Ricordi di un rom bosniaco
20 anni fa un gruppo di paramilitari serbi distrusse un villaggio rom nella Bosnia orientale, facendo strage dei suoi abitanti. Sopravvisse un bambino, che oggi chiede giustizia per il proprio popolo di fronte alla Corte di Belgrado per i crimini di guerra. La storia di Zijo
Zijo Ribić è da alcune settimane in Italia, invitato dalla Fondazione Alexander Langer di Bolzano per tenere una serie di incontri e conferenze nelle scuole. Lo abbiamo incontrato a Venezia, dove si fermerà per alcuni giorni nell’ambito del progetto "Buongiorno Bosnia-Dobardan Venecija"
Cosa è successo il 12 luglio 1992 a Skočić?
Eravamo tornati a casa da pochi giorni. Mio padre lavorava come muratore, e aveva deciso di portarci tutti via, in Serbia, perché la situazione era molto tesa. Poi però sembrava che le cose andassero meglio, e tutti dicevano che non ci sarebbe stata la guerra. Allora aveva deciso di ritornare a Skočić, vicino a Zvornik, dove abitavamo, per riprendere il suo lavoro. La sera del 12, verso le 9, sono arrivati nel villaggio due camion con dei soldati.
Dell’esercito jugoslavo?
No, erano paramilitari. Era la banda di Simo Bogdanović, Simo “il cetnico”.
Venivano dalla Bosnia o dalla Serbia?
Dalla Serbia. Noi eravamo tutti in una casa. Ci hanno fatti uscire e preso tutto, poi hanno violentato mia sorella e le altre ragazze. Alla fine hanno messo gli uomini in uno dei due camion e le donne e i bambini nell’altro. Ci hanno portato in un altro villaggio, vicino a Kozluk, a Malešić. Lì c’era la fossa già preparata. Hanno fatto uscire tutti dai camion, uno per uno, e li hanno uccisi. Quando è arrivato il mio turno [al tempo Zijo aveva 8 anni, ndr] ho cercato di andare da mia mamma, mi hanno detto: “Adesso ci andrai”. Mi hanno messo davanti al camion dicendomi di stare buono. Poi hanno colpito anche me. Pensavano che fossi morto, mi hanno buttato nella fossa dove c’erano gli altri corpi. Sono rimasto lì un po’ di tempo, e quando sono rinvenuto sono riuscito a uscire e sono scappato nel bosco.
Era notte?
Sì, forse le dieci di sera, era buio. I camion erano ancora lì, sentivo le voci, le grida. Ho trovato una casa abbandonata, sono entrato e mi sono addormentato. Al mattino mi sono accorto che ero ferito al braccio sinistro, c’era sangue. Fuori c’era un’altra casa, da cui usciva del fumo. Sono andato lì, davanti alla casa c’era una donna. L’ho chiamata, ma lei appena mi ha visto è rientrata. Dalla casa sono usciti due soldati con la divisa verde dell’esercito popolare jugoslavo. Loro mi hanno dato da mangiare, poi mi hanno portato a Kozluk, dove c’era un piccolo ospedale. Siamo passati davanti al luogo della strage, ho riconosciuto il braccialetto di una donna rom del mio villaggio che usava quei bracciali colorati…
Il vostro era un villaggio solo rom?
Sì, era un villaggio rom.
E poi?
Ho detto ai soldati che lì era successo qualcosa, loro sono scesi e hanno dato un’occhiata veloce, poi siamo ripartiti per l’ospedale. Lì, davanti all’ospedale, c’erano i soldati della notte prima. Tra loro c’era anche una ragazza, Dragana, che ho riconosciuto subito, mi ha preso la mano mentre sentivo che i due soldati parlavano con Simo il cetnico che diceva di lasciarmi a loro, che mi avrebbero portato loro all’ospedale di Zvornik. I due soldati non hanno accettato, hanno detto che io ero sotto la loro responsabilità, e alla fine così è stato. I due mi hanno portato a Zvornik, lì hanno aspettato che arrivassero quelli dell’Unicef e che firmassero che mi avevano affidato a loro. Sono rimasto in quell’ospedale fino alla fine di dicembre del 1994. Poi, tramite un’organizzazione straniera, norvegese mi sembra, sono stato portato a Igalo, in Montenegro, in un istituto sanitario sul mare, l’istituto dr. Simo Milošević. Lì sono rimasto un anno e mezzo.
Un orfanotrofio?
