Questa è la mia Europa
Il racconto dell’Europa guardata dal Pireo. La disumanità della mancata accoglienza, l’umanità della solidarietà. Riceviamo e volentieri pubblichiamo
E così i miei figli, i figli dei miei figli e tutte le generazioni future leggeranno sui loro libri di storia di un’ Europa disumana, che riuscì a levare la dignità a coloro che, fuggendo da guerre e terrore, le chiesero aiuto, ma che vennero invece trattati come pedine di una partita a scacchi giocata tra i vari capi di stato con in mano le sorti del loro futuro; trattati come merce di scambio fra i vari governi, che li usarono per realizzare i loro interessi politici ed economici: la Turchia accettò di trattare i rifugiati politici ed i migranti economici, ma in cambio di 6 miliardi di euro, non per solidarietà o per il sacro valore dell’ospitalità; accettò di aiutarli per ottenere l’esenzione dal visto per i propri cittadini turchi e l’accelerazione dei negoziati per l’adesione della Turchia all’Unione Europea.
9 Marzo 2016, le frontiere balcaniche vengono definitivamente chiuse. Come conseguenza, il Pireo comincia lentamente a trasformarsi in un inferno terrestre. Più di 4.000 esseri umani, il 40% bambini, hanno trovato approdo obbligato in uno dei più grandi porti d’Europa, che improvvisamente da punto di transito verso il superamento dei confini greci si è trasformato in una tendopoli a cielo aperto.
Siamo in Europa solo perché la cartina geografica indica che ci troviamo in prossimità della capitale greca. Possiamo però ancora avere il coraggio di chiamare Europa quel continente che chiude gli occhi di fronte a uomini, donne e bambini buttati in mezzo alla strada, il cui unico riparo è una piccola e fragile tenda, anche quando fuori c’è il temporale o il termometro segna 3 gradi?
E’ davvero Europa quella parte di mondo che accetta di far vivere uomini, donne e bambini in mezzo alla spazzatura, di lasciarli senza servizi igienici e di farli camminare scalzi sull’asfalto?
C’è un’Europa fatta di genitori straziati e preoccupati per le condizioni in cui stanno facendo vivere i loro figli: quel rischioso viaggio fatto prima di raggiungere le coste greche non è ancora terminato e quell’ospitalità che speravano di ricevere è ancora molto lontana.
C’è un’Europa fatta di persone letteralmente a terra, che dormono sul pavimento nelle varie strutture occupate del Pireo, che vivono le loro giornate in attesa di capire cosa ne sarà del loro futuro, inattivi, depressi.
C’è un’Europa fatta di bambini che vestono scarpe di quattro o cinque taglie più grandi, vestiti troppo piccoli o troppo larghi; bambini che indossano pantaloni da uomo e che camminano tenendoseli con le loro piccole manine per non rimanere nudi.
C’è un’Europa fatta di tende allagate non appena fuori piove e cartelli con su scritto "Ci state facendo morire lentamente", "Aprite i confini, siamo esseri umani", "E’ questa Europa ad essere illegale, non i rifugiati".
La Grecia è diventata il centro del mondo, protagonista di giornali pronti a lottare contro quel terrorismo jihadista posto come una delle cause della chiusura dei confini balcanici e che descrivono i rifugiati come un potenziale pericolo.
Eppure, al Pireo, non si respira affatto aria di terrorismo e tra chi sembra essere stato dimenticato dal governo greco, dai vertici UE e dal mondo intero, c’è chi porta un po’ di umanità perduta, c’è chi ha scelto di rifiutare questo crimine contro l’Umanità agendo in nome della Fratellanza, in nome di quel valore che li fa sentire parte dell’Umanità e sminuiti dalla morte e dalla sofferenza di qualsiasi uomo.
C’è infatti anche un’Europa rappresentata da quei volontari delle varie associazioni che hanno trasformato alcune strutture del Pireo, situate tra il gate E1 ed E2, in centri di prima accoglienza; rappresentata da tutti quei volontari, dai sedici ai settant’anni, che tutte le mattine si alzano per andare a dare una mano a sistemare con cura le montagne di cibo, di vestiti, di tende, di sacchi a pelo e tutto ciò che serve per la sopravvivenza di chi sta chiedendo un rifugio sicuro.
Così, al Pireo potresti ritrovarti di fronte a lunghe catene umane che dai containers, distanti un centinaio di metri dai vari magazzini dove vengono sistemati i rifornimenti, arrivano fino al loro ingresso: lunghe catene fatte di ragazzi che si passano casse pesanti d’acqua per farle arrivare da quei containers agli scaffali dove quelle casse verranno riposte con estremo ordine e cura.
Al Pireo potresti incontrare medici, infermieri e dentisti che offrono gratuitamente cure mediche, anche in piena notte, dentro le varie roulotte lì poste per prestare soccorso a chi tra i profughi verte in condizioni precarie di salute, a neonati, bambini piccoli, donne incinte e disabili.
Potresti trovare ragazzi che portano un pallone e, in quei pochi spazi rimasti liberi e non occupati dalle tende, improvvisano una partita di calcio con i rifugiati; ragazze che semplicemente con qualche pennarello e un foglio di carta fanno disegnare i bambini e li rendono giocosi, riuscendo a fargli dimenticare quel trauma vissuto a causa di un viaggio in cui hanno rischiato di morire prima di arrivare ad Atene.
Potresti trovare greci, inglesi, francesi, italiani, tedeschi, polacchi, spagnoli, siriani, afgani, iraniani, iracheni e persone di qualsiasi altra nazionalità che si prendono per mano e giocano al giro tondo; volontari che regalano palloncini colorati a bambini che si accalcano per averne uno e che in cambio donano il sorriso più bello che la Terra abbia mai visto.
Ed è in nome della Fratellanza che, in questa Grecia già tragicamente afflitta da una crisi economica senza precedenti, nonostante tutto, molti cittadini riempiono i cofani delle loro macchine di vestiti, coperte, cibo e ciò che può essere utile per aiutare in qualche modo persone delle quali non conosceranno mai i volti, nomi, religioni, nazionalità, età. Perché al Pireo, tutto il materiale presente, dai succhi di frutta alle tende da campeggio, è stato donato e centinaia di macchine si presentano all’ingresso dei magazzini delle varie associazioni, tutti i giorni, per devolverlo.
E’ anche questa l’Europa di cui parlerò un giorno ai miei figli. Racconterò loro del giorno in cui mi ritrovai sola al Pireo in mezzo alla strada senza un ombrello sotto la pioggia fitta e incessante e Sarah, una ragazza afgana di venticinque anni, uscì dalla sua tenda urlandomi preoccupata di correre a trovare riparo lì sotto e con lei e altre due donne afgane finii a scambiare la storia della mia vita fino al termine del temporale.
Parlerò loro anche di tutto questo, perché è questa l’Europa di cui mi sento complice, di questa Europa che non è schiava del pregiudizio e del razzismo; che resta umana e non accetta questo inferno portando come può un po’ di paradiso.
Questa è la mia Europa, quella che ha imparato dagli sbagli del passato, quella che vorrei ereditassero le generazioni future.
* Elena Sofia Fanciulli è una volontaria presso l’associazione "Comunità Papa Giovanni XXIII" e neolaureata in Scienze per la Pace: Cooperazione Internazionale e Trasformazione dei Conflitti presso l’Università di Pisa. In questo momento si trova con la Comunità ad Atene.
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