Primo maggio a Taksim
A Taskim, una delle piazze principali di Istanbul, nel 1977 durante la manifestazione del 1° maggio vennero uccise 36 persone. Da allora è vietata alle manifestazioni dei lavoratori. Ne parla Suleyman Çelebi segretario della Confederazione dei sindacati dei lavoratori rivoluzionari, uno dei principali sindacati turchi
Lei ha incontrato questa mattina (martedì 24 aprile, nda) ad Ankara il ministro degli Interni Aksu per parlare del primo maggio…
Abbiamo discusso della possibilità di tornare a manifestare in piazza Taksim ad Istanbul. Io credo che al fondo dei problemi della Turchia odierna ci siano i fatti del primo maggio 1977 a Taksim. Quel giorno è stata fatta una provocazione. Era una grande manifestazione con 500.000 lavoratori, ed è finita in un massacro dove 36 persone hanno perso la vita attaccate dalle autoblindo. In quell’occasione è cominciata la fase che ha portato al colpo di stato e alle successive trasformazioni del paese.
Noi quest’anno abbiamo chiesto a tutti i partiti, di governo e di opposizione, di dichiarare il primo maggio una festa ufficiale. Fino al colpo di stato il primo maggio era un giorno di festa, sì ma la festa della primavera e non quella dei lavoratori.
La nostra seconda richiesta è che si costituisca una commissione parlamentare d’inchiesta per accertare le responsabilità di quei fatti. Certo in questi giorni sono tutti impegnati sulla questione del candidato alla presidenza della repubblica (Il primo ministro Erdoğan mercoledì ha ufficializzato la candidatura dell’attuale ministro degli Esteri Abdullah Gül, nda) ma noi insistiamo. Noi il primo maggio ’77 abbiamo perso 36 persone e la nostra festa è stata interrotta, noi oggi vogliamo completare quella festa e tornare a Taksim dove dal 1978 ci è proibito manifestare. Le autorità rispondono che Taksim non è uno spazio per questo genere di manifestazioni ma in realtà a Taksim tutti festeggiano tranne i lavoratori.
Negli ultimi giorni la situazione si è fatta più tesa ed io oggi ho incontrato il ministro ed esposto le nostre intenzioni, noi andremo a Taksim.
Chi è il DISK Confederazione dei sindacati dei lavoratori rivoluzionari?
Il sindacato è nato nel 1967 dalla confluenza di cinque diverse organizzazioni ed alla fine degli anni ’70 siamo arrivati ad avere 600.000 iscritti. In conseguenza del colpo di stato del 1980 il sindacato è stato chiuso ed ha potuto tornare in attività solo nel 1992.
Il sindacato ha sempre avuto tre principi fondamentali, l’indipendenza dallo stato, dal capitale, dai partiti politici. Nonostante ciò siamo un sindacato che non nasconde di essere schierato a sinistra, per la democrazia ed i diritti umani. Noi siamo stati processati per aver festeggiato il primo maggio, ci accusavano di festeggiare una festa comunista, si è anche detto che celebravamo una festa ebraica. Accuse che hanno creato ad una vera e propria campagna contro di noi. Ci siamo sempre schierati in difesa della democrazia e non racconto queste cose per una qualche tentazione nostalgica ma per mostrarvi come il nostro sindacato sia un gruppo di pressione ed un’organizzazione moderna.
Nel 1980 su di una popolazione totale di 45 milioni i lavoratori sindacalizzati erano due milioni e mezzo, oggi con una popolazione di 72 milioni questa cifra è scesa a 800.000. Attualmente il nostro sindacato conta 396.000 iscritti anche se, ad esseri sinceri, gli iscritti attivi sono circa 170.000.
Oggi le condizioni per l’azione sindacale si sono fatte più difficili.
Quali sono le maggiori difficoltà?
Da noi ci sono situazioni che non trovano riscontro nel mondo. In primo luogo i lavoratori per poter aderire ad un sindacato devono andare da un notaio, pagare 20 euro, questo anche ogni qualvolta volessero cambiare sindacato, una regola che non esiste altrove e che anche in Turchia non si applica a nessun’altra organizzazione. Poi esiste una sorta di sbarramento a tre stadi.
