Tipologia: Intervista

Tag: MFRR

Area: Europa

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Raccontare la sorveglianza: l’esperienza giornalistica di Omer Benjakob

Il giornalista investigativo Omer Benjakob, membro della redazione della newsletter di sicurezza informatica NatSec+ per il quotidiano Haaretz, parla a OBCT/MFRR delle sfide giornalistiche legate al settore della tecnologia di sorveglianza in Israele, uno dei paesi che più ha sviluppato questo tipo industria

16/10/2023, Dimitri Bettoni -

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Perché avete deciso di dedicare una newsletter a sicurezza e sorveglianza informatica?

In generale, da molto tempo i media si occupano di tecnologia nel modo sbagliato, come cultura geek o in ottica finanziaria. In Israele ancora di più, perché è una nazione ossessionata dalle start-up. La nostra idea è consolidare l’attenzione sulla tecnologia in una prospettiva politica. Siamo da sempre esposti alla scena high-tech israeliana, negli ultimi anni abbiamo imparato molto sull’industria informatica offensiva. Ma cyber è una parola vuota, significa semplicemente digitale. Il punto è che non abbiamo ancora un linguaggio per parlarne. Mentre familiarizzavamo con queste aziende informatiche, capivamo poco di cosa fossero e cosa stessero facendo. Naturalmente abbiamo riferito che Israele vendeva tecnologie ad altri paesi, ma le armi digitali non sono la stessa cosa che vendere un anti-virus all’Arabia Saudita, giusto?

Quando abbiamo aderito al Progetto Pegasus, abbiamo imparato di più sulle armi digitali, commercializzate sotto la supervisione del governo per ragioni politiche. È stato anche il momento in cui abbiamo capito che dobbiamo lavorare insieme e che la nostra capacità di collaborare come giornalisti è davvero importante, perché queste aziende sono multinazionali che cercano di nascondere le loro operazioni frammentate: producono la tecnologia in Israele, il venditore potrebbe essere un uomo d’affari belga, il cliente potrebbe essere indonesiano. Non puoi coprire l’intera storia da solo, quindi lavorare insieme aiuta davvero, perché ognuno ha competenze diverse. C’è una tendenza nel giornalismo, quelle che il New York Times chiama "visual investigations ", un termine penso abbastanza azzeccato, o quelle che Bellingcat chiama indagini open source. Non è esattamente quello che facciamo noi: il nostro è un desk investigativo open source focalizzato sulla tecnologia da una prospettiva non tecnologica. Questo è ciò che cerchiamo di fare nella nostra newsletter NatSec+ .

Quante persone ci sono nella tua redazione? Quali compiti e competenze mettete in campo? Come cooperate?

Siamo una squadra investigativa composta da tre persone con diverse competenze. Oded Yaron coordina il lavoro, si occupa di tecnologia degli armamenti ed è il nostro esperto open source in termini di documenti, strutture aziendali, lavoro molto classico di Open Source Intelligence (OSINT). Il redattore della newsletter si chiama Avi Sharf e da molti anni è l’esperto di osservazione aerei di Haaretz. Prima consideravamo l’osservazione degli aerei solo come una pista da suggerire ad altri giornalisti, ora è un filone a sé stante. Io mi occupo di cyber e human, delle fonti umane, con cui cerco di corroborare le indicazioni che otteniamo dalle attività open source, e questa è una cosa davvero importante. Ci sono molti desk che svolgono solo lavoro open source, Bellingcat non parla con le persone. Stiamo cercando di riportare questo know-how digitale al centro della pratica giornalistica. Inoltre, nel momento in cui ti apri a pensare allo spazio digitale come ad uno spazio politico, hai davvero più storie che tempo per raccontarle.

Un piccolo esempio a cui tengo molto è Wikipedia. Non è solo un’enciclopedia online, ma anche un’arena open source, giusto? Quindi guardo chi sono i redattori e mappo le persone che cercano di influenzare il discorso pubblico in Israele. Wikipedia alimenta Google, alimenta ChatGPT, se riesci a manipolarla ottieni effetti enormi. Wikipedia è vista come un prodotto della cultura geek, nessuno penserebbe mai che sia collegata alla sorveglianza, ma è un altro esempio di arena tecnologica con un’alta posta politica in gioco. La sfida per una redazione è che ci vuole tempo per comprendere e adattare le meta-narrazioni, quindi proporre storie coerenti che educhino non solo il pubblico, ma anche il giornale nel suo insieme a pensare a queste storie in un modo diverso.

 

Cosa consiglieresti ad un altro giovane giornalista che si occupa di questi argomenti?

