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Quando i Balcani fermarono il re degli scacchi

La storia dietro la serie Netflix "La regina degli scacchi" ispirata dalla storia di Bobby Fischer, campione che nel 1992 fu incriminato per aver giocato "la rivincita del XX secolo" nella Jugoslavia sotto embargo

28/12/2020, Federico Baccini -

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(Pubblicato originalmente nella newsletter XXV Barbalcani )

Alzi la mano chi non ha visto la serie Netflix "La regina degli scacchi". Molto difficile non essere tra gli oltre 62 milioni di abbonati che in soli 28 giorni dalla sua uscita (28 ottobre) hanno visto i 7 episodi sulla storia dell’enfant prodige Elizabeth Harmon, tratta dall’omonimo romanzo di Walter Tevis del 1983.

The King’s Gambit

Nella miniserie Netflix, come nel romanzo di Tevis, Beth Harmon è un personaggio di finzione. Ma questo non significa che non si ispiri a personaggi realmente esistiti.

Si parla di diversi scacchisti del passato, ma probabilmente quello più affine è Robert ‘Bobby’ James Fischer. Sono molte le somiglianze:

1. Entrambi statunitensi, si impongono nel mondo degli scacchi tra gli anni Cinquanta e Sessanta (Fischer vinse il campionato USA a 14 anni, Beth a 16).

2. Rapporti familiari complicati. Beth cresce in un orfanotrofio e poi viene adottata in un contesto che si dimostrerà non esattamente sereno. Fischer non ebbe praticamente una figura paterna, ma un confronto turbolento con la madre.

3. Disturbi comportamentali. Beth sviluppa problemi di narcotici e alcolismo, uniti all’ossessione maniacale per il gioco. Provocatorio, polemico, socialmente incapace di relazionarsi, per alcuni psicologi Fischer potrebbe aver sofferto della sindrome di Asperger.

4. Non secondario, il tema del confronto tra blocchi durante la Guerra Fredda. Statunitensi che vanno a sfidare i campioni sovietici, nel caso di Fischer si annoverano ripetute pressioni del governo USA per salvaguardare “l’onore del Paese”.

5. Lo sfidante: un campione russo. Vasily Borgov per Beth, Boris Spasskij per Fischer. Nella serie, Borgov incarna un vecchio Spasskij che, prima dello scontro “finale”, più volte ha sconfitto il giovane sfidante. Dopo una vittoria, Spasskij arrivò a lasciare Fischer in lacrime (la seconda partita di Beth contro Borgov).

Le analogie con la protagonista de La regina degli scacchi sono evidenti.

Bobby Fischer – foto di Kohls Ulrich via Wikimedia Commons

Ma chi fu davvero Bobby Fisher?

Nato a Chicago il 9 marzo 1943, Robert Fischer era figlio di Regina Wender – svizzera di famiglia polacca e origini ebraiche – e Gerhardt Fischer. Almeno sul certificato di nascita. Perché dal ‘39 la madre si spostò senza marito negli USA e nel ‘42 ebbe una relazione con il fisico ebreo ungherese Paul Nemenyi.

Iniziò a giocare a scacchi all’età di 6 anni, usando il libretto di istruzioni di una scacchiera comprata in un negozio di caramelle. Si fece notare già due anni dopo a un evento pubblico. Partecipò al primo torneo nel 1952 e a 13 anni divenne allievo del Maestro John William Collins.

Nel 1956 vinse il Campionato Juniores USA a Philadelphia. Nello stesso anno fu invitato al Torneo Lessing J. Rosenwald, tra i migliori 12 scacchisti statunitensi, dove vinse la prima “partita del secolo” contro il Grande Maestro Donald Byrne.

Nel gennaio 1958, quando ancora doveva compiere 15 anni, si laureò campione statunitense di scacchi, il più giovane di sempre. Ottenne anche il titolo di Grande Maestro e abbandonò la scuola.

La stella di Bobby Fischer iniziò a splendere – vincendo 8 titoli USA in 9 anni – ma si mostrarono i primi segni della sua eccentricità. Volato a Mosca, andò su tutte le furie quando scoprì che non poteva giocare contro i campioni sovietici, definendo «maiali russi» i giocatori del Club centrale di scacchi.

Sempre contro i sovietici si scatenò nel 1962, accusando la Federazione internazionale (FIDE) di non controllarli abbastanza: «I Russi hanno manipolato il mondo degli scacchi», attaccò Fischer. Li accusò di consultarsi tra loro durante le partite e di manipolare i sorteggi per tenere “in casa” il titolo di campione del mondo.

Fino al ‘67 boicottò le competizioni internazionali. Dimostrò anche la sua misoginia, arrivando a commentare così un complimento della campionessa statunitense, Lisa Lane: «Tutte le donne sono deboli. Non dovrebbero giocare a scacchi, sono come principianti».

