Riflessi della ‘grande escursione’
In Bulgaria, a pochi mesi dal crollo del Muro nel 1989, il regime comunista provocava l’esodo verso la Turchia di 360mila cittadini bulgari di etnia turca. L’esodo di massa, rimasto alla storia col nome di "grande escursione", ha lasciato cicatrici profonde su chi l’ha vissuto. Nostro reportage
"Fui picchiato a sangue due volte, fino a perdere conoscenza. Erano i primi di maggio del 1989. Quelli della ‘milicija’ mi dissero che se mi vedevano parlare con persone ‘segnalate’ m’avrebbero ammazzato. Poi un giorno mi dissero: ‘Stai per emigrare. Scegli, Austria o Svezia’. Mi preparai a partire, non avevo scelta. Il 29 però Zhivkov annunciò che le le frontiere con la Turchia venivano aperte. Presi armi, bagagli e famiglia e una settimana più tardi passai il confine, proprio qui, a Edirne".
Gli occhi di Rasim Ozgur, incorniciati da rughe profonde, brillano di un nero intenso. La sua è una delle centinaia di migliaia di storie legate a quella che, forse, è la tragedia collettiva meno nota del Novecento europeo: la "grande escursione" di 360mila turchi di Bulgaria che, dal maggio all’agosto del 1989, abbandonarono le proprie case per cercare rifugio in Turchia.
"Ozgur significa ‘libero’, l’ho scelto una volta attraversato il confine", racconta Rasim in bulgaro, una lingua che non parla da anni, ma che padroneggia ancora con ricchezza di sfumature. "Dopo aver lottato contro chi voleva cambiarmelo a forza, essermi potuto scegliere il nome è stata una rivincita".
Siamo nel centro di Edirne, l’antica Adrianopoli. La città, adagiata su un colle che domina la pianura di Tracia è stata per secoli la porta dei Balcani sulla strada della capitale imperiale (Costantinopoli prima, Istanbul poi) e lei stessa capitale ottomana tra il 1365 e il 1453. Una grandezza testimoniata soprattutto dalla figura elegante dei quattro minareti della moschea di Syleiman, capolavoro inarrivato del grande architetto Sinan.
Oggi Edirne, prima città turca per chi arriva da Bulgaria e Grecia, a qualche chilometro appena dal confine, ha l’aspetto sonnacchioso e un po’ provinciale di una capitale decaduta, che si specchia pigramente nelle acque dei suoi due fiumi, Tundzha e Maritza. Niente lascia intuire le dimensioni della tragedia di cui è stata teatro nel 1989.
Pittore, scultore, professore d’arte all’Università di Izmir, Ozgur è l’ospite d’onore di una giornata organizzata dall’ Università di Tracia per ricordare gli eventi di venti anni fa. Su una parete scorrono immagini di repertorio, tragiche e irreali: un treno che trabocca all’inverosimile di gente, decine di bambini seduti lungo i binari, anziane velate dallo sguardo smarrito, le tende bianche di un campo d’accoglienza provvisorio della croce rossa. Ovunque confusione e lacrime.
La "grande escursione" è uno dei capitoli più tragici di una storia lunga e complessa: il travagliato rapporto tra la Bulgaria e le sue consistenti minoranze musulmane, turchi e pomacchi (slavi convertiti all’Islam durante la dominazione ottomana).
Considerati elementi inaffidabili e potenzialmente pericolosi, nei decenni che seguirono la nascita dello stato bulgaro moderno (nel 1878) i musulmani, e i turchi in particolare, vengono a lungo marginalizzati, quando non perseguitati dalle autorità di Sofia.
La presa del potere del Partito comunista, nel 1944, apre una fase di apertura. Convinti di poter amalgamare la nazione sull’appartenenza di classe, in grado di soppiantare identità etnica e religiosa, i comunisti inaugurano una fase di protezione culturale delle minoranze, turca compresa.
Gli effetti, però, si rivelano lontani dalle speranze del partito: la coesione della comunità turca, grazie ai diritti garantiti, aumenta invece che diminuire. Il 1956 segna un nuovo cambio di rotta. Allarmata dalla "turchizzazione di parte della nazione", l’élite comunista decide di affossare gradualmente i diritti concessi.
