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Ratko Mladić all’Aja

Un po’ più vecchio ma con lo stesso piglio arrogante di un tempo. “Io sono il generale Ratko Mladić, tutto il mondo sa chi sono!”. Dopo l’arresto del 26 maggio scorso, l’ex generale accusato di genocidio si è presentato oggi davanti ai giudici dell’Aja per la prima udienza. La cronaca dall’aula del tribunale

03/06/2011, Tomas Miglierina - L'Aja

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“E’ solo invecchiato, ma è rimasto lui. Arrogante, maleducato. Come se fosse fiero del suo crimine, o non può mostrare che si vergogna”. Kada lo ricorda bene, il generale Rakto Mladić, mentre rassicurava uomini, donne e bambini. “Era cosi felice, nella sua uniforme con le maniche corte. Andava su e giù da tutte le parti, offriva cioccolata ai ragazzi che poi avrebbe fatto uccidere”. Kada è una madre di Srebrenica; nei massacri successivi alla caduta della città in mani serbe ha perso marito e figlio, oltre a vari cugini della sua famiglia allargata.

“Sono il generale Rakto Mladić”

L’uniforme, questa mattina all’ Aja, Rakto Mladić non ce l’ha. Indossa invece un completo grigio e una cravatta a pois. Sembra che avesse espresso il desiderio di presentarsi in divisa, ma è una voce non verificata. Ad ogni modo, tecnicamente, è un generale in pensione, il grigioverde deve tenerlo chiuso nell’armadio. Il signor Rakto Mladić è un po’ dimagrito, ma effettivamente non sembra cambiato più di quanto sedici anni cambino chiunque. La voce è certo più debole e trascinata di quanto ci si potrebbe aspettare, quando il giudice Alfons Orie gli chiede di dichiarare le proprie generalità. Ma lui non è cambiato e risponde – e sono le sue prime parole pubbliche dopo sedici anni – “Sono il generale Rakto Mladić”.

Tra le fila del pubblico l’atmosfera è pesante. Oggi le madri di Srebrenica sono meno numerose che quando comparve Radovan Karadžić, i giornalisti, invece, lo sono di più: quando Karadžić venne portato qui era fine luglio, anche i giornalisti vanno in vacanza. Le madri di Srebrenica invece hanno sempre meno soldi per viaggiare, e alcune hanno ormai anche raggiunto i figli nell’aldilà. “Sarebbe stato molto, molto meglio per noi se l’avessero preso almeno dieci anni prima”, ammette Zumra Sehomerović, che a Potočari in quel luglio del ‘95 vide per l’ultima volta suo marito;  poi gli uomini furono separati dalle donne, alla presenza di Mladić in persona.

Il giudice chiede all’imputato se ha ricevuto l’atto d’accusa in una lingua a lui comprensibile. Mladić si confonde (una messinscena, tutti questi equivoci?), spiega di aver ricevuto tre faldoni ma di non avere letto o firmato nulla. Poi, quando gli domandano se desidera la lettura integrale in aula dell’atto d’accusa (37 pagine), risponde: “Non ne voglio sentire nemmeno una lettera”. Il giudice procede comunque ad una sommaria elencazione degli undici capi di imputazione che la procura ha mantenuto nell’ultima versione dell’atto di accusa. Allo scopo di costruire un caso snello e facilmente gestibile, che possa concludersi in una tempistica ragionevolmente contenuta, Brammerz e i suoi collaboratori hanno sfrondato i rami meno rilevanti o più difficili da dimostrare. Una decisione non facile, che di fatto equivale a fare una cernita tra il dolore delle vittime: alcune delle testimonianze raccolte dagli inquirenti non arriveranno mai alle orecchie dei giudici, per quel dolore non ci sarà nessuna corte ad ascoltare.