Dopo una serie di vittorie memorabili, Fischer si presentò a Reykjavik (Islanda) nel 1972 per sfidare Boris Spasskij per il titolo mondiale. La stampa occidentale lo ribattezzò subito “l’incontro del secolo”.

Anche il segretario di Stato USA, Henry Kissinger, lo chiamò per dissuaderlo dal ritirarsi in segno di protesta (sempre per il suo carattere irascibile), facendo appello al suo patriottismo.

Nonostante un grosso scivolone alla prima partita, Fischer alla fine vinse il “match del XX secolo” e divenne campione del mondo. Per gli Stati Uniti fu una grossa operazione propagandistica sull’Unione Sovietica, che dal dopoguerra era la dominatrice incontrastata negli scacchi.

La “rivincita del XX secolo”

1972. Fischer è campione del mondo.

Siamo distanti 20 anni e quasi un continente dalla “rivincita del XX secolo” sui Balcani, dove Fischer trovò la sua fine scacchistica a livello ufficiale.

Vent’anni in cui si ritirò nell’ombra e non giocò più partite competitive. Rinunciò a difendere il titolo nel ‘75 contro Anatolij Karpov. Ebbe una relazione con la scacchista tedesca Petra Stadler, conosciuta attraverso il rivale/amico Spasskij. Ma niente di vagamente paragonabile al suo amore (o ossessione) per gli scacchi.

Vent’anni di silenzio. Fino al 1992. L’anno del nuovo match contro Boris Spasskij. Una riedizione dei fasti del passato.

Bobby Fischer non solo accettò, ma pretese addirittura (invano) che quel match fosse riconosciuto dalla FIDE come Campionato del mondo di scacchi e che lui – dopo 20 anni di inattività – stesse difendendo il titolo (che era invece di Garry Kasparov).

Il problema vero era però un altro: dove si disputò l’evento. Perché a Budva (oggi Montenegro) e Belgrado si trovavano nella Jugoslavia sotto duro embargo ONU, che prevedeva sanzioni anche sulle manifestazioni sportive.

Prima dell’inizio della partita il Dipartimento del Tesoro avvertì Fischer che la sua partecipazione era illegale. Avrebbe violato le sanzioni del presidente George H. W. Bush verso qualsiasi coinvolgimento in attività economiche in Jugoslavia.

La replica arrivò in conferenza stampa a Budva, il 1° settembre. Un istrionico Fischer sputò sul documento ufficiale e disse: «Questa è la mia risposta».

Il campione americano fu così incriminato e venne emesso un mandato di cattura internazionale. Da allora non tornò più negli Stati Uniti e diventò quasi un apolide.

L’ultima partita contro Spasskij – in un match vinto agevolmente – fu anche l’ultima di tutta la sua carriera.

Nell’ex-Jugoslavia, uno dei più grandi di tutti i tempi mostrò al mondo di essere ancora “il re degli scacchi”.

Molto più di una partita

C’è una storia sommersa sotto questa storia sommersa. E riguarda il motivo per cui la partita si giocò proprio tra Budva e Belgrado.

Nel 1992 il processo di disgregazione della Jugoslavia era nel pieno del suo corso. Nel tentativo di isolare il presidente serbo, Slobodan Milošević, fu imposto l’embargo assoluto su Serbia e Montenegro. Fu proprio il caso della “rivincita del XX secolo”, perché: «Lo sponsor jugoslavo beneficia dell’utilizzo del suo nome e reputazione» scriveva il Dipartimento USA del Tesoro a Robert Fisher.

Ma chi era lo sponsor? Il presidente della Jugoskandic Bank, Jezdimir Vasiljević. Uno degli uomini più potenti di Serbia, coinvolto in speculazioni finanziarie e sospettato di traffico illegale di armi. Sul piatto mise 5 milioni di dollari.

Una disponibilità tutta volta a mettere in cattiva luce il mondo occidentale: «Gli Stati Uniti stanno contribuendo a soffocare un evento di grande rilievo culturale», accusò Vasiljević.

Dietro il presidente della Jugoskandic Bank c’era la longa manus di Slobodan Milošević, che condivideva l’interesse perché quella partita si giocasse. Proprio lì, proprio in quel momento.

Da Budva i due scacchisti si spostarono a Belgrado per proseguire il match e Milošević si fece fotografare pubblicamente con Fischer e Spasskij. «Il match è importante», dichiarò Milošević, «perché si gioca mentre la Jugoslavia è sotto un embargo ingiustificato».

Il canto del cigno di Fischer arrivò al termine del confronto con Spasskij. Per Milošević, il conto alla rovescia era appena iniziato.

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