Il punto chiave è l’educazione. Il problema più grande con la tecnologia è che è avvolta in questa narrativa di innovazione, che impedisce al pubblico di comprenderla, ma impedisce anche ai giornalisti di raccontarla adeguatamente. Chiedi a qualsiasi persona del pubblico cosa pensa della proliferazione delle armi nucleari e avrà un’opinione, anche se non ha la minima idea di come funzioni la fusione nucleare. Quando si parla di tecnologia digitale, le persone ti diranno che non capiscono come funziona e quindi non hanno risposte. Penso invece che non importi come funziona. Stiamo cercando di allontanarci da un discorso per cui la tecnologia è innovativa, all’avanguardia e dunque non possiamo regolarla perché non la capiamo. Questa roba è nuova fino ad un certo punto, ma non pone un nuovo problema normativo. Sono quasi cento anni che regolamentiamo le armi, non puoi comprare una bomba nucleare su Amazon e questo è fantastico. Dobbiamo arrivare ad un punto in cui non sia più possibile acquistare tecnologie spyware digitali in questo modo. Invece non ne stiamo nemmeno parlando!

Ma la grande bugia del giornalismo sulla tecnologia è che non ha luogo o collocazione. Pensa a come concepiamo la tecnologia cloud. Cloud in realtà significa server in Islanda e se ti occupi di cloud hacking, da qualche parte c’è un ufficio, ci sono persone. Molte volte, il giornalismo tecnologico è molto più semplice rispetto ad altri campi perché le persone che lavorano nel settore non si percepiscono come parte dell’apparato di difesa. Se dovessi contattare il capo dell’unità tecnologica militare dell’IDF, riattaccherebbe il telefono. Ma se chiamo un’azienda i cui clienti sono militari, si vede come un’azienda e ha una visione molto specifica del giornalista: come un piantagrane o come qualcuno che viene a fare pubbliche relazioni. Il lavoro consiste nel rompere questa dicotomia, le persone reagiscono bene se sai cosa fa l’azienda e sei in grado di creare un dialogo. Inoltre pensano di salvare il mondo, giusto? Di far parte di questo club tecnologico etico, di rendere il mondo un posto migliore, sono orgogliosi di quello che fanno. Qui hai un gancio, puoi contattarli e di solito rispondono.

Certo, da israeliano ho avuto fortuna, vengo da un paese piccolo in cui faccio parte dell’élite: sono bianco, sono ebreo e vivo a Tel Aviv. Mentre alcuni miei amici hanno deciso di dedicarsi ai media, molti altri no, quindi c’è una rete elitaria in questo piccolo paese da cui attingere e che comprende anche la famiglia. Trovo ancora molta resistenza, ma è comprensibile che le persone di cui scrivo non siano d’accordo con me e mi spieghino che non tutta la sorveglianza è cattiva e cose simili. È molto importante non nascondersi dietro la tastiera, ad esempio richiedendo commenti faccia a faccia.

C’è l’urgenza di definire un’etica delle tecnologie di sorveglianza. Come ne discutete all’interno della redazione?

La sfida principale dei nostri tempi è che non dobbiamo lasciare che le aziende tecnologiche dettino l’etica del giornalismo. Un dibattito simile sarebbe completamente subordinato al loro desiderio di rimanere non tassate e non regolamentate. Conosco giornalisti che mi diranno che non userebbero mai un avatar o un account falso perché non è etico per via dei termini di utilizzo della piattaforma. Chi se ne frega dico io, non fanno parte del nostro dibattito etico, sono aziende a scopo di lucro. I giornalisti devono discutere i dilemmi etici con il proprio editore e ogni giornale ha la propria autonomia etica.

L’altro dibattito etico interessante è che non tutta la sorveglianza è malvagia. Tutti pensano che la NSO sia terribile. In questo senso ho una posizione piuttosto cauta. Non penso che dovremmo vietare lo spyware e mi sono convinto che sia una forma legittima di tecnologia che vogliamo che i governi abbiano. Vogliamo essere in grado di rintracciare le persone che fanno contrabbando, che trafficano donne, fanno revenge porn. Vogliamo questa tecnologia e abbiamo bisogno della legge e di una sua comprensione collettiva a livello internazionale per poterla governare. Ciò che non è legittimo è che tecnologia di livello militare venga privatizzata e venduta sul mercato. Questo è un problema enorme.

I governi si sono resi responsabili di gravi abusi. I giornalisti o altri soggetti possono essere oggetto di legittima sorveglianza da parte delle forze dell’ordine?

