Rada Iveković: tutte le culture sono incomplete e di conseguenza interdipendenti
In questa intervista per il settimanale Novosti la filosofa Rada Iveković parla del suo nuovo libro dedicato alle varie forme di traduzione, intese come veri e propri esercizi di trasgressione delle formule imposte, interrogandosi sulla possibilità di pensare ciò che in determinate circostanze sembra politicamente impensabile
(Originariamente pubblicato da Novosti , il 12 marzo 2022)
Uno dei concetti attorno a cui ruota il suo nuovo libro, intitolato Politike prevođenja [Politiche della traduzione], è quello di giustizia cognitiva. Ci può spiegare meglio questo concetto?
La traduzione politica è una disciplina a sé stante e le sue teorie hanno una dimensione politico-epistemologica. Siamo tutti “statizzati” (étatisés, come dice Pierre Bourdieu), quindi siamo sottomessi ad un ordine gerarchico. Serve un po’ di anarchismo per stravolgere questo stato delle cose (come propone Gandhi, ma anche la filosofa Catherine Malabou). Non mi riferisco però all’anarchismo terrorista, bensì ad un pensiero sociale anarchico e alla cooperazione dal basso (concetti proposti da Benedict Anderson). L’autogestione operaia fu pensata proprio in quest’ottica, come una forma di resistenza ad un ordine statale e giuridico prestabilito, ossia imposto da entità già istituite. L’uguaglianza (di genere, ma anche l’uguaglianza tra caste, classi sociali, popoli, etc.) non è ancora stata raggiunta, pur essendo, nella maggior parte dei paesi, sancita dalla legge. È importante poter appellarsi alla legge, ma anche questa è una forma di istituzione.
La traduzione, con il rischio del pensare che comporta, è capace di sottrarsi al carattere prestabilito delle istituzioni. Le politiche della traduzione agiscono anche all’interno di una stessa lingua (nel passaggio da una concezione del mondo all’altra, etc.), nella negoziazione su un determinato progetto e sui suoi risultati. Il concetto di giustizia cognitiva (elaborato da Bonaventura de Sousa Santos, e da noi da Radomir Konstantinović, pur avendo quest’ultimo utilizzato un’espressione diversa) riconosce la disuguaglianza di fronte all’istituzione della conoscenza in una società e in uno stato che determinano ciò che è consentito pensare e scrivere. La traduzione, per fortuna, non offre alcuna garanzia (né tanto meno alcun “filtro”, come spiega Naoki Sakai ), altrimenti vivremmo in un mondo totalitario. Questi sono alcuni dei temi che affronto nel mio nuovo libro, originariamente scritto in francese, mentre nella postfazione all’edizione croata , intitolata O jeziku izvan sebe [Sulla lingua fuori di sé], originariamente pubblicata sul portale Peščanik, rifletto anche su alcune questioni linguistiche e politiche legate al contesto post-jugoslavo.
Leggendo il suo libro non si può che pensare alle giovani generazioni in diverse parti del mondo che sembrano convinte che dovranno lavorare per tutta la vita, senza mai ricevere uno stipendio adeguato e senza riuscire ad accedere alla pensione. I giovani spesso non hanno nessuno con cui parlare delle loro preoccupazioni, e questo sembra essere il loro principale problema. Perché oggi, nell’era della comunicazione totale, facciamo così tanta fatica a capirci?
Cos’è la comunicazione totale se non una comunicazione totalitaria? Proprio perché temiamo di non riuscire a raggiungere la pensione, dobbiamo pensare e impegnarci per costruire un mondo diverso, dando vita ad una rivoluzione epistemologica. In un mondo predefinito molte cose risultano impensabili. Ed è qui che entra in gioco la traduzione, come una forma di mediazione tra costruzione e decostruzione della dottrina dominante, sia che si tratti di una dottrina dello stato, una dottrina ortografica, etc.
Nel suo libro lei parla anche dei pericoli della globalizzazione e della risposta “suicida” con cui i nazionalismi particolaristici e retrogradi, nei Balcani e non solo, cercano di far fronte alla globalizzazione. Ritiene che oggi esista un pensiero che lascia intravedere la possibilità di una terza via?
