Processo di Berlino: quali spazi per la società civile?
Un processo intergovernativo che si propone di partire "dal basso" per rilanciare l’integrazione europea dei Balcani Occidentali. Pubblichiamo di seguito il contributo di OBCT al XVII Forum delle Camere di Commercio delle Città dell’Adriatico e dello Ionio (Pescara, 8 giugno 2017)
L’Unione europea non è dotata di una vera e propria politica estera, una “competenza” di cui gli Stati membri continuano a essere gelosi custodi – ce ne accorgiamo ogni volta che l’Alta rappresentante Federica Mogherini deve prendere una decisione, giocoforza vincolata dall’unanimità dei paesi. L’Ue possiede però una propria “proiezione esterna”, fondata sull’associazione economica condizionata e sulla prospettiva politica dell’allargamento. I paesi dell’est Europa che dal 2004/2007 sono divenuti Stati membri (Repubblica Ceca, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Slovacchia, Slovenia, Ungheria e successivamente Bulgaria e Romania) testimoniano il potenziale di questa strategia, che da 17 anni è al vaglio su un’altra area cruciale. Dalla fine degli anni Novanta, dopo la traumatica dissoluzione della ex Jugoslavia, l’Ue ha infatti sviluppato un approccio regionale anche nei confronti dei Balcani occidentali. Risale al vertice di Zagabria del 2000 il lancio del cosiddetto “Processo di stabilizzazione e associazione”, reso operativo dai trattati di associazione economica che l’Ue nel suo insieme ha firmato con i singoli paesi dell’area: in vista della candidatura, dell’apertura dei negoziati e in alcuni casi anche dell’adesione (ottenuta per ora solo dalla Croazia nel 2013).
A seguito del grande allargamento 2004/2007, la strategia appena descritta ha perso però dinamismo: in letteratura ma anche nelle analisi giornalistiche si sente spesso parlare di “fatica dell’allagamento”. Subito dopo le elezioni europee del 2014, il nuovo presidente della Commissione Jean-Claude Junker disse apertamente che non ci sarebbero stati nuovi ingressi. Una scelta controversa e dibattuta, vista da alcuni come presa d’atto di un diffuso clima politico; da altri come un’ammissione non necessaria e forse, addirittura, poco opportuna. Qualunque sia la valutazione di merito, è proprio in questa fase di stanca della politica comunitaria che si inserisce il cosiddetto “Processo di Berlino”: una sorta di “motore intergovernativo” da affiancare al processo d’integrazione “istituzionale” gestito dalla Commissione.
Se il metodo comunitario non è venuto meno, cosa si propone questa nuova strategia a trazione tedesca? Convenuti a Berlino su invito di Angela Merkel, il 28 agosto 2014, nel simbolico centenario dell’inizio della prima guerra mondiale, i governi di una ristretta cerchia di Stati membri (Germania, Austria, Francia, Croazia e Slovenia) e di sei paesi candidati o potenziali candidati (Albania, Bosnia Erzegovina, Kosovo, Macedonia, Montenegro e Serbia) si sono impegnati su un cammino quadriennale durante il quale lavorare insieme alle riforme interne, alla soluzione delle dispute bilaterali, alla cooperazione economica regionale e alla riconciliazione delle società. In quell’occasione, ponendosi come complementare alle istituzioni europee, il governo tedesco ha messo nero su bianco la consapevolezza della propria “responsabilità per un futuro pacifico e stabile della regione” e i paesi dei Balcani occidentali hanno ribadito di condividere l’obiettivo di un comune futuro di pace all’interno dell’Unione europea. Se questa cornice di responsabilità condivise tra Stati costituisce di per sé un fatto rilevante, l’ottavo punto della Dichiarazione di Berlino faceva un passo ulteriore, recitando: “La cooperazione includerà altresì la società civile. Gli Stati partecipanti sottolineano la loro volontà unanime a sviluppare lo scambio transnazionale, soprattutto tra i giovani”. È a quest’approccio che include la prospettiva dal basso, ovvero alla capacità del Processo di Berlino di coinvolgere giovani e società civile che OBCT e altri osservatori internazionali guardano con interesse.
Verso Trieste 2017: il ruolo della società civile
Il prossimo vertice del “Processo di Berlino” si terrà in Italia: il 12 luglio a Trieste. È una buona notizia per il nostro paese, a maggior ragione se si pensa che quando il processo è stato lanciato l’Italia non ne faceva parte. Nei tre appuntamenti precedenti i paesi membri dell’Ue che partecipano alla strategia (WB6) hanno posto l’accento su temi di ampio respiro quali la connettività e le infrastrutture (Berlino 2014), il superamento delle dispute bilaterali (Vienna 2015), le politiche giovanili ed il lavoro (Parigi 2016). È a Vienna che, a margine del summit governativo, si coagula per la prima volta il Forum della società civile. Lo stesso è avvenuto un anno dopo a Parigi, dove il Forum ha potuto attingere ai risultati di incontri preparatori che si sono tenuti a Novi Sad e a Belgrado. Una buona pratica ripetutasi anche quest’anno: in vista di Trieste 2017, dal 26 al 28 aprile scorso un altro pre-forum della società civile si è riunito a Tirana.