No, era un istituto sanitario in cui arrivavano in continuazione bambini dalla Bosnia tramite questa organizzazione norvegese, per curare i traumi. Poi l’Unicef di Podgorica, dopo che ero stato curato, mi ha affidato all’orfanotrofio Mladost, a Bjela, vicino a Herceg Novi. Ci sono rimasto fino al 2001, e infine mi hanno mandato in un orfanotrofio in Bosnia, a Tuzla. Lì ho finito la scuola, sono diventato cuoco. Nel frattempo un’organizzazione di Tuzla, Tuzlanska Amica , aveva realizzato una casa d’accoglienza, “Casa Pappagallo”. Il 9 ottobre del 2005 è stata inaugurata questa casa, e io sono stato il primo, insieme ad altri 3 o 4 ragazzi, ad entrarvi. Ci sono rimasto per due anni e mezzo. Poi, grazie ad un gemellaggio tra scuole di Tuzla e di Rimini, sono venuto in Italia e ho potuto studiare in una scuola alberghiera.
Le persone che hanno ucciso i tuoi familiari sono state arrestate?
Nel 2004 un mio cugino mi ha detto che avrei dovuto sporgere denuncia, far avviare un procedimento per quello che era successo nel mio villaggio. Dopo qualche mese ho deciso di sì, che mi sarei battuto, che avrei testimoniato. Io sono rom, ma sono cresciuto con i serbi, con i montenegrini, con i musulmani, non parlo la lingua rom, sono cresciuto con altre lingue. Però questo è il mio popolo, volevo mostrarlo e testimoniarlo. In tutto il mondo si dice che in Bosnia ci sono serbi, croati e musulmani. Noi, i rom, gli ebrei, gli altri, non siamo considerati un popolo, ma al livello degli animali. Volevo dimostrare questo, che anche noi esistiamo, e ho iniziato il procedimento per la mia famiglia, per il mio villaggio, per dimostrare che siamo esseri umani. Ho incontrato Nataša Kandić, a Belgrado. Lei mi ha aiutato moltissimo, insieme abbiamo avviato il procedimento.
Hai avuto il sostegno anche di organizzazioni rom?
No, i rom non mi hanno aiutato, anche se a Tuzla ad esempio ci sono diverse organizzazioni non governative rom. Però ce l’ho fatta anche senza di loro. Alla fine mi hanno sostenuto di più i serbi, i montenegrini, i musulmani, la mia generazione, i miei amici…
Il Centro per il Diritto Umanitario di Belgrado…
Sì, senza di loro, senza Nataša Kandić non avrei potuto farcela.
Avete presentato la denuncia al Tribunale dell’Aja?
No, all’epoca il Tribunale dell’Aja non accettava più nessun nuovo atto d’accusa, si concentrava solo sui casi più grossi. Ci siamo rivolti alla Corte per i Crimini di Guerra di Belgrado.
È iniziato un processo?
Sì, nel 2009. Hanno arrestato Simo il cetnico, cioè Simo Bogdanović, e altre 4 persone. Altri 3 sono in libertà. C’è anche il figlio di Simo, Damir Bogdanović, che si difende da libero, ma non può allontanarsi da Belgrado. La donna, Dragana, doveva essere incriminata anche lei ma è diventata… Non era più normale, era impazzita.
Sono tutti serbi della Serbia?
Qualcuno credo anche della Bosnia, ma la maggioranza sono della Serbia. Da Ruma, Šabac, da quelle parti lì, dall’altra parte della Drina. Anche Dragana alla fine è stata incriminata, sarebbe guarita da qualche mese, così hanno detto.
Dove vivi e cosa fai oggi?
Lavoro in un hotel di Tuzla, come cuoco.
Come va?
Il lavoro va bene, mi piace, non mi posso lamentare. Il problema è che in Bosnia c’è una grande crisi, gli stipendi non arrivano, o arrivano molto tardi. Per fortuna la mia padrona di casa è una brava donna, capisce…
Cosa ti ha portato in questi giorni in Italia?
Sono qui con l’aiuto della Fondazione Alexander Langer di Bolzano, per raccontare ai giovani cosa è successo in Bosnia Erzegovina, in ex Jugoslavia. Racconto la mia storia e la situazione attuale del mio Paese. Io ho perdonato, voglio andare avanti.
Hai perdonato?
Sì, perché voglio andare avanti. L’odio non ti porta da nessuna parte. I serbi mi hanno preso tutto, Simo il cetnico e gli altri. Ma i due soldati jugoslavi, anche loro erano serbi, mi hanno salvato, mi hanno portato all’ospedale. Poi i montenegrini mi hanno aiutato, anche loro sono ortodossi… Non è importante se ti chiami Mujo o Nikola, se ti fai il segno della croce oppure no, se sei bianco o cinese. Devi solo guardare se un uomo è un uomo, e cercare di andare avanti.
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