Roman Petrović, un artista dal cuore grande
A 120 anni dalla nascita di Roman Petrović uno sguardo alla vita e all’opera di uno dei corifei della pittura modernista bosniaco-erzegovese
Tra i racconti di Isak Samokovlija ve ne è uno dall’intreccio non particolarmente caratteristico nell’opus di questo narratore della Sarajevo ebraica. Un racconto che, a onor del vero, non rientra tra quelle opere per le quali Samokovlija viene considerato uno dei più peculiari esponenti della narrativa novecentesca degli slavi meridionali. Ciononostante, ai suoi Figli della strada ritorno anche in questa occasione. Questo racconto, che a prima lettura sembra semplice nella sua linearità temporale, non solo risveglia in me pensieri legati a Sarajevo, alla Bosnia e ai suoi primi modernisti, ma – ogni volta più profondamente – mi trafigge con i suoi aghi invisibili. Aghi del tutto peculiari, che stimolano anche a contemplare il senso dell’arte. Allora di solito il primo a venirmi in mente è Auguste Rodin: “L’essenziale è commuoversi, amare, sperare, fremere, vivere. Essere uomo prima ancora di essere artista”. Oltre a quelle del grande francese, mi ritornano anche le parole di alcuni altri titani dell’arte internazionale, di quelli che tenevano bene a mente che, in fin dei conti, era più proficuo essere in primis artista (che pensa prima ed esclusivamente a se stesso) e solo dopo – se e quando fosse possibile – anche uomo.
Con I figli della strada Samokovlija ci trasporta nella Sarajevo degli anni Trenta del secolo scorso. È una giornata d’inverno. Davanti alla porta del suo appartamento, che è anche il suo atelier, il pittore Petar Romanović trova due ragazzi, intirizziti e affamati. Sono i suoi modelli per un ciclo di dipinti dal titolo appunto I figli della strada. È domenica, loro vorrebbero posare, ma il pittore ha solo qualche spicciolo, insufficiente per ricompensare questo “lavoro“. L’unica cosa che può offrire ai ragazzi è di scaldarsi a casa sua, nient’altro. A questo punto il pittore, in preda alla disperazione, prende la cartella con i suoi disegni e se ne va da una nobildonna, nella speranza di riuscire a vendere almeno una delle sue opere. Ma la riccona, dal nome Kaća, sembra interessata al pittore, del tutto indifferente al suo corteggiamento, piuttosto che ai suoi disegni, e tanto meno ai ragazzi affamati. Tornando a casa, il pittore passa dal fornaio per comprare un pane. “Lungo…”, dice Samokovlija in questo racconto pubblicato nel 1933 nella rivista sarajevese Pregled. Petar Romanović poi dà quel pane ai ragazzi, che se lo dividono tra loro. Uno dei ragazzi, con la scusa di aver già mangiato, cede la sua parte all’altro, che ha più fame di lui. I piccoli protagonisti di questa storia hanno solo dei soprannomi: Vrdan, Šapljo – sicché il lettore rimane all’oscuro della loro nazionalità. Il loro essere figli della strada non conosce tale “etichetta“, esattamente come non la conosce nemmeno l’attuale impoverimento della maggior parte della popolazione della Bosnia. Questa etichetta, per fortuna, non ce l’ha nemmeno la tenace solidarietà di quei pochi che in questo paese, malgrado tutto, continuano a resistere in diversi modi alle misere divisioni nazionali che pervadono ormai tutti i contesti sociali.