Le faccio l’esempio del settore tessile che conosco bene. Nel settore lavorano tre milioni di persone, delle quali 680.000 hanno l’assicurazione sociale. Se un dato sindacato non conta tra i suoi iscritti almeno il 10% dei lavoratori del settore, in questo caso 68.000 lavoratori, non ha diritto a promuovere la contrattazione collettiva. Superato eventualmente questo ostacolo se ne presenta un’altro a livello della singola impresa. Se almeno il 50% + 1dei lavoratori di un’impresa non sono iscritti al vostro sindacato il sindacato non ha il diritto di condurre trattative collettive.
Se poi l’impresa ha diversi stabilimenti il sindacato deve avere il 50% + 1 dei lavoratori iscritti in tutte le fabbriche dell’impresa per poter condurre le trattative in ciascuna di esse.
I problemi però non finiscono qui perché una volta ottenute queste condizioni il sindacato chiede al ministero del Lavoro il riconoscimento di queste condizioni. A questo punto interviene il datore di lavoro contestando le affermazioni del sindacato, chiedendo accertamenti ed aprendo una causa. L’iter degli accertamenti da parte di un consulente in genere dura un anno.
A volte poi l’imprenditore sostiene che il sindacato dei tessili non ha diritto di interferire sostenendo che la sua impresa non appartiene al settore tessile ma, ad esempio, a quello chimico. A questo punto inizia una nuova causa. Attualmente siamo impegnati in cause di questo genere che durano da sette anni. Poi ci chiediamo come mai in Turchia i lavoratori non si iscrivono al sindacato.
Qual è la percentuale dei lavoratori che lavora in regime di contrattazione collettiva?
Il 5%. Nel settore pubblico la percentuale è forse più alta ma è arduo parlare per loro di diritto alla contrattazione collettiva, esiste sulla carta.
Per quanto riguardo il diritto di sciopero?
Esiste anche se in alcuni settori con diverse limitazioni. Nel settore pubblico gli impiegati non hanno il diritto di scioperare, ce l’hanno invece gli operai. Per gli altri settori ci sono difficoltà di ordine burocratico.
Un problema strutturale del lavoro è costituito dall’altissima percentuale di lavoratori privi di assicurazione sociale, il lavoro nero e l’economia informale…
I lavoratori in nero sono circa il 60% del totale, un fenomeno diffuso soprattutto nel settore tessile ma anche in quello delle costruzioni e in quello agroalimentare.
La festa del primo maggio è nata 121 anni fa per protestare contro le condizioni di lavoro e per avere l’orario di otto ore. Lo ripeto da tempo, nel nostro paese i lavoratori in nero non lavorano otto ore ma 10, 12, hanno un salario inferiore a quello minimo stabilito per legge (circa 220 euro mensili). Siamo molto impegnati su questo terreno e diamo battaglia.
Ad esempio in tema di lavoro minorile. Io credo che siano almeno 650.000 i minori di 16 anni che lavorano, più delle cifre ufficiali che si fissano intorno ai 400.000. Su questo terreno siamo impegnati in progetti in collaborazione con l’ILO (International Labor Organization).
La sicurezza sul lavoro?
Nel nostro paese da anni esiste una situazione collaudata, dal punto di vista legislativo c’è una forte attenzione per la salute dei lavoratori. Purtroppo però per quanto riguarda l’applicazione delle leggi ed il controllo la situazione è molto meno rosea. E’ degli ultimi giorni il caso di una fabbrica di Adana, che produce jeans, i lavoratori lavorano in condizioni primitive, circondati da materiali chimici, molti ragazzi si sono ammalati di cancro. Quindi le leggi sono ottime, avanzate, ci tengo a sottolinearlo, ma l’applicazione è un problema serio.
Quali sono le richieste più urgenti dei sindacati turchi?