I capi d’accusa

La procura accusa l’imputato di avere condotto, in concorso con altri , una “impresa criminale complessiva” dall’ottobre del 1991 al novembre del 1995, allo scopo di rimuovere permanentemente la popolazione non serba dalle aree di territorio della Bosnia Erzegovina rivendicate come serbe. Altre tre “imprese criminali specifiche” riguardano: il bombardamento e gli attacchi dei cecchini contro la popolazione di Sarajevo, allo scopo di seminare il terrore; l’eliminazione dei musulmani dopo la caduta dell’enclave di Srebrenica e la presa in ostaggio dei caschi blu nel luglio del 1995, allo scopo di impedire i raid aerei della NATO contro le postazioni di artiglieria serbe. In tutto due imputazioni per genocidio (pulizia etnica di varie municipalità nel 1992 e strage di Srebrenica) e nove per crimini di guerra o crimini contro l’umanità. Mladić ascolta impassibile, scuote la testa, a volte sorride al pubblico o lo saluta con la mano. Quindi prende la parola. Non contesta la legittimità del tribunale, ed è una sorpresa, forse lo farà dopo. Chiede invece tempo: “Signor giudice, lei è un po’ più vecchio di me. Vorrei ricevere quello che lei ha letto, queste accuse rivoltanti contro di me, leggerle bene, rifletterci con i miei avvocati. Mi serve più di un mese per queste parole mostruose dell’accusa, che io non ho mai nemmeno sentito”. Ma le regole di procedura non ammettono eccezioni: se entro 30 giorni l’imputato non si esprime, i giudici introdurranno in suo nome undici dichiarazioni di non colpevolezza. L’udienza sta per essere aggiornata, quando Mladić prende l’iniziativa: prima chiede e ottiene dieci minuti di pausa, per consultarsi con l’avvocato che la corte gli ha assegnato in attesa di conoscere le sue intenzioni; poi domanda un passaggio a porte chiuse, per parlare del suo stato di salute; audio e video vengono interrotti; infine la seduta pubblica riprende, e a questo punto l’imputato torna virtualmente ad indossare la divisa cui tiene tanto. Esordisce: “Io non ho paura né dei giornalisti né del pubblico, di qualunque nazionalità sia”, e si volta verso le madri di Srebrenica.

Sono stato dentro quell’aula undici anni fa, per un’intervista a Carla Del Ponte. Lo spesso vetro che divide la parte destinata al pubblico da quella occupata dalle parti processuali è più scuro da questo secondo lato. Mladić, in altre parole, vede solo delle ombre; le madri di Srebrenica, invece, lo vedono benissimo. “Ho difeso il mio popolo e la mia terra, non ho difeso Ratko Mladić. Ora davanti a voi si difende Ratko Mladić. Signor giudice, tutti mi hanno trattato correttamente. Ma questa procedura mi innervosisce, per la mia salute dico. Avrei preferito che mi uccidesse un poliziotto, in Serbia o in America. Io ho difeso il mio popolo e la mia terra. Non ho ucciso i musulmani in quanto tali, o i croati in quanto tali. Non uccido né in Libia né in Africa”. Alfons Orie lo interrompe, ma lui riprende. “Voglio che questo processo vada avanti, anche se non so quanto durerà, lo sa soltanto Quello di Sopra. Io ho difeso il mio popolo e la mia terra e anche adesso, in questa condizione, difendo la mia terra e il mio popolo”.

 “Mister Mladić”, come lo chiama sempre il giudice, si è ormai completamente rivestito con la divisa che aveva a Srebrenica, a Foča o sulle colline di Sarajevo, anche se continua a trascinare le frasi e a mangiarsi le parole. Ma per essere sicuro che tutti l’abbiano capito, fa un’ultima osservazione, rivolto al presidente della corte: “Non voglio che le guardie mi guidino quando cammino, come fossi un cieco. Cammino come posso e quando non posso sono pregate di tenermi. Ma che non mi guidino. Io sono il generale Ratko Mladić, tutto il mondo sa chi sono!”. Il giudice Orie gli ricorda che sul banco degli imputati non c’è la Serbia, ma il signor Mladić, un individuo. E quindi aggiorna la seduta. Il generale può riporre nuovamente la divisa nell’armadio. Fino al 4 luglio.

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