Petar Romanović – Roman Petrović
A volte, mentre leggo I figli della strada mi ritorna in mente una scena, risalente ai giorni lontani: un tramonto invernale, mele cotogne in una ciotola sul comodino, una cesta piena di legna accanto al camino. Il profumo della frutta, il
crepitio del fuoco – che buon inizio di un racconto banale, scontato, pieno di spunti idilliaci! Potrebbe esserlo se di mezzo non ci fossi io a fare i compiti su un estratto di quel racconto di Samokovlija e su un dipinto rappresentante un ragazzo dagli occhi grandi, con un enorme cappello sulla testa e un cappotto logoro, che tiene in mano un filo a cui è legato un palloncino. (L’estratto era forse nel libro di lettura della quinta elementare?) I figli della strada, disprezzati e affamati, che appaiono in quel racconto sulla Sarajevo degli anni Trenta, nella Bosnia della metà degli anni Sessanta non ce n’erano più. Come allora scrivere su qualcosa di inesistente, appartenente al passato? Avevo comunque scribacchiato qualcosa, tanto per scrivere: mi dispiaceva che qualcuno avesse le scarpe rotte, che fosse intirizzito e affamato, e così via – cosicché il giorno seguente non vedevo l’ora che finisse la lezione di serbo-croato.
Solo molto, molto tempo dopo, mio padre mi racconterà chi era il vero protagonista di quel racconto – il pittore Roman Petrović: di come accoglieva le persone nel suo atelier che si trovava nella città vecchia di Sarajevo, nella mansarda di un antico palazzo vicino alla Cattedrale; di come una finestra di quell’atelier – che dava sul panorama della città – divenne protagonista di uno dei suoi quadri; di come la sua vita non fu facile. Per niente. Eppure, Roman Petrović, uomo e artista, non era mai stato capace, trovandosi di fronte alla miseria altrui, di volgere lo sguardo altrove. Isak Samokovlija, anima della Sarajevo ebraica, non resistette alla tentazione di ispirarsi alla figura di questo artista, suo amico, regalandoci questo racconto, purtroppo ancora attuale anche al di fuori del contesto bosniaco.
Breve storia di vita
Roman Petrović nacque a Donji Vakuf, in Bosnia, nel 1896. Era di origini ucraine da parte di padre e polacche da parte di madre. Frequentò il liceo a Sarajevo e a Mostar. Ivan, suo padre, era un ufficiale dell’Impero austro-ungarico, ma anche un pittore dilettante. Impressionato dal talento artistico del figlio, lo mandò a studiare pittura a Pietroburgo. Lì il diciassettenne Roman ben presto conquisterà l’affetto del suo professore, grande maestro del realismo Il’ja Repin. Stando alla testimonianza di uno degli amici di Roman, egli lasciò la città non molto tempo dopo, presumibilmente seguendo il consiglio di Repin: in Russia l’assegnazione delle cariche accademiche avveniva mediante decreti zaristi, e in più bisognava avere spalle ben larghe per riuscire a emergere e farsi notare. Quindi Roman decise di continuare gli studi a Cracovia, presso una delle più prestigiose accademie europee di quel tempo, poi a Zagabria e infine a Budapest dove concluse i suoi studi. In seguito andò a perfezionarsi a Parigi, soggiornandovi dal 1925 al 1927. I conoscitori dell’opera di Roman Petrović concordano sul fatto che il suo percorso creativo fu influenzato da impressionisti, postimpressionisti (in primis Cézanne), nonché cubisti, ma che questo artista era sempre alla ricerca di un proprio linguaggio espressivo, cercando di far coesistere tutto quello che aveva imparato e visto nelle grandi metropoli europee con il proprio modo di percepire l’immediata realtà sarajevese e bosniaca. Lo stesso Roman era solito scherzare sul fatto che la critica lo associasse a tante tendenze artistiche, e lo faceva con uno charme tuttora piuttosto raro negli ambienti culturali nostrani.
Gli amici più intimi di Roman erano d’accordo sul fatto che, come pittore professionista, avrebbe potuto avere una vita migliore, coronata da maggior successo, se fosse andato a Lubiana, Zagabria o Belgrado, invece di ritornare a Sarajevo che agli inizi del Novecento era ancora una città priva di qualsiasi particolare tradizione pittorica. A parte qualche pittore di terz’ordine, arrivato nella città con l’occupazione austriaca, e un certo numero di pittori bosniaci della prima generazione del ‘900, per lo più ancorati alla tradizione folkloristica, la Bosnia a quel tempo non poteva vantare né i personaggi né l’atmosfera che animavano i grandi centri artistici di allora. Stando ai ricordi dei suoi amici, Roman Petrović amava Sarajevo di un amore scarsamente ricambiato, sperimentandovi raramente momenti di comprensione.