L’uomo forte del partito, Todor Zhivkov, destinato a tenere le redini del paese fino alla caduta del Muro, è un convinto sostenitore della strategia che punta ad assimilare turchi e pomacchi spogliandoli della propria identità collettiva. L’istruzione in turco viene prima limitata e poi soppressa. La macchina della propaganda, intanto, viene messa in moto per dimostrare che in Bulgaria non ci sono turchi (o pomacchi), ma soltanto bulgari, "turchizzati" a forza durante la dominazione ottomana.
Da questa premessa, per le autorità comuniste, deriva la conclusione che sia giusto e doveroso "raddrizzare il torto" aiutando i musulmani di Bulgaria a "riscoprire" la propria identità e a "rinascere puri bulgari" (la campagna di assimilazione resterà alla storia come "processo di rinascita").
Punto centrale in questa strategia è il cambio forzato del nome, che nella tradizione islamica ha valore quasi-magico e trascendente, ed è il primo e fondamentale elemento di (auto)riconoscimento dei membri della comunità.
Negli anni ’70 sono i pomacchi a sperimentare per primi la politica del cambio dei nomi. Esma Bozadzhieva, originaria della Bulgaria meridionale, oggi medico di base ad Edirne, viene da una famiglia mista: padre turco e madre pomacca.
"Tutta la famiglia doveva essere ‘ribattezzata’ già negli anni ’70", racconta la Bozadzhieva in un affollato caffé all’aperto lungo le rive della Maritza. "Mio padre decise allora che dovevamo trasferirci in Bulgaria settentrionale, dove la situazione era più tranquilla, continuando a spostarci di città in città. Nel 1974 abitavamo ad Aytos, vicino al porto di Burgas. Una mattina, a scuola, la maestra mi chiamò alla lavagna. Compagni, disse alla classe, da oggi Esma si chiama Sema…".
Soltanto nel 1984 però il regime decide di lanciare l’offensiva verso la comunità turca. I motivi che spingono ad una mossa così azzardata sono difficili da decifrare. Tra i fattori determinanti c’è il timore per la forte crescita demografica dei turchi di Bulgaria, e il loro concentrarsi in aree compatte e strategiche al confine con la Turchia.
L’invasione turca di Cipro del 1974, e alcuni episodi di terrorismo di presunta matrice separatista forniscono poi altre giustificazioni all’élite comunista. La decisione finale, per ammissione di Zhivkov, viene incoraggiata dalla percezione che la Turchia non può reagire, viste le difficoltà di Ankara nei confronti delle proprie minoranze.
Tutto comincia alla vigilia di Natale 1984, nella regione a forte presenza turca di Kardzhali. L’operazione di cambio dei nomi, preparata con cura dal regime, dovrebbe procedere senza intoppi. La notizia però si sparge in fretta, e la campagna incontra una resistenza dura e inaspettata
"Ero appena tornato a casa a Dzhebel cittadina vicino a Kardzhali da Sofia, dove avevo lavorato agli addobbi natalizi", ricorda Rasim Ozgur. "Era il 26 dicembre 1984. L’atmosfera era pesante. Avevano cominciato a cambiare i nomi nei villaggi. Era pieno di polizia. Scendemmo in piazza per protestare, ribellarci. Il giorno dopo mi arrestarono. Fui condannato a 18 mesi, scontati nel lager di Belene, sul Danubio. I primi sei sono stati i più duri della mia vita, ricordo solo la fame e il freddo disumani".
Tra il 24 dicembre 1984 e il 14 gennaio 1985 vengono cambiati i nomi a 310mila persone in tutta la Bulgaria. L’operazione è segnata da proteste e repressione violenta. Si parla di decine di morti e migliaia di arrestati, di cui circa mille verranno rinchiusi insieme a Rasim Ozgur nel campo di prigionia di Belene.
Per la dirigenza del partito, il "processo di rinascita" è un successo. "Non abbiamo risolto il problema dei turchi, ma abbiamo fatto un passo decisivo in avanti. Passeranno 15 o 20 anni, e tutto sarà dimenticato", dichiarerà al Politburo lo stesso Zhivkov, il 30 marzo 1985.
