Ratko Mladić: il processo è terminato, le ferite ancora aperte
Cosa si prova ad assistere al processo a Ratko Mladić dopo aver subito l’assedio della propria città, l’assedio di Sarajevo? Una riflessione in seguito alla conferma in appello della condanna all’ergastolo dell’ex capo militare dei serbo-bosniaci
(Pubblicato originariamente da Kosovo 2.0 l’8 giugno 2021)
Dopo quasi 26 anni da quando è stato per la prima volta incriminato dal tribunale internazionale dell’Aja, è stata confermata la pena a vita per Ratko Mladić.
Martedì 8 giugno la Corte d’appello del Meccanismo residuale per i Tribunali penali internazionali ha confermato la decisione arrivata in primo grado che aveva ritenuto Mladić colpevole del genocidio di Srebrenica, in Bosnia Erzegovina, così come di crimini di guerra e crimini contro l’umanità.
Il 78enne ex comandante dell’esercito serbo-bosniaco sarà ora trasferito in prigione dove rimarrà fino alla fine della sua vita.
Monitoraggio del processo
Avendo fatto parte dell’attività di ricerca del progetto ”Il Genere della Giustizia”, ho seguito il processo a Ratko Mladić da settembre 2013 fino alla fine del 2014. Il mio monitoraggio del processo è cominciato piuttosto tardi, ma ho avuto l’opportunità di assistere a testimonianze sia dei testimoni dell’accusa che della difesa.
Dato che il principale interesse nel progetto era analizzare le violenze sessuali connesse al conflitto, mi concentrai in particolare sulle testimonianze delle vittime di violenza sessuale e sui testimoni di queste violenze, così come mi occupai delle dinamiche di genere presenti nell’aula di tribunale.
Da femminista impegnata, le mie osservazioni non sono mai state mai neutrali. In aggiunta, essendo una persona che ha vissuto ed è sopravvissuta all’assedio di Sarajevo, non sono mai stata, e non potevo essere, un’osservatrice emotivamente distante: sono una di quelle tante persone che è sopravvissuta alla guerra; che sono state soggette a campagne di terrore senza fine e sono state soggette ogni giorno agli spari dei cecchini e al bombardamento arbitrario della città; sono parte di quelle persone sottoposte a crudeli e inumane condizioni di vita, costrette a vivere senza acqua, elettricità, riscaldamento, cibo, con ristretta e quasi inesistente libertà di movimento; che ebbero vite estremamente militarizzate imposte dall’alto visto che fummo costretti a vivere in guerra.
Nel contesto dei procedimenti contro crimini di guerra e dell’assedio di Sarajevo, noi – persone che hanno vissuto a Sarajevo durante l’assedio – siamo coscienti che ci furono pochi dei perpetratori diretti che saranno “consegnati alla giustizia”. Per noi, la maggior parte di loro furono e resteranno persone sconosciute che ci terrorizzavano e ci sparavano a distanza. È solo un caso se alcuni di loro, sospettati di crimini di guerra, hanno un volto. È accaduto ad esempio di recente a Sarajevo che grazie alle immagini di un documentario siano stati identificati dei cecchini. Ma, nessuno dei perpetratori diretti, sono finiti sotto accusa per aver mantenuto le persone residenti a Sarajevo sotto assedio e per averle terrorizzate ogni giorno.
Per la maggior parte di noi che abbiamo vissuto sotto assedio, le facce del terrore e dei crimini di guerra sono quelle che abbiamo visto in TV e che avevano il potere (politico o militare) di ordinare o fermare gli attacchi su di noi. In quel contesto, il processo a Mladić è stato importante per me a livello personale.
La distanza dell’Aja
Il mio arrivo per monitorare i processi al TPIJ nel settembre del 2013 fu anche la mia prima volta all’Aja. Tutto quello che trovai era nuovo e sconosciuto per me, non importa se l’Aja nella mente dei bosniaci come me si era stabilita come luogo simbolico della persecuzione dei crimini di guerra.
Infatti, nella comunicazione ordinaria, la prima associazione per i bosniaci ascoltando che qualcuno si trova all’Aja (in particolare nel distretto di Scheveningen) è che si trova nel centro di detenzione del TPIJ, nonostante le belle spiagge e le attrazioni turistiche dell’area.