Per lui le porte delle scuole sarajevesi rimasero chiuse, sicché per sopravvivere si dedicò alla realizzazione di scenografie teatrali, affreschi, icone destinate alle iconostasi delle chiese ortodosse, illustrazioni per libri, ritratti commissionati. Con il suo realismo, di stampo prevalentemente espressionista, influenzò molti pittori bosniaci della generazione successiva, tra i quali sono da annoverare innanzitutto Ismet Mujezinović e Mica Todorović. Nel 1945 accolse con grande entusiasmo la nascita della Jugoslavia socialista, sperando che portasse con sé un effettivo miglioramento delle condizioni di vita di tutti i cittadini, artisti compresi. Fu tra i fondatori dell’Associazione degli artisti figurativi della Bosnia Erzegovina. Morì a Sarajevo nel 1947, lasciando dietro di sé centinaia di dipinti, acquerelli, opere grafiche, disegni, per lo più sparsi tra Sarajevo e altre città bosniache, ma anche sull’intero territorio dell’ex Jugoslavia – Roman amava regalare le sue opere agli amici e alle persone che stimava. Ivo Andrić scrisse da qualche parte che rimpiangeva il miglior ritratto mai fattogli, andato smarrito chissà dove. L’autore di quel ritratto era Roman Petrović.
Una galleria d’arte sarajevese porta il suo nome, mentre nella Pinacoteca nazionale della Bosnia Erzegovina sono custodite, stando ai dati ufficiali, 165 sue opere. Già che abbiamo menzionato questa istituzione (fondata nel 1946), diciamo che nemmeno Roman Petrović, grande cuore di Sarajevo, a suo tempo anche un simpatizzante della Giovane Bosnia, sarebbe stato contento se, “per qualche malaugurato caso”, dalla targa posta all’ingresso della Pinacoteca lo avesse salutato l’arciduca Franz Ferdinand invece che il pittore Ivo Šeremet, uno dei suoi fondatori, oggi pressoché dimenticato. O tempora, o mores! Aggiungiamo almeno questo, col sorriso di chi dell’oblio ne sa qualcosa.
………………………
Lui sentiva il respiro caldo sul collo.
“I miei bambini mi aspettano!” – disse infine piano, sommessamente, quasi senza voce, come se confessasse un grave peccato.
“Bambini. I nostri bambini. Parli di quei bambini”, disse Kaća e lentamente gli prese la mano e se la mise in grembo. La stoffa del vestito era sottile.
Petar sentiva il calore del corpo e la morbida pelle vellutata sotto il leggero
vestito di seta.
Ritrasse di colpo la mano e fece un movimento con tutto il corpo.
“Del resto, non sono neppure figli miei”, disse, e si alzò. “Sono figli della
strada. Affamati, scalzi, intirizziti, malati. Prenda un disegno. Prenda il ragazzo che corre. Signora, i bambini aspettano. Lo prenda, e così diventeranno miei e suoi.
La signora si risvegliava rapidamente dal suo sogno. Si alzò anche lei. Anche lei parlava piano, come se parlasse a se stessa.
“Lo prendo? Il ragazzo che corre?” Alzò la testa. “No! È meglio che lo lasci correre!” Si mise a ridere. Porse la mano.
Petar Romanović prese la cartella dei disegni e le baciò la mano.
Un’aria gelida e umida lo colpì al viso come un’onda di acqua fredda. Cadeva la neve, poco fitta. I fiocchi erano grandi. Camminava fiacco, lentamente. Da un fornaio prese una lunga pagnotta.
(Brano tratto dal racconto I figli della strada di Isak Samokovlija; traduzione: Alice Parmeggiani)
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