Per chi lo ha subito, però, il cambio dei nomi è un trauma profondo. "Il direttore mi convocò e mi disse senza preamboli che dovevo scegliermi un nome nuovo. Poi cambiarono il nome a tutti i miei alunni. I ragazzi da quel giorno non rispondevano all’appello, erano spaesati, confusi. E’ stato un momento terribile"", racconta Vesile Yildiz, nel 1989 maestra nella cittadina di Tzar Kaloyan, oggi insegnante ad Edirne.
"Mi chiamarono al consiglio di fabbrica, la ‘Breza’ di Kardzhali, e nel giro di un mattino mi ritrovai ad essere Raycho Karov", mi dice con un mezzo sorriso Rahim Karoglu, mentre sediamo fuori dalla sua piccola falegnameria alla periferia di Edirne. "Nella nostra famiglia siamo stati fortunati", aggiunge poi. "Abbiamo mantenuto tutti lo stesso cognome. Non tutti hanno avuto la stessa fortuna".
Al cambio dei nomi si aggiungono il divieto di parlare in turco in pubblico, di portare il velo e di circoncidere i bambini maschi. Difficile dire quali sarebbero stati gli effetti a lungo termine del "processo di rinascita". Fatto è, che proprio mentre il regime comunista bulgaro si lancia in questa avventura politica, il mondo circostante comincia a trasformarsi a velocità crescente.
L’arrivo al potere di Mihail Gorbachev in Unione Sovietica e l’inizio della perestrojka aprono scenari fino ad allora impensabili. Anche in Bulgaria nascono gruppi di dissidenti e organizzazioni che pongono la questione dei diritti umani, e chiedono la revisione del "processo di rinascita".
Nella primavera del 1989, mentre le crepe del sistema socialista in Europa orientale diventano sempre più visibili, i tempi sono maturi, e la questione turca riemerge con tutta la sua forza. Iniziano proteste e scioperi della fame per rivendicare i diritti negati. L’apparato repressivo del regime allora reagisce con la parziale estradizione dell’élite politica della comunità turca, sopratutto verso Austria e Svezia.
Le manifestazioni, inizialmente pacifiche, raggiungono le piazze di villaggi e città all’inizio di maggio 1989. Quando le forze di polizia intervengono, i cortei si trasformano in scontri caotici e sanguinosi. Sono una decina le vittime accertate, oltre a centinaia di feriti.
"Protestavamo per i nostri nomi e i nostri diritti, ma loro hanno risposto con le armi", racconta F. di Medovetz, villaggio non lontano da Varna, teatro di una manifestazione segnata da scontri particolarmente violenti. Nonostante siano passati vent’anni F., oggi proprietaria di un salone di bellezza nel quartiere di Fatih, a Edirne, non se la sente di dirmi il suo nome. Durante quella manifestazione un proiettile uccise sua cognata, Nazife Hasan, che aveva appena 22 anni.
Il 29 maggio, inaspettatamente, Zhivkov annuncia in tv di voler aprire le frontiere con la Turchia "per permettere ai turisti di visitare il paese vicino". Contemporaneamente all’annuncio, a molti turchi "scomodi" le forze di polizia consegnano a domicilio un passaporto nuovo di zecca e un invito a lasciare il paese che non ammette repliche.
Il 3 giugno, dopo breve titubanza, il governo turco decide a sua volta di aprire le frontiere. Il clima confuso contribuisce a creare una vera "psicosi di emigrazione", che il regime coltiva sapientemente.
"Siamo sull’orlo di una grande psicosi da emigrazione", dichiara in via riservata Zhivkov alla dirigenza del partito, il 7 giugno. "Questa ci è necessaria, è la benvenuta… Se non riusciamo a sottrarre 2-300mila membri a questa comunità quella turca, tra 15 anni la Bulgaria non esisterà più. Diventerà come Cipro, o qualcosa del genere".
Inizia così l’esodo di massa dei turchi di Bulgaria. Partono in auto, in autobus, in treno. Lasciano tutto quello che non è trasportabile. Molti vendono ogni bene a prezzo stracciato prima di partire, casa compresa. Interi paesi si svuotano, spesso con l’ausilio della milicija, che segue attenta l’operazione.