Bisogna sempre cercare una via di mezzo tra due estremi. La Jugoslavia, insieme ad altri paesi, aveva creato il Movimento dei non allineati, aprendo così una terza via (come spiega Tvrtko Jakovina). Dobbiamo ancora imparare dall’esperienza dei Non allineati, ma anche dagli errori commessi dalla Jugoslavia durante quell’esperienza. Quello dei non allineati fu un movimento progressista che però finì per indebolirsi a causa di una cattiva istituzionalizzazione. Anche il progetto del “Nuovo ordine economico” e del Terzo mondo lasciava ben sperare. Bisogna saper apprezzare anche “la storia inutile” (come l’ha definita Slobodan Šnajder) che racchiude diverse vie alternative mai realizzate o addirittura finite per essere bandite. Tra “le terze vie” che continuano a persistere ci sono anche i femminismi. Il femminismo non è una guerra contro gli uomini, bensì una lotta, all’interno di un sistema patriarcale, per l’emancipazione sia delle donne che degli uomini al fine di superare il binarismo maschio-femmina, perché di generi ce ne sono più di due.
Sembra che l’Europa, “generatrice della modernità” a cui si è sempre ispirato il mondo intero, oggi faccia una gran fatica a rendere credibile il suo ruolo di forza modernizzatrice. C’è chi ritiene che il ruolo civilizzatore dell’Europa sia ormai svuotato di senso, ma c’è anche chi pensa che l’Unione europea sia troppo disunita o che persino possa crollare. Lei come vede l’attuale situazione in Europa?
Sono ormai trent’anni che alcuni filosofi si impegnano per dare vita ad una svolta epistemologica . Oggi assistiamo ad una relativizzazione del concetto di modernità. In passato c’erano due forme di modernità – la modernità socialista e quella capitalista – simili tra loro, ma reciprocamente manchevoli, e tutte e due racchiudevano in sé una moltitudine di varianti. La reputazione di cui godevano questi due fenomeni fu gravemente danneggiata con l’emergere del loro carattere repressivo. La modernità storica comportò una brutale occupazione e sottomissione di interi paesi, trasformati in colonie, e il conseguente saccheggio delle materie prime e lo sfruttamento delle popolazioni locali. Non si può andare fieri della modernità europea ignorando l’oppressione, il colonialismo, la caccia alle “streghe” e alle donne in generale, la tratta degli schiavi dall’Africa (ne parlano Silvia Federici e Klaus Theweleit). Come spiega De Sousa Santos, tutte le culture sono reciprocamente manchevoli e di conseguenza interdipendenti. Nessuna cultura può essere considerata “migliore” delle altre.
Per quanto riguarda l’Unione europea, è vero che si è spesso dimostrata disunita, ma l’aggressione di Putin all’Ucraina ha rafforzato non solo il popolo ucraino, ma anche l’UE e la Nato. A differenza del Patto di Varsavia, la Nato non fu sciolta quando giunse il momento di farlo. Quando scarseggia il pensiero politico si tende a ricorrere a schemi binari – pro e contro.
Ritiene valida l’idea secondo cui la percezione del modello di civiltà europea come superiore a tutti gli altri – un modello che osserva l’Altro con diffidenza e sospetto ed è quindi completamente estraneo all’idea di una fraternità cosmica come quella di cui parla il poeta Tin Ujević – sia una delle caratteristiche intrinseche della cultura europea?
L’Europa crede ancora nel mito di se stessa, un mito che ignora lo sfruttamento delle donne, dei popoli e delle terre conquistate. Questo mito ha preso piede anche nei nostri paesi, situati alla periferia dell’Europa, che non hanno mai colonizzato alcun paese lontano, ma hanno spesso tentato di sottomettere i paesi vicini – come dimostra il caso del Kosovo – e “le proprie” donne. Ogni potere – come sostiene Aníbal Quijano – è potenzialmente coloniale. Quindi, dobbiamo lottare per l’uguaglianza sia a livello globale che locale.
Uno dei concetti che lei ripropone nel suo libro è quello di “caos globale”. L’idea, a mio avviso ingenua, della “fine della storia” e la filosofia del “tutto va bene” appaiono svuotate di qualsiasi significato di fronte ai grandi disastri della nostra epoca. Quali fattori dobbiamo tenere in considerazione quando parliamo del grande caos del mondo?
Per quanto riguarda la mia generazione, la confusione cognitiva – da non confondere con il caos esterno – iniziò con la fine della Guerra fredda (1945-1989). Le persone, su entrambi i lati del Muro di Berlino, rimasero senza alcun punto di riferimento. Forse l’epoca iniziata nel 1989 si sta avvicinando alla fine, come suggeriscono le guerre civili e altri conflitti in corso nei paesi post-socialisti. Quel trionfalismo occidentale che ha saputo essere così convincente è ormai scomparso, trasformandosi in un trionfalismo di facciata che l’Occidente continua a sfoggiare.
