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Resistere al male

Una storia poco conosciuta, quella dei movimenti pacifisti e di resistenza civile sorti in Jugoslavia contro le guerre degli anni ’90. Due volumi contribuiscono a raccontarne le vicende. Una recensione

18/07/2013, Marco Abram -

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Il 2012 ha visto la pubblicazione di due nuovi testi nella collana Southeast European Integration Perspectives diretta da Wolfgang Petritsch e Christophe Solioz: un progetto volto a offrire un quadro dei recenti processi di transizione e democratizzazione registrati nei paesi del Sud-Est europeo. Viene in questo modo messa a disposizione degli studiosi una coppia di volumi di alto valore scientifico e di potenziale interesse per chiunque voglia esplorare aspetti meno noti delle vicende jugoslave.

Ciò si deve in primo luogo all’impegno di Bojan Bilić, ricercatore che ha dedicato i propri studi dottorali alla ricostruzione dell’attivismo "(post-)jugoslavo" contro la guerra degli anni Novanta [We Were Gasping for Air]. Quindi a Vesna Janković – sociologa, tra i protagonisti di quell’esperienza, coautrice di una ricerca sulla campagna pacifista croata  – che in collaborazione con Bilić è riuscita a coinvolgere un variegato gruppo di studiosi e attivisti nella stesura di una raccolta di saggi sull’argomento [Resisting the Evil].

Due volumi complementari

Resisting the Evil: [Post-]Yugoslav Anti-War Contention, edited by Bojan Bilic and Vesna Jankovic (Baden-Baden: Nomos Verlagsgesellschaft | Southeast European Integration Perspectives, vol. 7, 2012), 288 pp.

Resisting the Evil: [Post-]Yugoslav Anti-War Contention, edited by Bojan Bilic and Vesna Jankovic (Baden-Baden: Nomos Verlagsgesellschaft | Southeast European Integration Perspectives, vol. 7, 2012), 288 pp.

Grazie all’efficace complementarietà tra i due volumi, viene offerto al lettore un ampio quadro d’insieme del fenomeno. Mentre We Were Gasping for Air circoscrive e approfondisce l’indagine su Serbia e Croazia, i contributi raccolti nel volume collettaneo allargano lo sguardo a tutte le ex repubbliche jugoslave e al Kosovo.

Bilić propone nella sua monografia un lavoro di ricerca metodologicamente rigoroso che si pone, come sottolineato dall’autore stesso, all’incrocio "tra sociologia storica, antropologia e studi sui movimenti sociali". Sfogliando la raccolta, invece, si incontra un’inedita alternanza tra saggistica e contributi volutamente più sperimentali: testimonianze dirette e "auto-etnografie" dei protagonisti della mobilitazione dell’epoca, impegnati nel tentativo di accompagnare alla memoria dell’attivista l’analisi dello studioso. Un percorso non semplice che, come ricordato in un passaggio autobiografico dalla stessa Vesna Janković, ha portato alla riapertura di "scatole" della memoria che erano state chiuse e archiviate molto tempo prima.

Resistenza civile

Nei ricordi di molti osservatori esterni, la reazione di fronte al divampare della violenza in Jugoslavia si riduce alle partecipate ma disperate manifestazioni contro la guerra dell’aprile 1992 a Sarajevo. Vanno invece perdendosi nella memoria pubblica e collettiva altri episodi di resistenza civile, anche eclatanti: come il gesto di Vladimir Živković, riservista serbo dell’esercito federale inviato a combattere a Vukovar, che invertì la marcia del proprio veicolo corazzato per andare a parcheggiare di fronte al parlamento di Belgrado in segno di protesta.

Ma al di là delle singole esperienze – molte delle quali raccolte e pubblicate qualche anno fa da Svetlana Broz  – i testi riportano alla luce un universo complesso di gruppi, di relazioni, di percorsi organizzativi e di crescita di soggetti di vario tipo: dai gruppi femministi agli studenti, dai pacifisti agli intellettuali. Realtà che, per quanto minoritarie, fecero sentire la propria presenza, andando ad incarnare quella realtà "druga" (altra) con cui spesso si relazionarono coloro che dall’estero scelsero di impegnarsi nello scenario jugoslavo degli anni Novanta.

Prima della guerra

Pur essendo dedicate agli anni del conflitto, le pagine dei due volumi sono ricche di riferimenti al periodo precedente e introducono il lettore ad aspetti generalmente meno noti della storia della Jugoslavia socialista. Una delle considerazioni ricorrenti e trasversalmente presenti nei testi puntualizza il fatto che l’attivismo contro la guerra non emerse da un vuoto politico, ma rappresentò la coagulazione di nuclei di dissidenza e di embrionale impegno civile che si erano articolati a partire dagli anni Settanta.

We Were Gasping for Air: [Post-]Yugoslav Anti-War Activism and Its Legacy, by Bojan Bilic (Baden-Baden: Nomos Verlagsgesellschaft | Southeast European Integration Perspectives, vol. 8, 2012), 224 pp.

