Reclusioni
Pec, Kosovo: la vita segregata di una famiglia di albanesi “traditori”. Un reportage dal Kosovo pubblicato dalla rivista Questo Trentino e ripreso da Osservatorio Balcani e Caucaso
E’ un’esplosione di corvi il cielo questa sera. O forse sono taccole. Si sente il loro stormire sempre più forte e poi come un’onda arrivano da dietro le schiene delle case, da su, da in alto e poi s’abbassano veloci sui tetti. E lì si quietano per alcuni attimi. Colorano i tetti di nero, i fili del telefono di sagome. E poi si alzano nuovamente ad un ordine sconosciuto, in uno scompigliato vorticare compatto. Non scendono tra lo stretto delle case, non si piegano tra i muri. Ma fanno ondulare i fili che s’intrecciano poco più in alto dei comignoli. Ondulano come le ombre alla luce della candela o di una lampada a gas sui muri di queste case, quando salta la corrente elettrica.
Tre ore con la luce e tre ore senza. L’alto palazzo sede dell’UNMIK è l’unico, con il suo grosso generatore, a subire quasi impassibile i giochi della corrente. Per tutti gli altri è un rapido abituarsi all’inevitabile. Qualche ora prima che il buio scenda e la luce artificiale aiuti a rischiarare le oscurità loro s’annunciano con i loro schiamazzi e da alti punti neri che infestano il cielo di morbillo s’abbassano fino a diventare un vorticare di ombre. Il cielo spento di fine pomeriggio annulla veloce il loro contrasto e cerca di tacere le loro voci.
Nei paesi attorno a Pec/Peja, città del Kosovo occidentale a poco più di trenta chilometri dal Montenegro, i ritmi rallentano e le ore trascorse senza luce non sono un dramma. Non vi è nessun ristorante che deve attaccare il generatore, nessun ufficio con staff internazionale che si lamenta per aver perso il documento sul quale stava lavorando al proprio computer.
Marjan vive assieme a due figlie e ad un figlio in uno di questi paesi, Milovanac, villaggio albanese nella regione di Pec/Peja alle porte di una delle uniche enclaves serbe rimaste nella zona, Gorazdevac. Anche il vecchio padre abita con loro ma è sempre chiuso in casa. Marjan è albanese ma la sua casa deve essere difesa dai militari italiani come fosse una chiesa ortodossa.
La casa di Marjan è circondata da un recinto alto circa due metri di rami ed assi intrecciate, un ampio cortile per le bestie dove i primi giorni di dicembre si sgozzano i maiali. Nel paesino serbo chiedono come stia Marjan, se vive sempre chiuso in casa o se a volte si fidi ad uscire. Gli albanesi non chiedono di lui, non ne vogliono sapere nulla. Marjan votava per il partito socialista di Milosevic. "Altrimenti non si prendeva lavoro" – dice lui. Ma la situazione era così per tutti. Marjan era amico dei serbi. Dicono nei paesi attorno di averlo visto andare in giro con una divisa militare. Lui dice di aver votato per Milosevic, ma di non aver mai indossato una divisa militare serba.
Nella sua casa tutti parlano almeno un po’ di italiano. Dopo un anno e mezzo con sei soldati italiani fuori dall’uscio è quasi inevitabile. I blindati si scorgono dai rami intrecciati del muro.
A casa di Marjan abita anche una ragazza albanese. Amica di famiglia, viene da Tirana dove ha studiato all’Istituto Don Bosco. Conosce molto bene l’italiano ed è per questa ragione a Pec/Peja, per trovare lavoro come interprete. "A dicembre sono scaduti i vari contratti, probabilmente riuscirò a trovare lavoro", ed intanto continua a leggere i fondi del caffè ad Emiliano. Succede anche questo in Kosovo, ciascuno con i suoi "Gastarbeiter".
Hanno appena sgozzato i due maiali più grossi. La carne distesa su di un telone di nailon all’interno di una baracca. Marjan solleva una coscia già ripulita e ci dice in italiano "prosciutto" sorridendo. Le sue figlie sono fuori a rimescolare un’enorme pentola all’interno della quale stanno facendo cuocere il grasso.
La luce della sera scende e le braci ardono forte. A volte le mani di Marjan o del figlio le risistemano, buttano dentro qualche altro pezzo di legna che immediatamente s’accende e viene tutto contornato dalla fiamma per poi pian piano inginocchiarsi e ricurvarsi verso il rosso ardente del letto in cui è stato gettato. Un militare entra da fuori e si siede anche lui vicino al fuoco. Subito guardato con occhi particolari dalla ragazza albanese. Scherzano, lei vuole essere accompagnata alla base il giorno dopo per fare una telefonata: "Ho la scheda, basta che mi fai entrare". Ogni sabato i militari organizzano una visita alla base per i bambini del posto. "E se mi metto la cartella e mi camuffo da bambina mi date un passaggio?" – scherza lei.
La notte è lunga, il soldato cerca qualche minuto d’evasione dalla noia. Il figlio di Marjan continua a riempirgli il bicchiere. Almeno farà meno freddo. Propone di portare un po’ di rakja anche agli altri. Meglio di no, insiste il soldato, meglio di no.
Non solo Marjan, ma anche le figlie sono recluse in quella prigione. A volte vengono accompagnate in chiesa: sono cattoliche, ma devono andare in giro sempre scortate. Mira di Gorazdevac le compatisce: "Sono giovani, hanno bisogno di andare in giro. Almeno noi qui nel villaggio possiamo spostarci da una casa all’altra. Loro non hanno libertà. Ciascuno ha bisogno della libertà". Lo dice accoccolata su di una sedia mentre le due figlie piccole ci guardano con occhi curiosi e contemporaneamente non distolgono l’attenzione da un cartone animato alla televisione. Lei, il cui spazio vitale va di pochi chilometri oltre il cancello di casa, fino ai check point della KFOR che controllano le entrate al paesino serbo, trova la forza di parlare della libertà degli altri.
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