Al contrario, mentre stavo camminando verso il TPIJ per il mio primo giorno di monitoraggio del processo, mi sono trovata a pensare a quante persone che vivono all’Aja sapessero che, nella città in cui vivevano, venivano perseguiti crimini di guerra (più tardi avrei scoperto che, a meno che un residente non fosse connesso alla grande sfera della comunità internazionale all’Aja, non c’era da aspettarsi che gli importasse qualcosa del fatto che in città si stessero giudicando crimini di guerra).
L’accusa
Il capo d’accusa iniziale contro Ratko Mladić fu emesso il 24 luglio del 1995 e successivamente emendato per 4 volte. Mladić venne infine accusato e processato per 11 capi di imputazione come comandante dell’esercito della Repubblica serba di Bosnia Erzegovina. I capi di imputazione includono: due accuse di genocidio; cinque accuse di crimini contro l’umanità; e quattro accuse di violazione delle leggi o costumi di guerra.
I crimini inclusi nei capi di accusa furono commessi tra il 12 maggio 1992 e il 30 novembre 1995 in luoghi di cui facevano parte Sarajevo, Srebrenica e 15 altri comuni in Bosnia Erzegovina.
Si legge solitamente nella letteratura riguardante la giustizia transnazionale che è importante per l’udienza pubblica raggiungere un pubblico più vasto possibile, così come è importante per la società affrontare il passato basandosi su fatti stabiliti. Ma, per andare all’Aja, fino a dicembre 2010, i cittadini della Bosnia Erzegovina, e della maggior parte della regione avevano bisogno di un visto – per i cittadini del Kosovo, il requisito rimane.
Significa che durante molti anni del processo – i primi 15 e mezzo dopo che il primo processo cominciò il 16 aprile del 1995 – non è stato possibile per i bosniaci accedere spontaneamente ai processi che erano aperti al pubblico. Anche dopo che il requisito del visto è stato rimosso, era costoso recarsi all’Aja. La maggior parte dei bosniaci semplicemente non poteva permettersi questo “capriccio”.
È vero che, il TPIJ è in primo luogo responsabile di stabilire le responsabilità penali e che la riconciliazione era soltanto un pensiero successivo, ma si deve riflettere se aver avuto più facile accesso alle udienze pubbliche avrebbe potuto avere come effetto concreto più opportunità di confrontarsi con il passato nella società bosniaca, generando dialogo pubblico, creando riconoscimento e prevenendo la negazione.
Aver pubblicato sul portale del TPIJ (certo, se si ha accesso a internet e si conosce l’inglese) tutte le sentenze, la trascrizione delle testimonianze, i report dei media e la diretta dei processi – e anche l’aver creato un dipartimento di sensibilizzazione – furono tutte iniziative con lo scopo di avvicinare i processi alle persone che vivono nella regione. Ma alla fin dei conti la distanza creatasi con l’aver collocato la corte al di fuori della regione non poté essere risolta con il successivo trasferimento di molti processi alle corti locali in Bosnia.
Tuttavia, ultimamente, ho cominciato a vedere questa distanza più come una distanza di classe: con i dipendenti del TPIJ come parte della classe privilegiata della comunità internazionale che avanzano nelle loro carriere, mentre le vittime erano lavoratori sfruttati il cui contributo (per esempio le testimonianze) furono usate per migliori prodotti “internazionali” e che poi vennero lasciate sole in un paese povero in una situazione post-conflitto.
Durante la maggior parte dell’anno e mezzo speso a monitorare il processo, ero seduta sola nella galleria destinata al pubblico. Quando altre persone erano presenti, erano principalmente studenti di diritto o diritto internazionale da tutto il mondo. Venivano in gruppi organizzati, ma anche soli. Anche molti ricercatori assistettero ad alcune delle udienze, così come giornalisti. Accadde spesso che alcune delegazioni (non necessariamente avvocati o attivisti per i diritti umani) vennero solo per mezz’ora e poi se ne andassero.
Qualche volta, a causa di interazioni con l’accusato e i suoi avvocati, sono arrivata a concludere che le persone sedute nella parte del pubblico fossero parenti o amici dell’avvocato o degli avvocati della difesa. In qualche occasione, ho notato gli stessi dipendenti del TPIJ seguire il processo.
