Ricordare il 12 settembre
Per anni la Turchia ha preferito non interrogarsi su quanto avvenuto durante gli anni della dittatura militare. Ora però alcuni film stanno sollevando la cortina calata su quel periodo, stimolando il dibattito pubblico. Una rassegna dal nostro corrispondente
La mattina del 12 settembre 1980 la Turchia si svegliava con il fragore dei carri armati nelle strade ed uno scarno comunicato radiofonico: "Le forze armate hanno assunto il controllo dello stato per proteggere l’incolumità delle cose e delle persone". Si trattava del terzo colpo di stato militare nella storia della Repubblica, con il quale una giunta guidata dal generale Kenan Evren prendeva il potere "per mettere fine alla guerra fratricida" che da anni insanguinava il paese. Tre anni dopo, al momento del graduale ritorno a libere elezioni, i militari si lasciavano alle spalle un bilancio drammatico: 650.000 persone fermate, 230.000 sottoposte a procedimento penale, 50 condannate a morte, 171 morti in seguito alle torture in carceri dai nomi diventati tristemente famosi – Mamak, Metris, Diyarbakir – 300 "morti sospette", 14.000 persone private della cittadinanza, 30.000 lavoratori licenziati, 30.000 esuli all’estero, 4.000 docenti espulsi dalle università.
Il lascito dei militari comprendeva anche un impianto politico-istituzionale radicalmente riformato, fondato su di una nuova costituzione dai caratteri autoritari approvata con plebiscito popolare. Tre anni di potere militare avevano poi portato anche ad una ricostruzione ideologica della società, fondata sulla triade Dio-Patria-Famiglia, e ad una nuova versione del nazionalismo kemalista, ribattezzato Ataturkismo, che avvolgeva ogni aspetto della vita sociale. Allo stesso tempo, l’economia del paese subiva un ribaltamento traumatico con il passaggio al libero mercato e l’integrazione nel sistema internazionale.
"12 settembre: resa dei conti od oblio?" Era questo il titolo significativo della rivista Birikim che un anno fa si interrogava sull’amnesia che imperversa nel paese, soprattutto tra le giovani generazioni, rispetto all’enorme bagaglio di sofferenze che quegli anni hanno inferto ad un’intera generazione di turchi.
Per molto tempo sono state rare le eccezioni che hanno tentato di scalfire questo muro di silenzio. L’associazione "Quelli del 78" con la sua coraggiosa ostinazione ogni anno, tra molti ostacoli e l’indifferenza dei più, cerca di mantenere viva la memoria di quel periodo, chiedendo anche la messa sotto processo dei golpisti. Più recentemente, i libri di Ertuğrul Mavioğlu hanno offerto una documentata ricostruzione delle brutalità perpetrate nelle carceri del paese.
Negli ultimi tempi è il cinema che sembra volersi assumere questo compito, non senza esitazioni, per riportare l’attenzione del grande pubblico su quegli anni.
Per primo ci ha provato il film "Padre e figlio" – Baba ve Oğul – un drammone sentimentale che ha avuto un grande successo di pubblico ma che ha usato il 12 settembre solamente come sfondo, muto, per mettere in scena una storia tutta privata. Paradossalmente, come hanno osservato alcuni critici, ottenendo l’effetto di far uscire lo spettatore con la sensazione che se il figlio non si fosse immischiato nella politica – leggasi nella sinistra – non ci sarebbero stati problemi.
Nei mesi scorsi è uscito nelle sale "Ritorno a casa" – Eve donus – che la critica ha giustamente definito il più duro e coraggioso film sul 1980. Il regista Ömer Uğur, che aveva da 12 anni il copione nel cassetto, ha scelto di affrontare il 12 settembre dalla prospettiva dell’uomo qualunque, lontano dalla bagarre politica di quegli anni. Una scelta efficace in un paese in cui lo stereotipo vuole che all’epoca del colpo di stato il maglio delle repressione colpì solamente quelli che avevano voluto mescolarsi alla politica. Mustafa ed Esma sono una giovane coppia proletaria indifferente, se non ostile, al clima di mobilitazione politica di quegli anni. All’indomani del colpo di stato, la polizia però bussa anche alla porta dell’"innocente" Mustafa, accusato da un delatore di essere in realtà il leader di una organizzazione illegale. Solamente dopo aver passato un mese negli scantinati dei torturatori l’equivoco si chiarisce, e Mustafa può ritornare alla sua vita. Senza lavoro però, perché per i sospettati di terrorismo non c’è più posto nelle fabbriche del paese.
