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Ricostruire le istituzioni nei Balcani. Ma come?

A pochi giorni dal vertice di Salonicco, dove i Governi dell’UE si confronteranno sull’integrazione dei Balcani occidentali nell’Unione, Claudio Bazzocchi propone una riflessione sull’"Institution building" nella regione.

19/06/2003, Redazione -

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Sarajevo (Nicola Lux)

I documenti ufficiali dell’Unione Europea – nelle sue varie componenti – o quelli degli analisti internazionali che si occupano dell’integrazione europea dei paesi balcanici puntano la propria attenzione su alcuni temi fondamentali, fra i quali ha grande rilevanza quello della costruzione delle istituzioni, in inglese institution building.
È questo certamente un tema importante e sicuramente fondamentale per il futuro della regione balcanica, però ci pare che venga trattato sempre in modo tecnico, come se vi fossero caselle di una checklist da spuntare, ogniqualvolta un determinato risultato venga raggiunto.

Nei vari documenti possiamo leggere che solo uno stato di diritto forte e un sistema giudiziario non corrotto possono creare quel quadro di legalità e certezza del diritto che può garantire gli investimenti produttivi e attrarre il capitale straniero. Uno stato di diritto compiuto, inoltre, sarebbe la condizione affinché una robusta società civile possa dispiegare nel corpo sociale tutte le proprie potenzialità.
È chiaro che in questo tipo di valutazioni non vi è nulla di sbagliato, ma crediamo che si debba andare più a fondo nell’analisi dei problemi legati all’institution building.

Sicuramente le guerre nei Balcani e la precedente crisi politica ed economica hanno inferto un duro colpo alle istituzioni di quei paesi. Inoltre la transizione ad un sistema di democrazia parlamentare ha reso necessario creare nuove istituzioni e nuovi assetti amministrativi. Sbaglieremmo però a pensare che tutto ciò possa essere ottenuto colo con il compimento di precisi task tecnici. La costruzione delle istituzioni è infatti soprattutto una questione politica.
Due sono gli aspetti che vorremmo considerare, rispetto alla politicità dell’institution building. Per prima cosa dobbiamo dire che il sistema umanitario occidentale è intervenuto nei Balcani smantellando tutto il sistema istituzionale precedente la guerra, compreso quello dei servizi sociali e quello delle imprese di stato. Il sistema di welfare pubblico è stato in gran parte privatizzato e affidato alla miriade di ONG locali, nate contestualmente al grande afflusso di denaro dei donatori internazionali. Allo stesso modo gran parte delle imprese statali sono state privatizzate, senza alcuna valutazione di opportunità economica, ma con "ortodossa" furia ideologica. È evidente che in questi casi non ci troviamo di fronte a fatti puramente tecnici di costruzione delle istituzioni.
Il sistema umanitario occidentale ha impresso un preciso indirizzo all’organizzazione sociale ed economica di quei paesi, tutta orientata allo scardinamento di qualsiasi politica di intervento dello stato e ad una concezione essenzialmente privatistica dei rapporti sociali. Dobbiamo inoltre considerare che l’aver smantellato la rete dei servizi sociali ha significato nei paesi balcanici l’aver messo da parte migliaia di esperti, impiegati e dirigenti del settore pubblico – considerati con disprezzo come residuo di un regime burocratico e inefficiente – che potevano essere invece una risorsa tecnica e politica nella costruzione di nuove istituzioni.

Mark Duffield, nella sua importante analisi sul lavoro di UNICEF in Bosnia-Erzegovina ed Angola (1), rileva come la Bosnia fosse uno stato forte, trovatosi ad affrontare una situazione di emergenza. Questo significa che le ONG e le agenzie umanitarie internazionali avrebbero potuto lavorare per il mantenimento del quadro sociale e politico di uno stato che comunque era ben organizzato prima della guerra. La guerra ruppe i legami e la comunicazione tra le infrastrutture civili, professionali e sociali e la popolazione, per imporre un regime politico fondato sull’etnia e non più sui diritti sociali. Le ONG – dice Duffield – e le grande agenzie umanitarie, compreso l’UNHCR – diciamo noi – hanno fallito proprio nel mantenere e far resistere quei legami, per non dire che in alcuni casi hanno provocato un loro ulteriore deterioramento. Vogliamo dire insomma che nei paesi ex-socialisti gran parte del legame sociale e della fiducia fra cittadini e istituzioni stava nelle strutture dello stato, dai servizi sociali a quelli sanitari, dalla scuola pubblica al sistema pensionistico. Ogni transizione dovrebbe porsi il problema di salvare il capitale politico di quel legame sociale, pena un’ulteriore disgregazione dei paesi in cui si interviene.
Veniamo al secondo aspetto politico sui cui è opportuno soffermarsi. La costruzione delle istituzioni deve tenere conto di un elemento fondamentale: la partecipazione dei cittadini alla costruzione delle istituzioni stesse. Pare che di questo non se ne occupi mai nessun documento. È bene allora sapere che nei paesi balcanici vi è una crisi di fiducia profondissima da parte dei cittadini nei confronti delle istituzioni e delle classi dirigenti in genere. Un interessante paper (2) del centro di ricerca tedesco European Stability Initiative (ESI) prende in esame proprio questo aspetto del rapporto fra cittadini e politica nei paesi dei Balcani occidentali. In quel documento – che rappresenta così un eccezione – possiamo leggere:
Il profondo disincanto verso i processi democratici può essere visto nel continuo decrescere delle percentuali di partecipazione ad ogni tornata elettorale, e nel fatto che il più delle volte gli amministratori non vanno mai oltre il primo mandato, aldilà di qualsiasi valutazione sul loro operato.

