Referendum in Turchia: la battaglia è a destra
Il 16 aprile il referendum costituzionale voluto da Erdoğan per trasformare la Turchia in una Repubblica presidenziale. La sfida verrà decisa a destra dello spettro politico
Si avvicina il 16 aprile, data in cui i cittadini turchi saranno chiamati al voto referendario sulla proposta di riforma costituzionale voluta dal governo targato AKP. Gli emendamenti all’attuale costituzione elaborata dopo il golpe del 1980 e ritenuta ormai superata da larga parte delle forze politiche in Turchia, sono stati approvati dal parlamento di Ankara lo scorso gennaio, dopo una serie di votazioni in cui il partito di governo è riuscito ad ottenere i numeri necessari grazie al sostegno di parte degli ultra-nazionalisti del MHP.
Una vittoria del “sì” trasformerebbe la Turchia in una Repubblica presidenziale, con i poteri fortemente accentrati nelle mani del presidente della Repubblica – carica attualmente ricoperta da Recep Tayyip Erdoğan. Numerosi esponenti di politica, mondo accademico e società civile hanno lanciato l’allarme sulla deriva autoritaria di cui è preda la Turchia e la possibile creazione di un’autocrazia plebiscitaria, sostenuta unicamente dal voto popolare, ma priva di un sistema funzionante di pesi e contrappesi istituzionali e gravata di forti limitazioni nella libertà di stampa e di espressione.
Lunedì 27 hanno già iniziato a votare i cittadini turchi che vivono all’estero. I seggi sono stati aperti in 120 sedi consolari in 57 paesi diversi. Queste votazioni si protrarranno fino al 9 aprile. Si vota anche nei principali aeroporti di Istanbul, Atatürk e Sabiha Gökçen, dove sarà possibile esprimere la propria preferenza fino al 16 aprile.
L’attenzione si concentra soprattutto su sei paesi europei, Austria, Belgio, Francia, Svizzera, Danimarca e Germania, dove risiedono complessivamente oltre 2,9 milioni di cittadini turchi aventi diritto al voto. Rappresentano oltre il 5% degli aventi diritto totali, fondamentali per una sfida elettorale che si prospetta un vero testa a testa.
Polarizzazione
La società turca si avvicina alle urne in un clima di esasperata polarizzazione: la campagna elettorale è condotta più attraverso l’attacco all’avversario che non con una discussione pubblica sui contenuti della riforma. I sostenitori del “no” sono stati sin da subito equiparati a terroristi, anche da parte di alti ufficiali governativi. I sostenitori del “sì” sono invece tacciati di sacrificare la democrazia turca in favore di una vera e propria dittatura.
A complicare lo scenario, lo stato di emergenza in vigore dall’agosto 2016, che rende difficile l’organizzazione di manifestazioni e dibattiti pubblici, in piazza come nei media, ormai da tempo sotto il torchio di una dura repressione che fa della Turchia il paese al mondo con più giornalisti in carcere.
Lo schieramento del “no” appare compatto nei due maggiori partiti d’opposizione, quello repubblicano CHP e quello della sinistra HDP, movimento al centro di un’ondata di operazioni repressive condotte dalle autorità giudiziarie, che accusano l’HDP di collusione con il PKK. Le operazioni contro il partito hanno condotto in carcere centinaia di esponenti locali e 12 parlamentari, inclusi i due co-leader Selahattin Demirtaş e Figen Yüksekdağ.
La base elettorale di questi due partiti, che hanno raccolto rispettivamente il 25 e 13% alle elezioni politiche del novembre 2015, non sarebbe comunque sufficiente a garantire la vittoria del “no”. È piuttosto all’interno degli schieramenti della destra turca che si combatte la vera battaglia per l’esito referendario.
Una questione a destra
Il partito ultra-nazionalista MHP si trova al centro di un vero terremoto, dopo che il leader Devlet Bahçeli è riuscito nel gennaio scorso a forzare la mano in parlamento e dare al governo il sostegno numerico necessario per far approvare gli emendamenti costituzionali. Nelle ultime settimane, tuttavia, molti parlamentari MHP si sono apertamente schierati a favore del “no” compresa la corrente interna che fa riferimento a Meral Akşener. Akşener è stata espulsa dall’MHP da Bahçeli dopo aver tentato di indire un congresso interno e acquisire la leadership del partito, ma oggi riesce a riempire le piazze di sostenitori pronti a votare contro la proposta referendaria.
Erdoğan e l’AKP, che sul voto nazionalista avevano puntato tutto, tanto da svendere il processo di pace turco-curdo proprio per ottenere l’appoggio politico della destra nazionalista, temono ora che la manovra potrebbe non portare ai risultati sperati, e tentano di correre ai ripari. Il presidente in persona è pronto a scendere in campo in un comizio a Diyarbakır il prossimo 1° aprile, con l’obiettivo di riavvicinare al partito di governo e al “sì” quei curdi conservatori che tradizionalmente formavano la base elettorale dell’AKP nel sudest, almeno fino all’esplosione del conflitto interno nel 2015.
Ma è anche al suo interno che l’AKP sta combattendo una dura battaglia. Secondo un’indagine dell’istituto statistico Konda, molti elettori tra l’elettorato più conservatore, che pure non esiterebbero a votare per il partito di governo in caso di elezioni politiche, non sembrano convinti della necessità di questa riforma costituzionale fortemente voluta da Erdoğan.
Strascichi diplomatici
Infine, ad urne già aperte, in Europa continuano strascichi di tensione diplomatica con la Turchia, dopo il durissimo scontro tra Ankara e i governi olandese e tedesco: un’indagine è stata avviata dalle autorità svizzere dopo che ad una manifestazione è stato esposto uno striscione raffigurante il presidente della repubblica turca, una pistola puntata alla sua tempia e la scritta “Kill Erdoğan”.
Le autorità turche hanno richiamato l’ambasciatore svizzero e un’indagine è stata avviata anche dalla procura di Istanbul: in quest’ultimo caso vengono ipotizzate le accuse di associazione terroristica, promozione della propaganda terrorista e insulto alla presidenza per i cittadini turchi che potrebbero aver partecipato alla manifestazione e si vedrebbero perseguiti in caso di rientro in Turchia.
Nel corso di un forum bilaterale turco-inglese Erdoğan ha inoltre dichiarato che dopo il referendum del 16 aprile potrebbe essere promosso un secondo referendum sul processo di adesione del paese all’Unione, lasciando la parola ai cittadini, in modo simile a quanto avvenuto in Inghilterra con la Brexit.
Tra l’altro la nuova costituzione turca, se approvata il 16 aprile, potrebbe di per sé entrare in conflitto con i criteri di Copenhagen, alla base dei negoziati di adesione all’UE, mettendo ulteriormente in forse le prospettive – già estremamente flebili – di una futura adesione di Ankara all’Unione Europea.
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