Tuttavia, non ho mai notato nessuno che fosse parte della comunità dei sopravvissuti, persone che hanno subito la guerra in Bosnia Erzegovina.
La maggior parte delle udienze che ho visto erano di esperti citati dalla difesa, magari quindi durante le testimonianze dei sopravvissuti e dei testimoni diretti vi è stato un maggiore interesse da parte di persone colpite direttamente dal conflitto. Ma tutto ciò mi ha fatto portare a riflettere per chi fossero queste udienze.
Questo non è per criticare il lavoro del TPIJ. Molto è stato stabilito e raggiunto: molti di coloro i quali si sono resi responsabili di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio sono stati consegnati alla giustizia; molti fatti criminali commessi durante la guerra sono stati dimostrati; molte vittime hanno ottenuto una qualche forma di giustizia retributiva; la giustizia internazionale contro i crimini è avanzata; la violenza sessuale è stata considerata un crimine perseguibile; e ci sono stati tanti altri aspetti positivi di rilievo.
Tuttavia, noi in Bosnia ancora combattiamo con la negazione del genocidio e dei crimini di guerra e lascia un sapore amaro il fatto che la consapevolezza sui crimini di guerra che sono stati resi noti dal TPIJ non abbia mai propriamente raggiunto la società bosniaca.
Il passare del tempo
C’è un’altra questione, che si è riflessa anche sul caso Mladić, che ha condizionato come le conclusioni del TPIJ sono state recepite in Bosnia Erzegovina.
La maggioranza di coloro che erano stati ritenuti responsabili dal TPIJ per i crimini di guerra sono stati latitanti per numerosi anni. Il processo Mladić si è potuto avviare solo negli ultimi momenti dell’esistenza del TPIJ, quando si parlava già della sua chiusura.
Quando arrivai all’Aja nel settembre 2013, c’era solo un altro caso in aggiunta a quello di Mladić appena presentato dall’accusa – quello di Goran Hadžić. Gli altri due rimanenti erano quelli di Radovan Karadžić, la cui difesa doveva intervenire il mese successivo, e Vojislav Šešelj, che era in attesa della decisione della corte. Altri sette casi erano nella fase di appello.
Mladić venne arrestato e condotto davanti al TPIJ il 26 marzo 2011, quasi 16 anni dopo l’avvio del primo procedimento contro di lui e quasi 15 anni dopo che un mandato di cattura internazionale era stato emesso. Per molti anni è stato sotto la protezione di Belgrado, e nel corso del periodo in cui si nascondeva veniva celebrato come un eroe. Questo è continuato nel corso del processo fino ai giorni nostri.
Nel momento in cui venne portato dinanzi ai giudici, la speranza investita dai bosniaci nella giustizia retributiva venne ben presto sostituita dal malcontento, non solo per l’incapacità del TPIJ di arrestare Mladić e gli altri, ma anche per essersi concentrati sui perpetratori piuttosto che sulle vittime.
Il processo a Mladić si è svolto seguendo la strategia di completamento, ciò significa che intenzionalmente la lunghezza del processo è stata ridotta e ci si è concentrati solamente sulle accuse principali a lui rivolte.
Teatro militarizzato
Vi è stato un ulteriore elemento del TPIJ che ha alienato i processi per crimini di guerra dalle persone e dalla società alla quale dovevano rendere giustizia. L’impressione che continuavo a provare durante il periodo in cui stavo monitorando i processi al TPIJ era quello di un teatro militarizzato.
Il palazzo che ospitava il TPIJ era stato ridisegnato dopo essere stato precedentemente usato da un’azienda di assicurazioni. Da fuori, l’edificio non sembrava particolarmente simile a un teatro.
Tuttavia, la lobby con i suoi prominenti protagonisti (i giudici), le scale che portavano alla galleria pubblica, la corda che ti preveniva dall’entrare nella galleria prima che il processo cominciasse, lo spazio dedicato al materiale informativo (come informazioni riguardo al TPIJ stesso e i suoi risultati e volantini con informazioni sui casi), i tabelloni e i poster (come ad annunciare delle performance ma in realtà celebrando il TPIJ e il successo del diritto penale internazionale), i prodotti nel negozio del TPIJ, l’entrata per la stampa e le stazioni radio, i distributori automatici, le trasmissioni televisive in diretta dalle aule del tribunale, erano tutte rievocative di un auditorium contemporaneo.