Siamo entrati nella “transizione” post-socialista impreparati dal punto di vista epistemologico. Il pensiero di Radomir Konstantinović, soprattutto il suo libro Filozofija palanke [La filosofia del villaggio], è di fondamentale importanza per comprendere questo fenomeno. Le cosiddette “verità assolute” precludono ogni forma di pensiero. Lo scontro tra la Grande Russia, da una parte, e gli Stati Uniti e l’Europa dall’altra a cui assistiamo non è altro che un tentativo di distruggere l’idea di un mondo più complesso, multipolare. La Cina, da sempre estranea alla logica del bipolarismo, ha i suoi piani e cerca di capire come evolverà la situazione, mentre il Sud globale aspetta impotente.
Nel suo libro lei parla anche dei pericoli insiti nell’idea di una società basata sull’ideologia nazionalista. Ritiene che sia possibile far convivere, nello spazio della modernità, l’attaccamento alla tradizione e il sentimento patriottico, inteso come amore verso la propria comunità, con le aspirazioni e le identità plurime?
Quello “spazio della modernità”, ossia della palanka, non esiste più. Eviterei anche di utilizzare termini come “tradizione” e “patriottismo” perché non sono altro che eufemismi per indicare il nazionalismo. In Francia ogni due giorni e mezzo una donna viene uccisa perché è donna. E com’è la situazione nei paesi ex jugoslavi? Nell’antica Cina i piedi delle donne venivano fasciati in nome della tradizione. In Europa e nelle Americhe ancora nel XVIII secolo le donne venivano bruciate, sempre in nome della tradizione, perché considerate streghe, e la stessa sorte toccò ai popoli colonizzati. Ed è per questo che – come spiegano Silvia Federici e Dubravka Ugrešić – il femminismo e l’anticolonialismo sono due espressioni di una stessa lotta.
In Africa le donne venivano sottoposte all’escissione del clitoride in nome della tradizione. Per non parlare dei femminicidi commessi in Messico e nella Repubblica Democratica del Congo, delle violenze contro le ragazze in Mali, delle “vergini” stuprate in Sudafrica per “guarire” dall’Aids. In tutto il mondo le donne vengono spossessate, se non altro simbolicamente, del potere di decidere se avere figli o meno.
Per quanto riguarda l’identità, è un concetto che contribuisce all’omogeneizzazione. Il nuovo capitalismo ha comportato una ritradizionalizzazione, ossia una ripatriarcalizzazione della società, come spiega Lilijana Burcar . Il futuro dipenderà dalle politiche della traduzione che dovranno essere negoziate.
Ritiene che la recente storia dell’Europa, e del mondo intero, possa essere definita come un continuo susseguirsi di espressioni di realpolitik e di guerre in cui il periodo di prosperità vissuto dall’Europa dopo il 1945 si è rivelato un mero intermezzo, prima che scoppiassero nuovi disastri economici, politici e militari?
Non credo che la prosperità europea dopo il 1945 possa essere considerata “un mero intermezzo”. È un periodo da cui si possono trarre importanti lezioni. Ma invece di imparare dal passato, ci siamo limitati a creare istituzioni e impartire un’educazione nazionale, una tendenza del tutto anacronistica nell’epoca della globalizzazione. Abbiamo tratto molti vantaggi dalla modernità socialista: dopo la Seconda guerra mondiale la Jugoslavia vantava un tasso di crescita molto alto (il secondo più alto al mondo nel periodo compreso tra il 1957 e il 1960.). È vero che la Jugoslavia aveva commesso certi errori politici, ma in quel periodo erano emerse anche alcune problematiche più ampie, che non dipendevano da noi. Ad esempio, alcuni concetti, come quello di “progresso”, non venivano mai messi in discussione.
Un altro tema importante della sua opera è il femminismo in ex Jugoslavia e nel resto del mondo. Come si è evoluto il pensiero femminista nel corso del XXI secolo? Quali sono i principali risultati raggiunti dal femminismo negli ultimi vent’anni?