Nel nostro dibattito etico, abbiamo concluso che lo spyware è una tecnologia terribile e, dopo il progetto Pegasus, ci siamo resi conto che tutti i governi la utilizzano. Ora siamo in una fase di confronto tra legale e non legale, cosa che trovo infantile. Prendiamo l’esempio spagnolo: il governo ha utilizzato legalmente lo spyware contro il movimento catalano. Qualunque siano le tue opinioni politiche, non fanno saltare in aria gli autobus, puoi odiarlo, ma resta un movimento politico, non una rivolta militare armata, giusto? Poi c’è il Marocco che spia il governo spagnolo, diciamo illegalmente. In un contesto in cui la sicurezza nazionale è il concetto fondamentale utilizzato per giustificare quasi tutto, la questione non riguarda la legalità. Dopo numerose indagini, ci siamo resi conto che molte pratiche di sorveglianza non sono affatto illegali. Dovrebbe invece essere vergognoso per una persona offrire ad un politico 500.000 avatar per distorcere il dibattito pubblico. L’approccio normativo non ha la capacità di creare stigmatizzazione attorno agli abusi di tecnologie di sorveglianza. Per avere questo abbiamo bisogno di un dibattito pubblico.

In che modo il contesto israeliano influenza la mentalità delle persone e la loro idea di tecnologia come salvatrice o come minaccia?

Se il caso di Edward Snowden fosse accaduto in Israele e lui fosse venuto da me dicendo "Ho una bella storia e ho i documenti: Israele sta spiando tutti", avrei risposto "Ottimo, ma dov’è la notizia?". La società israeliana è anestetizzata. Le persone credono di essere sorvegliate e non hanno alcun problema, perché sanno che la persona che sorveglia è loro fratello o cugino, accettano di dover rinunciare a certe libertà personali o che i loro diritti possano essere forzati. Questa è la mentalità che fa da sfondo a gran parte del nostro lavoro giornalistico.

Il secondo aspetto problematico è che si crea un quadro etico in cui molti israeliani pensano che tutto ciò che è positivo per Israele, mantiene la sicurezza di Israele o migliora la posizione diplomatica di Israele, va bene. La NSO ha venduto tecnologia di sorveglianza all’Arabia Saudita, e l’Arabia Saudita ci ha fatto cose terribili. Va bene, perché forse presto Israele farà pace con i sauditi. Pegasus è stato nel dietro le quinte degli Accordi di Abramo . La chiamiamo cyberdiplomazia, il focus non è a chi vendi o cosa ne fanno, ma se sia un bene o un male per Israele. È l’unica domanda che conta.

Il terzo punto interessante è che tutte le mie fonti in queste aziende informatiche appartengono alla categoria della sinistra liberale israeliana: pro Lgbtq+, preoccupati per l’ambiente, nessuno pro Netanyahu, e in teoria sostengono la pace e un governo che promuova la soluzione dei due stati del conflitto israelo-palestinese. Ma pensano anche che se questi accordi commerciali tecnologici permettono a Israele di fare la pace con il mondo arabo allora è una buona cosa. È l’estensione di una logica direttamente collegata all’occupazione [dei Territori Palestinesi, ndA]. Nella cultura militare c’è un detto, chiamato il bravo soldato al posto di blocco. Qualcuno deve per forza esserci a questo posto di blocco e la questione è perciò se sarà un simpatico liberale bianco o un arrabbiato razzista di destra. E la risposta è che è sempre meglio che sia qualcuno come me. Io sono stato nell’esercito, anche se non condividiamo l’idea dell’occupazione, perché per noi è meglio essere lì. E questa logica continua nello spazio tecnologico.

E anche nel giornalismo?

I media israeliani sono molto legati all’esercito e la radio militare è il punto di partenza di molti giovani giornalisti. Questo ci rende molto informati sul mondo dell’esercito, siamo tutti esperti, tutti abbiamo fonti interne, e così via. Questo riduce la capacità dell’esercito di controllare la narrazione in Israele, perché posso sempre chiamare mio cugino, che è in prima linea in questo momento, e lui mi dirà cosa sta succedendo. In questo senso siamo percepiti come una minaccia, perché ora stiamo esponendo alla luce del sole il complesso militare-industriale di Israele in un modo che mina la capacità di Israele di utilizzare queste tecnologie a proprio vantaggio.

Ad esempio, tutte queste tecnologie di sorveglianza vengono utilizzate non-stop in Cisgiordania, e questo è l’elefante nella stanza: il fatto che anche per gli israeliani più liberali questo sia un dato di fatto. Gli israeliani di solito non pensano che il loro esercito possa fare qualcosa di brutto. Forse il governo sta facendo qualcosa di sbagliato con l’esercito, ma si fidano dell’esercito e di tutti i suoi armamenti. Tutto ciò è estremamente problematico, perché i palestinesi che vivono in Cisgiordania non sono nostri civili, non hanno diritti da opporre.

Che tipo di minacce legali hai subito e che tipo di consigli puoi fornire ad altre redazioni che sono disposte a impegnarsi in questo tipo di informazione?