Tuttavia, a differenza della maggior parte dei teatri, per avere accesso alla galleria pubblica, si doveva passare attraverso due scanner di sicurezza – uno all’entrata dell’edificio e l’altro all’entrata della galleria stessa.
Al primo scanner si doveva lasciare il telefono, siccome nessun strumento di registrazione era permesso nell’aula, così come la propria borsa (queste procedure di sicurezza possono essere diventate normali in altri aspetti delle nostre vite, ma non dovremmo accettarle senza critiche, – esse limitano le nostre libertà e potrebbero essere usate come un deterrente nell’assistere ad alcuni eventi, come seguire un processo).
Tra questi due scanner, a quelli che desideravano entrare nell’edificio, era chiesto di registrarsi all’accettazione. La guardia di sicurezza avrebbe scannerizzato la carta di identità, avrebbe posto la data e avrebbe dato un piccolo biglietto rosa. Era qualcosa che ricordava i vecchi biglietti per il cinema o il teatro e veniva richiesto a tutti coloro che – inclusi i lavoratori del TPIJ – volevano entrare nell’area riservata al pubblico.
I banchi del tribunale erano divisi dal pubblico da una tenda, che veniva alzata quando l’usciere annunciava l’entrata dei giudici e ordinava a tutti di alzarsi. Questo veniva ripetuto ogni volta che i giudici entravano e uscivano dall’aula con la mimica di uno spettacolo ben assortito, mentre una guardia controllava i biglietti di coloro che entravano negli spazi dedicati al pubblico.
Una volta che i giudici erano entrati in aula, lo spettacolo si svolgeva con procedure e testimonianze oculari.
Non c’era molta azione in aula, in quanto la maggior parte dell’attenzione era posta sul dialogo, su cosa veniva detto. La quiete era molto spesso disturbata da questioni periferiche al processo. Ogni mezz’ora le guardie che controllavano l’accusato – sempre armate – cambiavano: le due in entrata si sarebbero inchinate e dopo avrebbero cambiato posizione con quelle in servizio, che in cambio si sarebbero inchinate prima di uscire.
Occasionalmente il consulente della difesa avrebbe provato a parlare all’accusato, un usciere se ne sarebbe andato per prendere qualche mail o file, oppure il cancelliere si sarebbe alzato per leggere il numero assegnato all’ultima prova. Ma l’unica vera dinamica si creava intorno al dialogo.
Nel mezzo di tutto questo, le parole erano un duro promemoria, come a ricordare che i processi non sono spettacoli, ma procedimenti che stabiliscono fatti e responsabilità per i crimini a cui io e molti altri della Bosnia Erzegovina siamo sopravvissuti.
L’arresto
Ratko Mladić è stato arrestato il 26 maggio del 2011 a Lazarevo, un villaggio vicino a Zrenjanin, in Vojvodina, Serbia. È stato arrestato in una casa di proprietà di un suo cugino.
Per qualche tempo mentre si nascondeva, Mladić era vissuto sotto lo pseudonimo di Milorad Komadić.
Cinque giorni dopo il suo arresto, il 31 maggio, venne trasferito all’Aja su un aereo del governo serbo.
Il 4 luglio 2011, comparve per la prima volta in aula, dichiarandosi non colpevole.
Nonostante questo tribunale fosse diverso da una corte marziale, era impossibile non percepire il senso di militarizzazione dell’aula: le guardie armate, i vetri antiproiettile, il linguaggio militare e un’aula quasi interamente maschile. È vero che questo era un processo riguardante i crimini commessi durante la guerra e Mladić era accusato nel suo ruolo di leader militare, ma continuavo a chiedermi perché vi fosse una così evidente assenza di donne.
Alcuni degli esperti e specialmente i testimoni della difesa erano persone che avevano ranghi militari, ma perché la composizione dell’ufficio del giudice, il gruppo della difesa e dell’accusa era quasi interamente maschile?
Anche gli unici funzionari con cui interagivo regolarmente e le guardie di sicurezza erano prevalentemente uomini. Se presenti, alle donne erano dati ruoli ausiliari nell’amministrazione giudiziaria e nel gruppo dell’accusa o della difesa. Sembra che, ancora una volta, il buon vecchio sistema patriarcale di comprensione della guerra e l’esercito abbiano influenzato il processo, così che le donne non potessero essere viste come esperte o importanti testimoni per stabilire quali crimini vennero commessi.
