse settimane, l’opposizione prima dell’Olanda, poi dell’Austria, all’ingresso dei due paesi allo spazio Schengen ha provocato il risentimento dei vertici romeni . Il dibattito in seno alle istituzioni europee circa l’allargamento Schengen si inserisce nel quadro più ampio degli accordi sulla circolazione tra Romania ed i suoi alleati, e giunge a pochi mesi dall’ennesima proroga anche dell’adesione della Romania al Visa Waiver Program , che permetterebbe ai cittadini romeni di entrare negli Stati Uniti senza visto, rinvio di cui è destinataria anche la Bulgaria.
Ora, accantonate le controversie sulla soddisfazione dei criteri enunciati da Bruxelles e Washington per l’integrazione nelle aree Schengen ed ESTA, e sfumata l’illusione di un annunciato boicottaggio di tutto ciò che è austriaco che si è rivelato incompatibile con la rete di interessi economici dei circoli governativi e finanziari di Bucarest, cosa rimane ai cittadini ordinari romeni?
Resta senza dubbio la frustrazione dettata dalla mancata acquisizione di uno status che distingue i cittadini dell’UE e del mondo in due categorie. Resta una conferma indiretta che nella percezione occidentale che caratterizza i dibattiti sulla migrazione, i romeni ed i bulgari non possono che essere identificati come immigrati ordinari, e mai expats . Del resto, la linea di distinzione tra quest’ultimo termine anglosassone e l’immigrato tout court, corre lungo le risorse finanziarie dei singoli e dei paesi da cui i singoli provengono. L’inquietudine generata dalla mancata disponibilità di un titolo di viaggio che permetta una mobilità internazionale libera ed immediata, non è certo comune solo ai romeni, accomuna tutti i cittadini di paesi ai margini del benestante occidente.
Nella memoria collettiva romena, la (mancata) fruizione della libera circolazione rievoca gli anni in cui non avevano neanche il diritto di possedere un passaporto. Quando 33 anni fa il regime comunista romeno si sgretolò, la fine della dittatura di Ceaușescu non coincise solo con la liberazione dall’onnipresente sorveglianza della polizia segreta e la fine di misure economiche draconiane, ma anche con la cessazione del severo regime di controllo della mobilità imposta ai romeni e la difficoltà per loro di varcare i confini del proprio paese.
Durante gli anni della guerra fredda, nessun paese comunista accordava ai propri cittadini la libertà di emigrare. Quella del controllo della mobilità in uscita, è un aspetto che ha accomunato per quasi cinquant’anni una larga parte d’Europa. Sin dall’instaurazione dei regimi comunisti in Europa centrale ed orientale alla fine del secondo conflitto mondiale, i governi della regione avevano replicato il modello sovietico di controllo della mobilità della popolazione fondata su misure restrittive di uscita dal paese e su confini pesantemente pattugliati. Tuttavia ancora negli anni ’80, a differenza della Polonia o dell’Ungheria, ma anche della Jugoslavia , che avevano sperimentato un allentamento delle loro politiche di emigrazione, la politica romena dei passaporti non si era discostata da quella strategia rigidamente restrittiva che aveva caratterizzato l’Unione Sovietica alla fine degli anni ’30.
In compenso, l’emigrazione, non come diritto ma come concessione individuale, fu impiegata dalla leadership romena come moneta di scambio per ottenere benefici economici e politici elargiti dai paesi occidentali. Ne sono un noto esempio gli accordi stipulati tra la Romania e la Germania Federale, per la ricollocazione dei romeni di etnia tedesca, e quelli con Israele , volti all’emigrazione degli ebrei romeni. Che strada rimaneva ai romeni ordinari che non appartenevano alle minoranze etniche tedesca ed ebraica e che sognavano il riscatto? Solo tentare la via dell’emigrazione clandestina attraverso la frontiera jugoslava o ungherese oppure intraprendere un prolungato iter burocratico dall’esito incerto finalizzato all’ottenimento di un titolo di viaggio.
L’espatrio illegale era fortemente scoraggiato e comportava una dura repressione, che in caso di flagranza di reato si traduceva o in esecuzione immediata, o reclusione da sei mesi a tre anni. I documenti di archivio ad esempio restituiscono un’immagine a tinte macabre della frontiera serba , in forza dell’accordo stipulato tra Ceaușescu e Tito che prevedeva respingimenti dei fuggiaschi, i quali, se catturati dalle autorità serbe, venivano restituiti alle guardie di frontiera romene. Di quelli caduti cercando di attraversare il confine, si cercava di cancellare la memoria, i loro corpi seppelliti senza avvertire i parenti. E del resto anche dei vivi che riuscivano a fuggire non si parlava più.
Nonostante il rischio elevatissimo di morte su questa rotta, l’UNHCR stima che tra il 1969 ed il 1989 furono oltre 100.000 i romeni che chiesero asilo politico in occidente. Molti di questi arrivati nei campi profughi austriaci ed italiani da clandestini. Tra le fuggitive più celebri che intrapresero questo pericoloso itinerario, la ginnasta romena Nadia Comaneci, la quale attraversò il confine con l’Ungheria alla fine del 1989 per poi trovare rifugio negli Stati Uniti.