Dal punto di vista strettamente estetico il film mostra ben più di una pecca. Lo spettatore non viene mai abbandonato dalla sensazione di trovarsi di fronte, per la qualità della recitazione e lo stile delle riprese, ad una delle tante sit-com che impazzano nelle televisioni del paese. I due attori protagonisti, poi, sembrano lontani dalla loro migliore interpretazione.
Mehmet Ali Alabora, Mustafa, un attore che nella vita reale si è spesso mostrato molto sensibile all’impegno civile, non è molto convincente nei panni di un operaio istanbuliota di quel periodo.
Sibel Kekilli, Esma, la attrice feticcio del regista turco-tedesco Fatih Akın, sembra alquanto improbabile nel suo ruolo. E proprio Sibel Kekilli, cresciuta in Germania, ammettendo candidamente di non saper assolutamente nulla di quel periodo, incarna perfettamente la condizione del giovane turco medio.
Eppure, al di là di queste debolezze, il film ha molti meriti. In primo luogo quello di sbattere in faccia allo spettatore lunghe sequenze che mostrano in tutta la loro brutalità la realtà delle torture poliziesche. E poi la banalità del male incarnata dallo zelante commissario che, al momento del rilascio, chiede la comprensione di Mustafa "perchè io ho fatto solamente il mio dovere".
Il film poi dedica anche una chicca al protagonista del golpe, il genrale Kenan Evren. Dopo aver guidato la giunta militare ed essersi successivamente fatto eleggere presidente della Repubblica, si era ritirato nel suo buen retiro di Marmaris per dedicarsi al suo hobby preferito, la pittura. Il suo isolamento è rotto da qualche apparizione sui rotocalchi del paese per discettare degli argomenti più disparati, oppure da qualche occasione ufficiale.
Una sequenza del film lo mostra mentre, in un’immagine di repertorio, appare sugli schermi televisivi impegnato a rispondere alle accuse della comunità internazionale per le ripetute violazione dei diritti umani commesse dai golpisti. Mentre il generale sdegnato ricorda che "nostra principale preoccupazione è la salvaguardia dei diritti della persona", Esma sta mostrando allo scettico padre le prove inconfutabili delle torture che Mustafa subisce nel commissariato di polizia.
Ma il regista si riserva per il finale il colpo destinato a spiazzare lo spettatore: nell’ultima sequenza silenziosamente scorrono sullo schermo i numeri che tracciano il bilancio di quegli anni: le vittime, i torturati, i cittadini privati della cittadinanza ed i lavoratori licenziati, e poi la frase finale che ricorda come la costituzione partorita da quella esperienza sia la stessa attualmente in vigore.
Mentre "Ritorno a casa" usciva dalla programmazione, nei giorni scorsi un altro film ambientato all’epoca del golpe è entrato nelle sale turche. Si tratta di Beynelmilel – Internazionale – che fin dalla scelta dell’ambientazione mostra il suo carattere originale. Il film infatti descrive gli effetti dello stato d’eccezione proclamato dai militari, siamo nel 1982, in un piccola cittadina di provincia dell’Anatolia orientale, Adiyaman, una zona alla quale i militari riservarono un trattamento particolare. Con un tono leggero ed attori brillanti, il film descrive le vicissitudini di un gruppo di musicisti "da matrimonio" che i militari assoldano costringendoli alla disciplina militare ed a eseguire marce patriottiche. I musicanti, lontani da qualsiasi politicizzazione, sono però dotati di una naturale dote che li spinge a piegarsi alle invadenze del potere senza spezzarsi, una traccia della tradizionale diffidenza che le popolazioni anatoliche nutrono nei confronti del potere costituito da sempre fonte di soprusi: "Ho preso schiaffi per tutta la vita", confida alla figlia l’anziano Abüzer, direttore dell’improvvisata orchestra. Affascinati da una nuova melodia portata in città insieme ai suoi ardori rivoluzionari da Haydar, studente universitario, i musicisti decidono che sarà quella l’aria che suoneranno per la loro prima uscita ufficiale, l’arrivo in città di uno dei generali golpisti. Si tratta però dell’Internazionale e quella che doveva essere la consacrazione ufficiale per i musicisti si trasforma in tragedia, che si conclude con l’assassinio di Haydar. Anche in questo caso il finale è scontato ma il film mostra e soprattutto lascia intuire quale sorte attende il gruppo di musicisti riuniti in uno scantinato poliziesco.
I tempi sembrano forse maturi per permettere di pensare una nuova risposta alla domanda: "12 settembre: resa dei conti od oblio?"
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