Il tema del mio nuovo libro non è il movimento femminista, bensì la politica della lingua e della traduzione. Mi interrogo su come si possa pensare ciò che in determinate circostanze sembra politicamente impensabile e che il discorso egemonico tende a nascondere. Quindi, si tratta di individuare varie forme del pensiero alternativo, ossia destitutivo, intese anche come forme di resistenza contro una rappresentazione definitiva del mondo, contro l’idea della “fine della storia”. Anche le donne sono detentrici di un potere destituente . Le forme di femminismo sviluppatesi nella nostra regione, come atti di resistenza contro l’istituzionalizzazione dei meccanismi di consolidamento dello stato e della nazione, sono tra gli esempi più riusciti di azioni sociali e politiche, costruttive e democratiche, dal basso.
Oggi nell’Europa occidentale il femminismo è accettato come un ideale comune. Il fatto che il principio di giustizia di genere, così come altre forme di giustizia, sia sancito dalla legge rappresenta un importante passo in avanti, ma c’è ancora molto da fare. I femminismi latinoamericani contemporanei suscitano particolare interesse. Si tratta di movimenti, sorti durante le dittature, in cui la lotta contro la violenza si intreccia con diverse istanze politiche, compresa l’idea dello sciopero generale, nonché il tentativo di ridefinire il concetto di cura e quello di riproduzione della vita al fine di superare i ruoli di genere predefiniti (e con essi il binomio produzione-riproduzione della vita). Stiamo imparando dal femminismo latinoamericano che si diffonde da sud verso nord, al di fuori delle istituzioni, così come stiamo imparando dai movimenti Black Lives Matter e Me Too. Oggi ogni filosofo serio legge le opere di Judith Butler, Chantal Mouffe e Catherine Malabou, ma anche quelle dei nuovi filosofi africani che traggono ispirazione dall’esperienza dei movimenti di cui sopra.
Nel suo libro lei riflette anche sulla sessualità. Ritiene che le varie forme di lotta, in cui la sessualità (maschile) spesso viene utilizzata come arma di guerra, possano lasciare spazio all’amore?
È inaccettabile, dal punto di vista culturale e politico, associare la violenza all’amore. Il fenomeno della violenza di genere, sia in tempo di guerra che di pace, resta ancora un problema irrisolto. È scandaloso che le élite politiche e la società in generale ancora oggi considerino la violenza sulle donne come un fatto casuale. Si tratta di un fenomeno storico strutturale su cui poggiano lo stato e la società (patriarcali). Questa verità però risulta “intraducibile” in una società patriarcale a causa della struttura stessa della conoscenza e del pensiero. Eppure quasi nessun uomo resta indifferente quando sente dire che gli uomini picchiano e uccidono le donne. Non intendo dire che tutti gli uomini picchiano e uccidono le donne, ma che il sistema (sociale, linguistico, etc.), sempre basato su un paradigma maschile, sostiene gli uomini qualunque cosa facciano, li difende collettivamente, anche se, ripeto, non tutti gli uomini si sono macchiati di reati contro le donne. Durante una manifestazione femminista a Parigi alcuni uomini hanno sventolato uno striscione che recitava: “Smettiamo di ucciderle”. Tuttavia, la partecipazione degli uomini alla lotta per l’uguaglianza di genere è ancora un fenomeno isolato.
Sembra che oggi, nell’epoca del dominio dei giganti economici, tecnologici e politici globali, i semi di resistenza possano nascere solo in veri e propri ghetti?
Il ghetto è il luogo dove un determinato gruppo sociale viene rinchiuso da parte del gruppo dominante così da non poter interagire con altri gruppi. La resistenza può nascere all’interno di un ghetto – come accaduto nel ghetto di Varsavia durante la Seconda guerra mondiale – ma affinché ciò accada è necessario che il ghetto trovi alleati esterni. Inoltre, è necessario creare nuove alleanze tra donne e uomini. Le nuove e radicali idee politiche nasceranno da alleanze inaspettate tra movimenti sociali e operai antisovranisti e antinazionalisti, alleanze che dovranno includere anche donne, migranti e soggetti percepiti come diversi, altrimenti falliranno.
Di fronte ai grandi conflitti politici e militari a cui assistiamo si ha l’impressione che sia in corso un vero e proprio scontro culturale. Crede che un giorno riusciremo, per parafrasare il sogno di Martin Luther King, a convivere pacificamente, rispettando gli altri tanto quanto se stessi?
Sì, dobbiamo riuscirci. Non si tratta però di uno scontro culturale, questa è una tesi diffusa dai nazionalisti! Tendenzialmente, ogni cultura è aperta e inclusiva, si nutre di esperienze altrui perché è per definizione incompleta. Il discorso sullo scontro tra culture non è altro che un incitamento alla guerra.
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