Romania: dalla tradizione ai social media
I media tradizionali non hanno più il monopolio dell’informazione, i social media avanzano. Intervista con Ioana Avadani direttrice del Centro per il giornalismo indipendente della Romania
L’intervista è stata realizzata durante la nona edizione del South East Europe Media Forum tenutosi a Bucarest il 5 e 6 novembre 2015.
Reporter senza frontiere ha classificato la Romania al 45mo posto nella lista delle libertà dei media, molto meglio di altri paesi del Sud Est Europa, si direbbe che la situazione non è così grave. Quali sono i problemi dei media romeni?
Prima di tutto non ripongo grande fiducia nelle classifiche. Dipendono dalla metodologia impiegata, dalle persone che compilano i questionari o che rilasciano le interviste. Ad ogni modo quello che più mi interessa è il progresso manifestato da un determinato paese. Sono vent’anni che la Romania occupa una posizione di media classifica, vorrei vederla finalmente iniziare a salire.
Come Centro per il giornalismo indipendente lo scorso anno abbiamo svolto uno studio sulla situazione dei media, su come gli stessi giornalisti vedono i media. Abbiamo intervistato oltre un centinaio di persone, chiedendo loro quali sono i problemi e che cosa propongono per risolverli.
Cosa è emerso?
Hanno sottolineato che la situazione economica è la più problematica di tutte. La mancanza di fondi per i media porta con sé molti altri effetti negativi. Le redazioni sono sempre più ridotte, i giornalisti vengono lasciati a casa e quelli che rimangono devono coprire tutto il lavoro come se fossero a pieno regime. Si immagini una redazione formata da 300 persone che viene ridotta a dieci. In una situazione del genere ovviamente non ci può più essere la stessa quantità e qualità di informazioni di prima.
E’ vero che ci sono anche questioni che vanno oltre la situazione economica. Se guardiamo per esempio al vocabolario impiegato dai media vedrete come anche le più basilari regole del giornalismo stiano tramontando. E non si tratta di una questione legata all’economia. Nessun politico, nessun proprietario di media ti forza a scrivere in un pessimo romeno.
Dal nostro report emerge però anche che il sentimento principale che regna tra i giornalisti è la paura. Hanno paura di parlare, hanno paura di parlare liberamente ed esprimere opinioni critiche. La maggior parte di loro ha paura di perdere il posto di lavoro. E qui ci si ricollega alla questione economica.
Autocensura?
L’autocensura è presente, ma spesso non è percepita come autocensura. Abbiamo intervistato giornalisti che dicono: “È chiaro che non scrivo un pezzo negativo sull’azienda che paga per inserzioni sul giornale per cui lavoro”. Questo è un problema, ma lo è anche il fatto che la cosa sia diventata normale, viene in qualche modo razionalizzata.
Ecco diciamo che la nostra battaglia principale è quella di preservare gli standard. Cerchiamo di far capire che ad esempio autocensurarsi non si tratta della norma. Capiamo chi è costretto a farlo ma non è normale.
Quanto è reale l’influenza dei servizi segreti sui giornalisti in Romania?
Ogni volta che si parla di servizi segreti le storie si ammantano di mistero. C’è stato un mezzo dibattito nel paese sul ruolo di agenti infiltrati nelle redazioni. E ci sono stati vari segnali sia da parte dei media che da parte dei servizi di intelligence: nessuno ha smentito la presenza di infiltrati nelle redazioni. Chiaro che non ci si può aspettare dai servizi segreti che dicano ok, questo e quello sono miei agenti oppure quello era un infiltrato ma ora non fa più il giornalista. Così però si alimenta un’abitudine al sospetto. Non si sa più se il tuo collega è un infiltrato oppure se è un giornalista che lavora per l’interesse pubblico.
E’ ancora così pesante l’eredità del passato regime?
In parte è eredità, ma il resto è nuovo. Abbiamo visto intensificarsi l’influenza dei servizi segreti anche nell’ambito legislativo. Stanno forzando per una sorta di legge “Grande fratello”, nonostante questa legge sia già stata rigettata per ben tre volte dalla Corte costituzionale. Ma i servizi segreti continuano a far passare il messaggio che vi sarebbero minacce contro la Romania e così facendo si instilla un’atmosfera di paura.