In nessun posto nel mondo le attività di democratizzazione sono state così estese come nei Balcani. È arrivato il tempo di valutare i risultati di tale sforzo. Come Thomas Carothers ha scritto, offrire "una carrellata indistinta di programmi di democratizzazione basati sul vago assunto che tutti contribuiscono in qualche modo al processo di consolidamento non è sufficiente". C’è un’ovvia necessità di rivedere il legame fra programmi di democratizzazione e altre forme di assistenza….
Senza un sano e produttivo settore economico, le possibilità dello stato di avere una moderna amministrazione per provvedere alle reti di protezione sociale sono severamente limitate. Per la maggioranza dei cittadini che non riesce a vivere del proprio lavoro, lo stato appare distante, alieno e largamente irrilevante per quanto riguarda la vita di tutti i giorni. Nelle aree rurali, lo stato può benissimo essere assente, come risultato di uno sviluppo infrastrutturale e istituzionale ineguale attuato nel passato. In queste circostanze, il settore privato tende a spostarsi nell’economia grigia, non volendo pagare le tasse per servizi inefficienti.
Siamo convinti però che non basterà creare più lavoro e più ricchezza nei paesi balcanici per sanare la crisi di fiducia fra cittadini e istituzioni. La costruzione delle istituzioni è sempre un progetto politico, che deve coinvolgere le passioni e la partecipazione dei cittadini. E la democrazia allora non coincide solamente con lo stato di diritto o il rispetto delle minoranze.
Abbiamo già avuto modo di dire in questa sede – commentando i risultati delle elezioni politiche che si sono tenute in Bosnia nell’autunno scorso – che la ripresa dei nazionalismi in tutta la regione pone in modo forte un’altra questione irrisolta: su quali basi creare un’identità condivisa per stati giovani quali possono essere quelli dell’area balcanica? Le strade sono essenzialmente due: una fondata sull’identità etnica dei miti nazionalistici, l’altra basata su un progetto condiviso di società laica, in cui l’identità sia data dal processo di iniziative sociali e politiche per arrivare a tale società, e dai diritti sociali universali che la dovrebbero caratterizzare.
La prima strada, quella del nazionalismo, sarà sempre vincente se si opporrà ad essa la sterile e generica retorica dei diritti umani, delle istituzioni democratiche e del libero mercato che il sistema occidentale dell’aiuto umanitario ha proposto in questi anni per la ricostruzione del tessuto sociale e civile dei paesi balcanici. La filosofia dei diritti dell’uomo, nata peraltro all’interno di una cultura minoritaria nel pianeta – quella occidentale -, elimina dalla pratica dell’intervento di solidarietà e cooperazione internazionale la questione del modo in cui una società si deve organizzare. Si possono vantare dei diritti se la società in cui si vive è democratica, e questa dovrebbe essere la questione centrale. Come ha scritto Pietro Barcellona, «la vera garanzia dei diritti è il modo concreto di essere della società, non la pura e semplice enunciazione di "principi astratti"».
Ci sembra allora che sia opportuno riprendere la riflessione sulla politicità delle questioni istituzionali nei Balcani, come in Italia del resto. E anche questo – crediamo – dovrebbe essere un compito di tutti quei soggetti che si riconoscono nella rete dell’Europa dal basso.
(1). DUFFIELD M., Complex Political Emergencies: An exploratory Report for UNICEF with Reference to Angola and Bosnia. Birmingham: School of Public Policy, University of Birmingham.
(2) ESI, Western Balkans 2004. Assistance, cohesion and the new boundaries of Europe, Berlin 2002.

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