Il piccolo spazio dato alle donne era quello di vittime, ma questo accadeva solo perché così le donne potevano essere totalmente ignorate in quanto tali. Durante la guerra in Bosnia le donne usarono lo spazio pubblico per discutere apertamente dei crimini a cui sopravvissero, tuttavia, non si poteva non avere l’impressione che l’aula fosse destinata solo all’ascolto degli uomini, mentre le donne venivano considerate testimoni meno attendibili.
La tecnologia come intermediario
La principale caratteristica degli interni dell’edificio erano le pareti di vetro.
Esse cominciavano e finivano all’entrata, percorribili solo da lavoratori accreditati e separavano la galleria pubblica dall’aula. Le pareti stavano a simboleggiare la “trasparenza” della corte con i loro vetri riflettenti, ma le barriere antiproiettile avevano l’effetto di isolare quelli che stavano nel mondo della corte dal mondo “ordinario” e prevenire i due mondi dal collidere.
La parete di vetro era anche insonorizzata. Gli auricolari usati dalle guardie trasmettevano quello che stava succedendo nell’aula, ma solo una volta che i microfoni erano accesi.
Il processo
Il processo a Mladić cominciò il 16 maggio 2012 e l’arringa si tenne tra il 5 e il 15 dicembre 2016.
In questi quattro anni e mezzo vi furono 530 giorni di processo e vennero ascoltati 591 testimoni. Di questi, 377 testimoni apparirono davanti alla corte.
Quando il giudizio venne pronunciato il 22 novembre 2017, Mladić venne considerato colpevole di 10 capi d’accusa, incluso il genocidio a Srebrenica. Egli fu condannato alla prigione a vita. Appello alla sentenza della camera di primo grado venne presentato sia dall’accusa che dalla difesa il 22 marzo 2018.
L’8 giugno del 2021, la Camera d’Appello del Meccanismo Residuo Internazionale per il Tribunale Penale ha confermato la sentenza della camera di primo grado del TPIJ.
Come nelle altre parti del mondo, la tecnologia ha giocato un ruolo significativo durante le udienze, non da ultimo nell’intermediazione tra l’aula e la galleria destinata al pubblico: chiunque parlasse in aula doveva farlo direttamente nel microfono e quelli che volevano sentire (e comprendere) avevano bisogno degli auricolari, con la possibilità di selezionare l’audio direttamente dell’aula del tribunale oppure la traduzione simultanea.
I processi non sarebbero stati portati avanti senza la traduzione simultanea. Se infatti ci si poteva aspettare che i legali e gli amministrativi parlassero fluentemente in inglese, questo non era possibile né per i testimoni né per gli imputati.
Inoltre, la tecnologia ha permesso un rapido accesso pubblico ai documenti della corte e ha fatto in modo che gli atti processuali fossero velocemente disponibili. Tuttavia questi ultimi sono stati messi a disposizione solo in inglese e francese, non nelle lingue parlate nei paesi da cui le vittime provenivano. Questo ripropone ancora la domanda riguardo a chi fosse realmente dedicato il TPIJ.
Parallelamente al sistema audio, c’era il sistema video e di trasmissione, con telecamere poste sia nell’aula che nella galleria pubblica. Anche se era possibile vedere l’aula attraverso la parete di vetro, televisori erano posti all’estremità di ogni vetrata. La trasmissione era focalizzata su qualsiasi persona stesse parlando in quel momento, ma anche i documenti pubblici discussi in aula erano spesso mostrati anche negli schermi.
I video venivano trasmessi dai televisori posti nell’atrio della corte e sul sito del TPIJ – entrambi con un ritardo di 30 minuti. Per la maggior parte delle persone nei paesi colpiti è stato solo attraverso questa tecnologia che ha avuto accesso ai processi.
Per concludere
Durante il primo giorno in cui seguii il processo nel 2013, mentre camminavo verso il tribunale, riflettei su come mi sentivo. Riconobbi di non sentirmi a mio agio al pensare che avrei visto Mladić in carne ed ossa. Per me era il malvagio visto in TV che influenzò la mia vita reale. Ora stavo andando a vederlo realmente.
