Questione curda: viaggio ad Hakkari
In Turchia l’iniziativa di un gruppo di 150 intellettuali ed esponenti della società civile cerca di promuovere il dialogo sulla questione curda. Nei giorni scorsi si sono recati nella provincia orientale di Hakkari, recentemente teatro di violenze ed attacchi alla popolazione. Nostra intervista con il portavoce
Il Professor Gencay Gursoy presidente dell’Ordine dei Medici di Istanbul, è stato il portavoce della "Inizativa degli intellettuali", il gruppo di 150 intellettuali ed esponenti della società civile che la scorsa estate ha incontrato il presidente Erdogan prima della sua visita a Diyarbakir. Il Prof. Gursoy ha fatto parte anche della delegazione che nei giorni scorsi ha visitato la provincia di Hakkari.
Con quali obbiettivi siete andati ad Hakkari?
I nostri obbiettivi erano molteplici: cercare di raccogliere informazioni su quanto accaduto a Semdinli, Yuksekova e Hakkari, secondariamente portare la nostra solidarietà agli abitanti della regione e infine incontrare le autorità, il prefetto, gli amministratori locali, i rappresentanti dei partiti di opposizione. Cercare di fare sentire la presenza della società civile, seguire da vicino e tenere sotto stretta osservazione la vicenda garantendo che si arrivi ad accertare la verità senza che nulla venga nascosto.
Qual è stata l’accoglienza della gente?
Ci siamo trovati di fronte ad un’attesa di molto superiore alle aspettative. Nonostante in questi giorni ci sia stato un gran andirivieni di delegazioni ufficiali (del presidente Erdogan, dei principali partiti politici ed anche della Commissione parlamentare per i diritti umani. Ndr), ci hanno accolto con grande attenzione perché rappresentiamo un’iniziativa indipendente, sopra le parti e senza legami con istituzioni ufficiali. Inoltre il fatto che il nostro gruppo da tempo è impegnato nel tentativo di far superare gli ostacoli che si frappongono ad una aperta discussione della questione curda, ha fatto sì che ci abbiano mostrato un’attenzione particolare.
La prima tappa del nostro viaggio è stata la città di Van. Di lì ci siamo spostati ad Hakkari dove ci ha accolto una grande folla, tra loro i rappresentanti delle organizzazioni locali ma soprattutto comuni cittadini. Ci hanno raccontato a lungo le pressioni delle forze di sicurezza, irruzioni notturne di persone mascherate che si identificano come poliziotti, perquisizioni immotivate.
Situazioni che sono cominciate circa uno, due mesi fa, praticamente in contemporanea con l’inizio della catena di esplosioni.
Poi abbiamo incontrato il sindaco della città ed il prefetto che ci ha accolto molto positivamente. Ha detto di condividere il nostro approccio e che avrebbe fatto tutto il possibile per aiutarci. Il prefetto ci ha dato l’impressione di essere diverso dai tipici rappresentanti dello Stato incontrati in precedenza nella regione, sembra essere una persona che dà importanza alla collaborazione su un piano di parità tra le istituzioni e i cittadini. La visita quindi è stata decisamente positiva. Anzi (sorride) gli abbiamo anche messo al bavero la spilla Pace/Giustizia che avevamo preparato per l’occasione.
Dovunque siamo andati però, abbiamo precisato con molta chiarezza il nostro punto di vista: crediamo che il nostro appello all’abbandono incondizionato delle armi da parte del PKK mantenga la sua validità anche nella situazione attuale.
E le reazioni?
In qualche occasione alcuni giovani ci hanno chiesto "Va bene, voi fate questo appello ma perché non chiedete allo Stato di fare lo stesso?". La nostra risposta è stata che fino a quando ci sono persone che girano armate per le montagne, lo Stato non può lasciare le armi, rinunciare ai suoi compiti. Una richiesta di questo genere non ha nulla di realistico e quindi bisogna abbandonare la violenza. Il nostro appello sembra unilaterale ma non lo è. Nel nostro appello abbiamo chiesto che, con la fine della violenza, lo Stato faccia aperture democratiche e si impegni per far rientrare nella società queste persone. Abbiamo insistito poi sul fatto che se esiste il terrorismo, lo Stato non può usare metodi terroristici per combatterlo, lo deve fare all’interno di una cornice di legalità, rispettosa dei diritti umani.