Abbiamo implementato un iter legale rigido, anche molto più della maggior parte di altri giornali, in termini di richieste di commento alle fonti. Consiglio davvero di avvisare le aziende su cui si sta scrivendo una settimana o due prima di pubblicare, e di dare loro l’opportunità di incontrarti in via ufficiosa per chiarire i fatti. Ciò che preoccupa le società private può essere diverso da ciò che ti interessa veramente. Una volta avviato un dialogo, puoi verificare i fatti e chiarire cose per cui, se sbagliassi, verresti denunciato. Sono trascorsi due anni dall’inizio di questo reporting sulla cybersicurezza e non abbiamo subito alcuna querela, il che penso sia davvero un buon segno.

Inoltre, questo è molto importante per noi, viviamo in un paese con una censura militare che ha il diritto di dirmi che non posso pubblicare certe cose perché danneggiano la sicurezza nazionale. Non è una decisione vincolante e il giornale può contestare la decisione. Ironicamente, a quel punto il materiale verrà contrassegnato come veramente sensibile: il fatto che qualcosa sia autorizzato o meno alla pubblicazione è in realtà un indicatore molto importante della sua veridicità. In questo senso, posso ricostruire la mia storia in un modo più preciso.

Esiste un certo livello di autocensura in questo senso quando si parla del settore della sorveglianza tecnologica?

Non penso che si tratti di autocensura, non più di qualsiasi altro giornalista che lavora con fonti interne. Come quando scrivi della polizia, giusto? Devi mantenere le tue fonti all’interno della polizia, ma anche essere critico. Ma penso che siano la stessa sfida. Forse è quella vera: dobbiamo trattare il mondo digitale come trattiamo tutto il resto.

Come gestite la sicurezza personale e digitale? Che tipo di linee guida o protocolli seguite?

Questa è la cosa più difficile. Ho due società che mi forniscono pro bono una difesa digitale di eccellenza ed estremamente costosa. Utilizzo un sistema di codici per conservare i miei appunti, quindi se qualcuno aprisse il taccuino del mio telefono non riuscrebbe a capire con chi sto parlando. Utilizziamo la verifica in due passaggi. Una volta abbiamo realizzato un intero progetto completamente su carta, la cosa peggiore che avessimo mai fatto, è stato terribile, ci faceva impazzire. Più impari, più ti rendi conto di quanto sei esposto. Ti aggiorni e cambi costantemente, ma la triste risposta è che non puoi stare al sicuro. C’è questa battuta che ci piace raccontarci: ricorda che alla fine finirà tutto su un giornale! C’è sicuramente una fase di segretezza, poi però dobbiamo lasciar andare le cose. Siamo arrivati a fare pace con il fatto che alcune informazioni potrebbero trapelare.

La mia ultima domanda riguarda il peso psicologico di questo lavoro. Come affrontate questa situazione, a livello personale e a livello di redazione?

Molti giornalisti attraversano queste fasi di alti e bassi. All’interno della dinamica redazionale profonda, i redattori possono essere molto esigenti e tu hai invece bisogno di qualcuno che ti capisca davvero. Come giornalista investigativo, entri in mondi pazzeschi e molto spaventosi. Fa paura esserci dentro, ma è anche molto difficile portare su di sé il peso della conoscenza, e le conseguenze di poter non essere in grado di pubblicare e quindi le persone non sapranno nulla. Se il tuo editore non capisce questa tuo senso di urgenza e il peso che stai portando, pensa solo ai titoli e alle scadenze, allora finirai in una brutta situazione. È anche molto importante condividere, hai bisogno di altri giornalisti con cui parlare e aggiungo anche che sono un grande fan della terapia. Vado in terapia e, sebbene non sia stigmatizzata in generale in Israele, non è così comune all’interno delle redazioni. Il dibattito sulla salute mentale si sta allargando, c’è una svolta in questo senso. Una volta il mio giornale mi ha mandato in vacanza dicendomi ascolta, penso che dovresti prenderti qualche giorno libero. Questo è il genere di cose belle che possono succedere, non è così?

Biografia

Omer Benjakob è un giornalista investigativo di Haaretz, giornale israeliano di rilievo. Fa parte di un nuovo desk focalizzato sull’intersezione tra tecnologia, politica e sicurezza nazionale. Si occupa di disinformazione, cyber e sorveglianza e ha partecipato a numerose inchieste internazionali, tra cui il "Progetto Pegasus" su NSO e il "Team Jorge", un’innovativa indagine sotto copertura sul mercato privato della disinformazione e sui mercenari digitali che offrono interferenze elettorali come un servizio, entrambi coordinati dalla ONG Forbidden Stories con sede a Parigi. La sua inchiesta sulla vendita di spyware ad una milizia in Sudan, condotta da Lighthouse Reports e riportata insieme a Inside Story, è stata selezionata per il Premio europeo della stampa per il giornalismo investigativo (2023). È anche un ricercatore e i suoi scritti su Wikipedia sono stati pubblicati su Wired UK, Columbia Journalism Review e MIT Press, nonché su riviste accademiche.

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