In breve si formano colonne chilometriche ai punti di confine di Malko Tarnovo e soprattutto di Kapetan Andreevo, alle porte di Edirne. Per passare il confine ci vogliono giorni, e una volta passata la frontiera, in molti non sanno dove andare, né cosa fare.
La Turchia si trova a dover gestire un flusso di rifugiati (ma ufficialmente "turisti", visto che chi entra nel paese lo fa con un visto turistico di tre mesi, da cui l’espressione "grande escursione") di gran lunga superiore al previsto e alle proprie capacità di gestione.
Alla periferia di Edirne, con il supporto della Croce rossa, viene tirato su in tutta fretta un campo di accoglienza che diviene in fretta sovraffollato. "Nelle tende si viveva in condizioni precarie", ricorda Vesile Yildiz. "La situazione diventò però invivibile quando un vero nubifragio si riversò sul campo, trasformandolo in un mare di fango".
Il 21 agosto 1989 le autorità turche, in piena emergenza, decidono di chiudere la frontiera, nonostante migliaia di persona aspettino ancora di passare. Dal 3 giugno al 21 agosto 1989 sono circa 360mila i "turisti" che emigrano in Turchia. Chi non ha parenti e amici in Turchia viene sistemato in scuole o alberghi. Inizia il difficile percorso di integrazione non solo in un altro stato, ma dal socio-economico socialista a quello di mercato.
"Cosa mi ha colpito di più dopo il mio arrivo in Turchia? Il fatto che qui bisognava lavorare per davvero", e il sorriso di Rahim Karoglu si allarga fino a riempirgli il viso abbronzato.
Il destino di molti rifugiati sarà cambiato ancora una volta proprio dalla repentina caduta del regime comunista, avvenuto soltanto qualche mese più tardi, nel novembre di quell’anno. In 40mila tornano in Bulgaria prima della scadenza del visto trimestrale. Entro la fine del 1990 sono 150mila i turchi che rientrano nel loro paese di origine.
Il nuovo regime democratico restituirà loro i nomi, e seppure in forma incompleta, garantirà ai turchi la possibilità di organizzarsi politicamente. Negli anni successivi, mentre la vicina Jugoslavia viene dilaniata dalle guerre etniche, Sofia si rivela un’isola di stabilità grazie a quello che politici e media chiamano, forse con troppa enfasi, "il modello etnico bulgaro".
Molti degli emigrati, però, decidono di restare in Turchia. Forti comunità si stabiliscono a Istanbul, Bursa, Izmir e naturalmente a Edirne, prima fermata del loro viaggio. Oggi sono ben integrati nella società turca. "Noi turchi di Bulgaria siamo grandi lavoratori, e in generale avevamo un grado d’istruzione superiore a quello medio in Turchia. E poi ci aiutiamo l’un l’altro, e per questo tanti di noi ce l’hanno fatta", sostiene Basri Ozturk, presidente dell’Associazione dei turchi di Bulgaria in Tracia.
Nonostante il successo nell’integrarsi nella nuova realtà, la vita di molti "turisti" rimane sospesa tra Turchia e Bulgaria. "Abbiamo parenti da una parte e dall’altra del confine, torniamo spesso in Bulgaria, nei nostri paesi di origine, e quasi tutti abbiamo entrambi i passaporti. Siamo integrati, ma le radici non si possono dimenticare", racconta ancora Esma Bozadzhieva.
In vent’anni, nella vita di chi è stato allora costretto ad abbandonare la propria casa e la propria terra, si sono sedimentati altri affanni e altre gioie, e per molti il tempo ha attutito, se non guarito, le ferite aperte dal "processo di rinascita" e dalla "grande escursione".
Non per tutti, però. "Nazife è morta e nessuno ce la darà indietro. Sul suo certificato di morte, hanno scritto ‘causa del decesso: bronco polmonite’", racconta, ora commossa, F. di Medovetz. "Ha lasciato due figli piccoli, che nessuno ha risarcito, nemmeno simbolicamente, per la perdita della madre. E nessuno ha pagato per questo".
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