Questo nostro atteggiamento è stato accolto nella regione in modo estremamente positivo. In genere abbiamo constatato che la gran parte della gente appoggia queste iniziative, le giudica positive.
Dopo Hakkari ci siamo spostati a Semdinli.
All’ingresso della cittadina ci ha accolto praticamente tutta la popolazione, arrivata a piedi, con camion, con autobus. Un’accoglienza calorosa, striscioni in turco ed in curdo. Anche lì abbiamo incontrato le autorità. Abbiamo visitato la libreria e consegnato le casse di libri offerte da numerose case editrici di Ankara ed Istanbul. Nella libreria abbiamo ascoltato la ricostruzione dei testimoni, visto i segni delle esplosioni (inizialmente si era parlato di una sola bomba poi si è accertato che erano due. Ndr), parlato e soprattutto ascoltato la gente.
L’ultima tappa del viaggio è stata Yuksekova. Qui abbiamo incontrato anche il deputato del CHP (Partito Repubblicano del Popolo) Canan, che è stato casualmente testimone diretto dei fatti di Semdinli.
Qual è l’interpretazione della gente di Semdinli?
La visita si è svolta in un clima di grande emozione.
Rispetto a quanto successo non ci sono prove definitive, ma i fatti parlano da soli, ci sono testimoni. Per la prima volta – ci ha detto la gente – noi abbiamo colto sul fatto e catturato degli agenti di pubblica sicurezza, non ci siamo fatti giustizia da soli, ci dicono che siamo dei terroristi ed invece abbiamo consegnato alla giustizia quelli che ci usano violenza.
Inizialmente c’era la preoccupazione che gli arrestati fossero incriminati solamente per un reato individuale, invece poi il tribunale penale di Van li ha accusati di reato associativo, un elemento positivo. Certo non è possibile fare previsioni su come si concluderà il procedimento penale. Ci sono precedenti (Susurluk) che dimostrano come con il tempo ci si dimentica di questi episodi, e poi arrivano le assoluzioni. Questa volta però il fatto che i colpevoli siano stati colti sul fatto, la presenza di un’opinione pubblica che si dimostra decisa a seguire gli sviluppi, uniti all’eco internazionale che la vicenda ha avuto, fanno nascere una speranza. Certo, il presidente Erdogan dichiara che seguirà da vicino la vicenda ma qualche giorno dopo dice l’opposto.
Lei ha appunto fatto parte anche della delegazione che ha incontrato Erdogan l’agosto scorso. Quali sono le sue impressioni?
Eh, dobbiamo riconoscere che l’atteggiamento del presidente in occasione di quella visita è stato estremamente positivo. Per la prima volta ed in modo netto si è detto che esiste un problema curdo in Turchia che deve essere risolto all’interno di una cornice democratica, che nel passato lo stato ha commesso degli errori. Tutti elementi nuovi che ci hanno dato fiducia nella possibilità che si possano fare passi in avanti. Col passare del tempo però, nel corso di una visita in Estremo Oriente ad esempio, ha detto che non esiste una questione curda. Sulla questione di Semdinli ha detto delle cose incomprensibili, contrarie a qualsiasi logica giuridica, che i testimoni non sono attendibili perché vivendo nella regione sono sottoposti alle pressioni del PKK. Una cosa che ha fatto infuriare la gente di Semdinli, tutti ci hanno chiesto "Se non riconoscono i nostri testimoni, cosa faranno, ne faranno venire da fuori?"
Crede che Erdogan non si senta politicamente abbastanza forte per fare passi più decisi?
Secondo me è abbastanza forte. Certo Erdogan ha anche alcuni punti deboli. La sua base, che comprende gli ambienti religiosi ma anche i nazionalisti. Questo giustifica in parte la sua titubanza. Poi a volte si ha l’impressione che tema i militari. Detto questo un governo, che gode di una simile maggioranza parlamentare, su di un tema così delicato come quello di Semdinli dovrebbe mostrare una maggiore determinazione. Io credo che se mostrasse questa determinazione paradossalmente aumenterebbe il suo potere. Forse perderebbe il sostegno di una parte della sua base ma acquisirebbe quello di altre settori della società. Certo fino ad ora ha fatto dei passi avanti, ma poi di fronte alle critiche ha fatto marcia indietro. E’ vero anche che la determinazione non fa parte della tradizione politica di questo paese.
Qual è lo stato d’animo della gente della regione, le paure e le aspettative?