Le cronache dell’epoca restituiscono l’immagine di chi percepiva l’emigrazione, legale o meno, come l’ultima risorsa contro una dittatura oppressiva ed una crisi economica devastante, caratterizzata da un’economia di guerra. Ne è un esempio la vicenda, al limite del farsesco, di venti cittadini romeni , dieci adulti, due adolescenti e otto bambini, che nell’estate del 1980 erano fuggiti dalla Romania di Ceaușescu su un piccolo velivolo impiegato per la semina agricola. Alla guida del biplano e del piano di fuga, un ingegnere che era impegnato presso un‘azienda agricola statale nel distretto di Arad. Un volo di due ore sorvolando l’Ungheria a bassa quota per evitare di essere intercettati dai radar ed il carburante appena sufficiente per percorrere la distanza che li avrebbe fatti atterrare in un campo di mais nella località di Pertlstein, ad appena 14 chilometri dal confine ungherese. Come tanti prima e dopo di loro, vennero accolti in un campo profughi e fecero domanda di asilo.
Cosa restava a chi non se la sentiva di rischiare la vita? Rimaneva la procedura del ricongiungimento familiare per coloro i quali avevano la fortuna di avere un parente all’estero disposto a sponsorizzare la propria richiesta di emigrazione. Una disposizione prevista dagli accordi di Helsinki del 1975 , e, nel caso romeno, incentivata economicamente e politicamente dagli Stati Uniti. Il ricongiungimento familiare era lontano dall’essere un diritto, rimaneva una concessione accordata dalle autorità ai singoli.
Durante gli anni della dittatura comunista, ai romeni non era permesso possedere alcun titolo di viaggio. Il passaporto, un documento la cui richiesta significava una domanda di emigrazione, costituiva una procedura lunga ed estremamente costosa, sia in termini economici (tasse e tangenti richieste dagli amministratori locali) sia emotivi (alienazione sociale e professionale) e dall’esito incerto.
Per scoraggiare l’emigrazione, le autorità romene avevano adottato una combinazione di disposizioni ufficiali e ufficiose che avevano lo scopo di umiliare i richiedenti sia pubblicamente sia privatamente. Infatti, la richiesta di emigrazione comportava la perdita della cittadinanza romena, lasciando i richiedenti privi dei diritti fondamentali in attesa dell’approvazione finale. Dopo aver inoltrato la propria richiesta di passaporto, i romeni subivano la retrocessione o la perdita del lavoro ed i loro figli venivano espulsi da scuole e università. Privati delle tessere annonarie e dell’accesso al sistema sanitario pubblico, persino viaggiare all’interno del paese diventava impossibile senza un permesso speciale. In poche parole, cercare di emigrare significava essere privati di una vita dignitosa per il tempo necessario alle autorità a processare le pratiche. Il tempo impiegato da queste ultime poteva oscillare dai 6 ai 30 mesi.
I documenti di archivio fanno luce sui drammi personali che questa condizione di attesa poteva comportare. Come dimostrato dal caso di Augustin M., rinvenuto negli archivi francesi, la cui richiesta nel 1983 di ricongiungimento familiare era stata inizialmente sostenuta da un cugino residente in Canada. Tuttavia, il parente di Augustin M. aveva in seguito cambiato parere circa la sponsorizzazione della richiesta di emigrazione, lasciandolo in balia della macchina burocratica romena. Rimasto bloccato in Romania con un passaporto apolide, Augustin M. era stato privato dei propri diritti sociali e senza alcuna possibilità di lasciare il paese.
Augustin M., come la maggior parte di coloro che partirono durante l’ondata di emigrazione degli anni ’80 non aveva ambizioni politiche, si trattava piuttosto di individui alla ricerca di una vita migliore: erano lavoratori qualificati, idraulici, elettricisti; erano migranti economici. Indipendentemente dalle loro motivazioni, le molestie e i meccanismi discriminatori innescati dalla loro richiesta di passaporto li aveva trasformati in richiedenti asilo, asilo politico che ottenevano una volta giunti in occidente.
Quelli che rimanevano, ma che non meno degli altri sognavano una vita migliore altrove, sublimavano questo desiderio attraverso l’ironia, la satira, e la poesia, espressioni di un’intera società che desiderava la fuga, il riscatto da una dittatura brutale che per i cittadini ordinari significava sorveglianza, repressione ed una devastante situazione economica.
ps
"Il Primo Ministro chiede a Ceaușescu (il nostro leader stalinista) di aprire le frontiere e lasciare che la gente esplori l’Occidente. Ceaușescu risponde: ‘Sei pazzo? Allora rimarremmo solo noi due in Romania’. Il Primo Ministro risponde: ‘Forse solo tu’ ", Dumitru Sandru
"E ora veniamo ai passaporti. Questo povero ‘documento’ che tutti i cittadini dei paesi capitalisti hanno in tasca come un qualsiasi altro documento, nel nostro paese, nella Romania socialista, l’acquisizione di tale ‘documento’ è diventata un’idea fissa, un sogno, l’obiettivo della nostra vita. In Romania, un passaporto ha più valore di un buon posto di lavoro, di un’automobile, di una villa", Paul Goma
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