I media non reagiscono?
Molti media non fanno che passare il messaggio. C’è sempre bisogno di far vedere che ci sono delle minacce contro la Romania. A volte sono persino gli stessi media a venir considerati una minaccia per lo stato: un paio di anni fa nella Strategia nazionale per la sicurezza redatta dal governo i media erano stati inclusi come minaccia interna.
Come hanno seguito i media le proteste di piazza che hanno portato alle dimissioni del premier Ponta?
Alcuni le hanno sempre seguite, altri non dall’inizio. Ci sono canali tv che proprio hanno ignorato le proteste.
I media filogovernativi?
Diciamo di sì, anche se è più complesso. Il proprietario di una tv è amico del premier ed è coinvolto in vari casi di corruzione… insomma non si tratta solo di politica, ma di soldi e di un modo per preservare una forma di clientelismo e l’accesso al denaro pubblico.
Quello che invece vorrei sottolineare sono i social media, che stanno ormai coprendo alcune delle funzioni dei media tradizionali. La gente oggi comunica tramite i social media e non potrebbe farlo tramite i media tradizionali, tecnicamente proprio non può farlo. I cittadini si organizzano tra di loro e fanno notare le manipolazioni che ci sono sui media tradizionali semplicemente postando elementi che sono stati esclusi, ad esempio, dai canali tv.
Lo scorso anno a novembre si sono tenute le elezioni presidenziali. A seguito di errori organizzativi migliaia di romeni delle diaspore si sono ritrovati in fila ad aspettare di votare e molti non sono riusciti a farlo perché il processo di voto era talmente lento che si è arrivati al termine di chiusura dei seggi. Bene, in quell’occasione ci sono state stazioni tv che hanno cercato di minimizzare l’accaduto in un modo molto grossolano, come per esempio tagliando la folla dall’inquadratura della telecamera. Numerose persone hanno iniziato allora a postare sui social media immagini che davano l’idea della situazione reale e hanno fatto pressione sui media tradizionali per farli agire diversamente.
I social media possono contribuire o forzare un miglioramento dei media tradizionali?
Assolutamente. In Romania abbiamo 7 milioni di account Facebook, che corrispondono circa ad un terzo della popolazione. Ovviamente non tutti sono account individuali, altri non sono nemmeno attivi. Tuttavia resta il fatto che c’è una grossa comunità di persone in rete tra loro. Ognuno può avere l’accesso ad un fatto, cioè alla fonte della notizia. Può postarlo, può registrarlo con uno smartphone e diffonderlo facilmente tramite i social media.
Questa è la lezione per i media tradizionali: non hanno più il monopolio dell’informazione. Ed è una cosa che i media tradizionali devono capire velocemente.
I social media hanno aumentato la consapevolezza dei cittadini?
Se non la consapevolezza, sicuramente le aspettative sono più alte. Come Centro per il giornalismo indipendente lavoriamo parecchio sulla media literacy e sulla responsabilità nell’uso dei media. Per esempio se hai acceso agli strumenti del giornalismo, come l’avere accesso a determinate informazioni e avere la possibilità di renderle pubbliche, allora devi conoscere le regole elementari del codice deontologico della professione.
Un giornalista può anche essere un attivista?
È una bella domanda. Diciamo che è irrealistico chiedere ad un giornalista di essere obiettivo. Nessuno può essere oggettivo al cento per cento, non siamo robot e anche se lo fossimo qualcuno avrebbe costruito il nostro software e quel qualcuno sarebbe un essere umano. Non possiamo essere oggettivi ma possiamo essere onesti, possiamo essere leali. E questo è importante. I nostri standard professionali ci chiedono di tenere in considerazione tutte le parti coinvolte e tutti i punti di vista di una determinata vicenda. Ci sono alcuni temi però per cui c’è un solo punto di vista della vicenda. Prendi per esempio il genocidio. Oppure i temi che riguardano i diritti umani. Diciamo che i giornalisti dovrebbero sempre stare dalla parte della giustizia e dei diritti umani.
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