We Were Gasping for Air: [Post-]Yugoslav Anti-War Activism and Its Legacy, by Bojan Bilic (Baden-Baden: Nomos Verlagsgesellschaft | Southeast European Integration Perspectives, vol. 8, 2012), 224 pp.

Di rado questo tipo di legami sono stati indagati con precisione, riscoprendo le reti sociali allacciate dall’impegno studentesco, femminista o ambientalista in epoca socialista. Fu tuttavia grazie a quel sistema di relazioni interne ai confini jugoslavi che vennero garantite le condizioni per il mantenimento di collegamenti tra le diverse repubbliche anche negli anni del conflitto, come valorizzato dall’approccio transnazionale di questi testi.

Comunic-azione

Scoppiata la guerra, disgregato il paese, recisi i collegamenti telefonici e postali tra le diverse repubbliche, vennero messi a punto nuovi strumenti di informazione e di contatto: dai più tradizionali bollettini a stampa fino a ZaMir, primo network sostenuto dalla neonata rete internet. Bilić e gli altri autori dedicano particolare attenzione a questi media, offrendo uno sguardo integrativo su un sistema di informazione ricordato soprattutto per aver interpretato il ruolo di megafono del nazionalismo dilagante. Vengono analizzati interessanti veicoli di cultura antimilitarista, antinazionalista come l’ARKzin di Zagabria o Republika a Belgrado. Ma fu soprattutto la radio, tradizionale mezzo di comunicazione alternativo, a rappresentare lo strumento più sfruttato ed efficace: non solo la nota belgradese B92, ma anche Kanal 103 a Skopje, Radio Študent a Lubiana e Radio Zid nella Sarajevo sotto assedio. I sempre maggiori contatti tra le varie emittenti portarono nel 2001 fino all’implementazione di un progetto di scambio regolare di programmi e contenuti.

Lo sguardo transnazionale rende conto anche delle distanze presenti all’interno della variegata galassia antibellica. Particolari caratteristiche contraddistinguevano i gruppi e i relativi contesti, demarcazioni come quelle rilevate da Bilić rispetto gli attivisti impegnati nei due principali centri del paese: Belgrado e Zagabria. Nella vecchia capitale federale la mobilitazione appariva legata all’eredità della dissidenza degli anni Sessanta-Settanta e del marxismo critico; in Croazia invece gli attivisti risultavano anagraficamente più giovani e ispirati in primo luogo dai nuovi movimenti sociali degli anni Ottanta. Soprattutto, legami e reti informali prebelliche non mancavano di risentire della complessità del nuovo quadro politico. Oltre alle incomprensioni tra le forti personalità e tra i gruppi di diverso orientamento, la sensibile questione del giudizio sulla disgregazione jugoslava rimaneva in primo piano. Le relazioni tra pacifismo e antimilitarismo, diritto all’autodeterminazione e all’autodifesa, ad esempio, non potevano non incidere sui rapporti tra attivisti serbi, sloveni e kosovari. Mentre l’esasperazione bellica finiva per mettere i pacifisti croati in una posizione controversa, nel mezzo di un conflitto che era percepito come difesa da un’aggressione esterna.

I contatti con l’estero

Attraversando i testi si rintraccia un ulteriore punto di vista che può risultare particolarmente interessante per chi si interessa di dinamiche transnazionali o, più semplicemente, ha vissuto in prima persone esperienze di impegno nella ex-Jugoslavia. I contributi raccolti in Resisting the Evil, in particolare, riservano molti passaggi che fanno riferimento agli intensi contatti tra gli attivisti jugoslavi e coloro che si attivarono dall’estero per l’emergenza bellica.

L’inconsueta prospettiva testimonia l’importanza di legami che potevano garantire un fondamentale scambio di expertise o semplicemente offrire la possibilità di incontrare individui con cui si condividevano scelte di vita e orientamenti (come le reti degli obiettori di coscienza o quelle omosessuali). D’altra parte non mancavano difficoltà di comprensione, frizioni e divergenze sia rispetto ai metodi di intervento che alla controversa lettura del conflitto. Nell’unico contributo apertamente dedicato a questo genere di rapporti, Vesna Janković non manca comunque di sottolineare l’importanza della "tappa jugoslava" nel percorso di maturazione dell’attivismo transnazionale odierno, definendola "un importante episodio dei nuovi fenomeni globali, che tutt’ora attende un’analisi più approfondita".

Petritsch e Solioz nell’offrire spazio a questa coppia di volumi parlano di una "potenziale «storia alternativa» della dissoluzione della Jugoslavia". Numerosi sono infatti gli spunti e gli elementi utili per iniziare a colmare un evidente vuoto di conoscenza e certamente nuove ricerche svilupperanno ed integreranno approcci e contenuti. L’augurio è che questa "storia alternativa" incontri il più ampio riconoscimento, recuperando un tassello fondamentale per la comprensione degli anni del conflitto, così come della storia precedente e successiva della regione.

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