Abbiamo incontrato moltissime persone, parlato ad uno ad uno con i parenti delle vittime. Quello che tutti hanno detto, senza eccezioni, è questo "Lo Stato non ha di noi un’opinione corretta, non siamo separatisti né terroristi, vogliamo vivere in questo Paese come cittadini con uguali diritti, non abbiamo altre richieste. Certo ci sono diseguaglianze sociali, problemi nella sanità e nell’istruzione ma sono ostacoli che si possono superare. Quello che conta è poter usare la nostra lingua, trasmettere la nostra cultura ai nostri figli, aver la possibilità di far sentire la nostra voce nella nostra lingua attraverso una radio, una televisione, che lo Stato faccia qualcosa."
La creazione di una televisione in lingua curda metterebbe anche fine alla querelle di Roj TV, alla quale fa continuamente riferimento negli ultimi tempi il presidente Erdogan (emittente satellitare in lingua curda che attualmente trasmette dalla Danimarca e che la Turchia chiede venga chiusa per i suoi legami con il PKK. Ndr)
C’è poi un episodio che ci ha particolarmente colpito: un anziano signore che ha voluto incontrarci, con voce emozionata ci ha parlato in curdo aiutandosi con degli appunti scritti in alfabeto ottomano, arabo. "Noi non vogliamo risolvere i nostri problemi con l’aiuto esterno – riferendosi agli Stati Uniti ed all’Iraq- Risolviamo da noi i nostri problemi"
Il fronte della questione curda è in costante movimento: la nascita del partito DTP (Partito della Società Democratica, nel quale venerdì 16 sono ufficialmente confluiti gli eletti di DEHAP), le dichiarazioni di Ocalan filtrate sulla stampa, il traffico intenso tra Ankara e Washington…
Certamente elementi interessanti. Si sa che da tempo Ocalan non aveva la possibilità di incontrare i suoi avvocati e poi dalla stampa siamo venuti a sapere della visita che ha ricevuto da parte di un alto dirigente del MIT (i servizi segreti turchi. Ndr) nel corso della quale Ocalan ha detto di riconoscere lo Stato unitario. Una visita di questo genere sembra indicare che lentamente si sta facendo strada un approccio diverso, la ricerca del dialogo invece del ricorso alla violenza, questi sono certamente passi positivi. C’è però ancora una preoccupazione che non siamo riusciti a superare: la sensazione che soprattutto a livello locale ci siano gruppi tra i rappresentanti ufficiali, gli ambienti militari, ma anche nel PKK certo, che vogliono mantenere la situazione attuale. E’ necessario zittire le voci dei falchi presenti in entrambi i fronti. Del resto, secondo molti la catena di attentati degli ultimi tempi avrebbe lo scopo di creare le condizioni per la reintroduzione dello stato di eccezione nella regione (OHAL, abolito nel corso delle riforme degli anni scorsi. Ndr).
Accanto a spiragli positivi ci sono poi le visite ad Ankara dei vertici di CIA e FBI ma anche il viaggio a Washington del capo di stato maggiore turco. Non sono in grado di dire a che cosa porteranno ma quello che è certo è che se la Turchia cercherà di risolvere la questione curda ricorrendo ad un’azione militare americana (La Turchia chiede da tempo un intervento americano contro le basi del PKK nel Nord Iraq. Ndr) non si arriverà a nulla, porterebbe solo ad altri gravi problemi.
Come Iniziativa degli Intellettuali quali saranno i vostri prossimi passi?
Nei prossimi giorni abbiamo intenzione di incontrare i rappresentanti del governo, il presidente Erdogan o il ministro degli esteri Gul ed i rappresentanti dei partiti di opposizione per esporre le nostre impressioni, raccontare quanto abbiamo visto e sentito. Per quanto riguarda l’aspetto giudiziario, abbiamo costituito un pool di avvocati che seguirà il procedimento giudiziario. Con scadenze regolari invieremo poi nella regione una delegazione che faccia il punto della situazione.
Reazioni negative alle vostre iniziative?
Certamente ci sono state. Soprattutto via internet riceviamo minacce sia da simpatizzanti del PKK che da ambienti nazionalisti. Cose inevitabili, ce lo aspettavamo. Siamo un po’ sotto pressione ma non possiamo dire che siano state reazioni molto ampie. Per contro la stampa non ci ha fatto mancare attenzione e spazio. Siamo fiduciosi.
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