In qualche modo temevo di vederlo oppure temevo il potenziale trauma che poteva crearmi. Era dietro le sbarre e dopo il giorno d’udienza sarebbe stato riportato in prigione, mentre io potevo camminare liberamente. Ciononostante mi sentivo strana.
Non importava quanto potessi pretendere di non essere influenzata dal vedere il processo, il fatto era che la mia vita era stata significativamente affetta dalle azioni, dagli ordini militari e dalle decisioni che Mladić prese.
Durante i quattro anni vissuti sotto assedio pensavo a quale potesse essere la punizione più appropriata per Mladić e gli altri. Ero in qualche modo tra i “privilegiati”, in quanto non subì danni fisici durante la guerra e non persi nessun membro della famiglia, ma persi amici e vissi sotto la costante paura della morte.
Vedere Mladić è stato strano. Quando la tenda venne alzata non lo guardai – guardai solamente l’aula. Una volta notato, non provai nulla. Continuai a pensare al perché doveva essere traumatico per me, quando in realtà doveva essere traumatico per lui. Mi ricordai di nuovo che in qualsiasi momento io potevo alzarmi e andarmene – lui non poteva.
Dato il vetro divisorio tra l’aula e il pubblico, non condivisi la sua stessa stanza. Il vetro rievocava le immagini dei due monitor nella galleria pubblica che a volte mostravano i primi piani della sua faccia.
Stavo pensando a quanto fosse duro per le vittime andare nella sua stessa stanza e testimoniare. Che trauma per loro non solo essere in presenza dell’accusato ma anche dover rivivere tutte le esperienze più traumatiche della loro vita!
Dopo alcuni giorni di monitoraggio del processo mi sono abituata a vederlo nell’aula. Seguii il processo da esperta, da persona che aveva già assistito a molti processi alla corte della Bosnia Erzegovina. Raccolsi i miei appunti e feci un’analisi. Tuttavia, assistere alle testimonianze della difesa fu particolarmente impegnativo.
Nel mio lavoro precedente avevo già vissuto il trauma delle vittime davanti alle testimonianze della difesa.
Ma venni ancora una volta colta di sorpresa dai miei traumi in quanto consapevole che stavo guardando la persona che comandava le forze armate che mi sparavano contro spiegare quegli eventi in modo completamente diverso da tutto quello a cui ero sopravvissuta. Ed ho avuto emozioni tumultuose nel vedere un compagno di scuola delle superiori comparire come testimone della difesa. Prima che avvenisse non sapevo che il mio compagno di scuola era tra quelli che si trovavano sopra Sarajevo, sparando alle persone che vivevano sotto assedio.
Guardare indietro all’esperienza di aver assistito al processo di Ratko Mladić mi dà sentimenti contrastanti.
Sono una delle molte persone sopravvissute all’assedio di Sarajevo che non comparirà davanti alla corte come testimone-vittima in nessuno dei processi riguardanti la guerra, eppure attraverso il mio impegno professionale, mi è stato possibile almeno seguire il processo di uno dei maggiori responsabili dei crimini che mi coinvolsero personalmente.
So che sono una delle poche persone che leggerà le sentenze e analizzerà le trascrizioni. La maggior parte dei bosniaci si creerà le proprie opinioni guardando i titoli nei media o ascoltando le dichiarazioni dei politici.
La sentenza finale per il caso di Mladić sicuramente sarà un’eredità importante per il TPIJ e un passo significativo nello sviluppo del diritto penale internazionale, ma osservando la situazione in Bosnia Erzegovina, dove certe persone continuano a celebrare questo criminale e a farne un eroe, ci si deve chiedere se le cose potevano essere state fatte in modo diverso.
Saranno stati la distanza del tribunale dalla Bosnia Erzegovina, l’arresto tardivo e la corte militarizzata dove il protocollo è più importante della soddisfazione delle vittime, ad aver lasciato spazio per la glorificazione di criminali di guerra come Mladić?
Sicuramente è importante che la sentenza finale sia arrivata, anche se tardi, ma alcune lezioni devono essere imparate – almeno per il futuro – su quanto sia importante condurre tempestivamente processi per i crimini di guerra per essere in grado di comunicare i fatti a una società che si sta rialzando dal conflitto.
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