Animato da oltre cento partecipanti, il Forum della capitale albanese ha rappresentato un’importante occasione di dialogo tra organizzazioni non governative, think tanks e settore privato. La proposta formulata dalla società civile balcanica è quella di costituire un’agenda di economia sociale sul modello della Social Business Initiative lanciata nel 2011 nell’Unione Europea: coinvolgendo le piccole e medie imprese nel policy making e promuovendo venture capital e servizi bancari etici per sostenere forme innovative d’impresa. È bene sottolineare che i contenuti emersi a Tirana riguardano anzitutto le nuove generazioni: sia in materia di formazione che di occupazione, la principale raccomandazione che verrà girata ai governi riuniti a Trieste è quella di impegnarsi per aumentare, incoraggiare e promuovere la conoscenza di altri paesi all’interno della scuola primaria e secondaria dei singoli stati balcanici e di sostenere la mobilità dei giovani tra i paesi dei Balcani occidentali e tra questi e l’Unione Europea. Non è infatti possibile connettere paesi che non vogliono conoscersi e che non condividono una lettura del loro passato comune. Per favorire la cooperazione regionale dei giovani e per affrontare il delicato tema della riconciliazione, a Vienna 2015 è stato lanciato il Regional Youth Cooperation Office (RYCO) – un’idea dell’allora premier serbo (ora Presidente) Aleksandar Vučić, ispirata all’Ufficio franco-tedesco per la gioventù voluto nel 1963 da De Gaulle e Adenauer. A Parigi 2016 si è poi aggiunto un forum organizzato dai centri studi. È per questo che in vista di Trieste 2017, tra il 25 e il 26 giugno prossimi si riuniranno i Reflection forum dei centri studi europei che monitorano il processo di avvicinamento all’UE. OBCT ne è parte: insieme al Centro Studi di Politica Internazionale (CeSPI) sarà presente per raccogliere ed esaminare le proposte emerse da entrambi i fora, ma proverà anche a guardare alla parte italiana con una ricerca congiunta OBCT-CeSPI che cercherà di stilare una “mappa delle intenzioni” da riempire di stakeholder chiave con sede nei Balcani occidentali e in Italia (ONG, imprese, banche, rappresentanti di pubbliche amministrazioni).
Per capire come stimolare le reti transnazionali della società civile ed impiegarle a favore dell’europeizzazione dei Balcani occidentali è molto importante conoscere da vicino i paesi della regione. Va tenuto a mente che la “fatica dell’integrazione” è legata anzitutto alle difficili riforme politico-istituzionali che quei paesi devono affrontare proprio in questi anni: stiamo parlando, in buona parte, di Stati piagati dalla corruzione politica e dalla debolezza istituzionale. Di fronte a problemi strutturali che sovente paiono insormontabili, le classi politiche balcaniche non avvertono come sufficienti gli incentivi offerti da Bruxelles (gli Instrument for Pre-Accession Assistance – IPA); talvolta, invece di impegnarsi a fondo nel percorso di riforma, scelgono la strada dell’armonizzazione normativa che si limita a un restyiling superficiale delle norme vigenti. Dall’altro lato ci sono le opinioni pubbliche, a partire dai giovani, che oscillano tra la loro adesione al progetto europeo e la ricerca di soluzioni concrete per uscire dalla marginalità: la più nota è quella delle richieste d’asilo. Se si conoscono quei paesi si capisce perché, per garantire una soluzione stabile, è necessario coinvolgere il livello locale. Per farlo, è di fondamentale importanza includere gli attori economici e sociali attivi su entrambe le sponde dell’Adriatico, affinché la loro esperienza sul campo possa arricchire un dibattito che non deve rimanere né tecnico né accademico.
Concludiamo con un ragionamento sul presente. L’attualità sta mettendo in secondo piano la priorità dell’allargamento. Dopo mesi in cui la crisi in Medioriente e l’emergenza migratoria sulla rotta balcanica hanno spinto a guardare in meri termini di sicurezza un’area su cui l’Unione europea ha scommesso da due decenni il proprio peso geopolitico, la Brexit e la nuova stagione politica negli Stati Uniti hanno inferto un duro colpo all’immagine e al potenziale d’attrazione dell’Unione. Nonostante le difficoltà imposte dal contesto, i nostri vicini strategici non possono tornare ad essere trattati come la periferia instabile da gestire con l’approccio della politica estera tradizionale; al contrario, i Balcani occidentali completeranno il loro consolidamento democratico soltanto se verranno considerati a tutti gli effetti futuri Paesi membri da sostenere nel percorso di europeizzazione.
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