Quale destino per i Balcani occidentali?
A quasi due decenni di distanza dal summit di Salonicco, dove fu promesso ai paesi dei Balcani una concreta prospettiva europea, i paesi della regione sono più lontani che mai dall’Ue. I motivi del rallentamento in questa analisi
Chi è nato nell’anno in cui venne adottata “l’Agenda di Salonicco” al Consiglio europeo sta per diventare – o lo è già diventato – maggiorenne. I paesi dei Balcani occidentali – a cui nel 2003 è stata promessa la prospettiva europea nella seconda città più grande della Grecia – oggi sono più lontani dall’adesione all’UE di quanto non lo fossero all’epoca.
È un paradosso solo a prima vista. In questi due decenni o quasi, le condizioni per entrare nel club privilegiato europeo sono diventate molto più severe rispetto ai criteri applicati per i dodici paesi che sono saliti a bordo nel 2004 e nel 2007. Se si applicassero gli stessi parametri che si chiedono ai Balcani occidentali agli stati che già fanno parte dell’UE, l’Unione rimarrebbe con un numero di membri ad una cifra.
In questi diciotto anni, l’UE ha reso quasi impossibile l’adesione di nuovi paesi membri. La Croazia è l’eccezione che conferma la regola, anche se non va dimenticato che Zagabria, a otto anni dall’adesione all’UE, non è ancora entrata nello spazio Schengen, né nell’Eurozona,. Tutto ciò rende la Croazia un membro dell’UE di seconda classe, insieme a Romania e Bulgaria.
I dieci paesi dell’est europeo, a parte la Bulgaria e la Romania, hanno impiegato solo quattro anni per aprire e concludere i negoziati di adesione all’UE, dal 1998 al 2002, poi altri due anni sono serviti per completare l’iter delle ratifiche nei parlamenti degli allora 15 stati dell’UE. La Slovacchia, addirittura, ha completato i negoziati in due anni e mezzo.
Il Montenegro, nei giorni scorsi, “ha festeggiato” nove anni dall’inizio dei negoziati con l’Unione Europea. La Serbia è nello stesso processo da sette anni e non sono nemmeno a metà strada. L’Albania e la Macedonia del Nord non hanno ancora iniziato i negoziati, mentre la Bosnia Erzegovina e il Kosovo non hanno nemmeno lo status di paese candidato per l’adesione all’UE.
La Serbia e il Montenegro odierni non sono, sicuramente, meno pronti per l’UE rispetto all’Ungheria e la Polonia di vent’anni fa. E anche la Macedonia del Nord e l’Albania non sono molto lontane dalla Bulgaria e dalla Romania del cosiddetto "Big Bang" dell’allargamento nel 2004.
Prima di spiegare perché l’UE non riesce a integrare i sei piccoli paesi balcanici, che messi insieme hanno meno abitanti della Romania, va ricordato che 25 anni fa, i più importanti azionisti dell’UE, vale a dire Germania, Francia, Gran Bretagna, ma anche la Grecia, avevano interesse che uno o più di uno dei dodici paesi in lizza entrassero nell’UE.
Non sono mancati certo ricatti e veti incrociati. La Germania condizionava l’allargamento con la Polonia, che era paese strategico per Berlino e doveva entrare per forza, la Gran Bretagna sponsorizzava i baltici, la Francia tifava per la Romania e per la Bulgaria perché a Parigi credevano che Bucarest e Sofia rafforzassero l’anima francofona dell’Ue, e la Grecia insisteva: o con Cipro o con nessuno.
Poi, iniziando a pensare di aver fatto un errore con l’allargamento frettoloso del 2004 e del 2007, Berlino, Parigi, l’Aja e i paesi scandinavi hanno fatto di tutto per fermare o rallentare il processo di allargamento. I tedeschi, i francesi e gli olandesi, soprattutto, non volevano usare l’integrazione europea per risolvere le questioni spinose nella regione balcanica, al contrario la utilizzavano per mettere i bastoni tra le ruote dei candidati e potenziali candidati all’UE.
Nessuno vuole giustificare i paesi balcanici, per le loro mancanze, inadempienze, lentezze, ma è molto significativo che i paesi che hanno ammesso Cipro con un terzo di territorio occupato dalla Turchia, si sono affrettati a far sapere ai Balcani occidentali che non potranno entrare nell’UE con questioni territoriali e di confine ancora non risolte.
La stessa UE che era benevole e tollerante nei confronti dei paesi dell’est europeo a cavallo tra i due secoli si è trasformata in una severa maestra nei confronti dei sei paesi balcanici.
L’Olanda, con l’appoggio tacito della Germania e dei paesi scandinavi, ha rallentato la Serbia nel suo cammino verso l’UE nel periodo cruciale, tra il 2005 e il 2010, quando Belgrado ha perso definitivamente il treno per l’UE sul medio e lungo termine. Alla Grecia fu permesso di bloccare per 15 anni Skopje, alla Slovenia fu concesso di bloccare la Croazia per quasi due anni, la Francia non permette da anni ai kosovari di viaggiare per motivi turistici nell’UE senza bisogno dei visti, nonostante la presenza della missione Eulex da dieci anni in Kosovo.
Nel frattempo, i parametri per entrare nell’Unione Europea sono stati inaspriti diverse volte, l’ultima sull’input del presidente francese Emmanuel Macron. Il presidente della Quinta repubblica, almeno, ha avuto l’onestà di dire la verità ai leader balcanici: prima del prossimo allargamento, l’UE deve fare le riforme, specialmente per quanto riguarda il meccanismo decisionale. L’Unione con 27 membri fatica a decidere in maniera veloce ed efficace, figuriamoci con 33 paesi.
Macron ad un certo punto si è addirittura illuso che i paesi dell’est europeo membri Ue potessero barattare la rinuncia al meccanismo decisionale che prevede l’unanimità per spingere il cammino dei paesi balcanici verso l’Ue. Il presidente francese però si è reso conto ben presto che l’appoggio degli est europei per l’integrazione dei Balcani non va oltre la retorica altisonante e che non sono pronti a rinunciare a nessuno dei privilegi e delle leve che hanno in mano per favorire l’accelerazione dei balcanici verso l’Ue.
Una delle materie in cui l’unanimità di voto è obbligatoria nell’UE è l’allargamento. I paesi membri possono abusarne, senza limiti e conseguenze, ogni volta che credono di poter realizzare un obiettivo dell’agenda nazionale usando i negoziati di adesione. L’ultimo esempio è quello della Bulgaria che blocca la Macedonia del Nord perché vuole costringerla a cambiare la propria storia e il nome della propria lingua.
La sfortuna dei balcanici occidentali è che non sono importanti per nessuno dei membri dell’UE. Non c’è una capitale, tra quelle che contano, pronta a mettere la faccia per uno dei paesi balcanici. L’appoggio che arriva, quando arriva, è di facciata, retorico e senza alcuna forza propulsiva.
I paesi balcanici, senza una spinta forte dell’UE, non riusciranno mai a costruire lo stato di diritto e non risolveranno mai le dispute etniche e identitarie e faticheranno ad uscire dalle grinfie della criminalità organizzata.
L’odierna classe dirigente dell’UE non vuole un nuovo allargamento, pur essendo consapevole dei rischi del limbo in cui si trovano i Balcani occidentali. L’opinione pubblica di gran parte degli stati membri è contraria all’ammissione di nuovi membri. In questo scenario, i Balcani occidentali si muovono sulle orme della Turchia, che ha aperto i negoziati di adesione nel 2005 con l’idea di non chiuderli mai.
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