Il principale problema è eliminare gli ostacoli per la libertà di organizzazione, il secondo è l’economia informale ed il lavoro nero, il terzo è costituito dal prezzo che i lavoratori pagano per il fatto di essere iscritti al sindacato. Anche questo è un ostacolo per la libertà di organizzazione e dove manca la libertà di organizzazione manca la democrazia.
Quale ruolo può giocare l’adesione all’UE in tema di diritti dei lavoratori?
La Turchia ha fatto molte riforme in campo legislativo nella prospettiva dell’integrazione europea. L’unica cosa che non è cambiata però sono la legge sui sindacati e sul diritto alla contrattazione collettiva. Sulle questioni sindacali gli amici europei non mostrano la stessa sensibilità che mostrano per altre tematiche.
L’Europa sta subendo una trasformazione in senso neoliberale ed un indebolimento dello stato sociale sottoposto ad un vero bombardamento ideologico, i sindacati sono forti ma la loro presa sulla politica ed i partiti a loro tradizionalmente vicini si indebolisce.
Per dirla in altre parole la questione curda o quella armena conquistano facilmente le prime pagine, e non lo dico per sminuire l’importanza di queste tematiche ma quando si tratta di questioni che riguardano indistintamente tutta la società turca non notiamo la stessa attenzione.
Quasi che in tema di diritti sindacali e relazioni industriali sia paradossalmente la Turchia ad essere un modello per l’Europa e non viceversa…
Proprio così. Ci sono due tipi di Europa dal nostro punto di vista, l’Europa del lavoro, quella sociale, in difficoltà certo ma un modello europeo frutto di una lunga storia di lotte continua ed esistere e poi c’è il modello per così dire egemone quella delle politiche neoliberali e della globalizzazione.
Ormai di fronte a questo stato di cose non è possibile lottare da soli. Rispetto al passato abbiamo bisogno di più cooperazione e solidarietà.
Prendiamo il famoso caso della Benetton, che risale al 1994 (il caso di laboratori di confezioni ad Istanbul che lavoravano per la società italiana e utilizzavano lavoro minorile, nda), in quel caso abbiamo ottenuto risultati con un’azione comune, sensibilizzando le opinioni pubbliche dei due paesi. Attualmente purtroppo il dibattito intorno alle relazioni tra Turchia ed Europa ruota attorno alla questione del nazionalismo, delle identità, della religione, trascurando altre importanti verità.
Dal punto di vista sindacale qual è il bilancio del governo Erdoğan?
Lo dico apertamente, il periodo Erdoğan è stato da questo punto di vista il più negativo, realmente non è interessato alle questioni sindacali, credo che per noi siano stati anni persi.
Da anni la destra è al potere in questo paese e la sinistra non riesce a essere un’alternativa. Noi come sindacato siamo impegnati da tempo nel tentativo di favorire una coalizione di sinistra, per avere una socialdemocrazia più moderna che sia un’alternativa concreta per il paese, il modello italiano.
Effettivamente si parla spesso nella sinistra turca del modello italiano…
Sì, se ne parla molto, certo il nostro sistema elettorale è molto diverso ed è impossibile riprodurre il modello italiano ma è possibile trovare altre soluzioni.
Noi pensiamo ad un’alleanza tra SHP, DSP, ÖDP, ed anche il CHP. Io credo rispetto a questo partito bisogna distinguere tra la base e la dirigenza, io credo veramente che la base del CHP sia di sinistra, il problema nasce dalla dirigenza. Il CHP ha una tradizione di sinistra, socialdemocratica.
C’è sete di sinistra in questo paese ma servono persone e programmi in grado di convincere la gente.
Perché il suo sindacato non ha aderito alla manifestazione di sabato contro la candidatura Erdoğan?
Perché essere contro la candidatura Erdoğan per noi non significa accettare qualsiasi cosa. Le iniziative che cercano soluzioni al di fuori della democrazia non appartengono alla nostra tradizione. Non sto parlando delle migliaia di persone che hanno partecipato alla manifestazione e che erano mosse da autentiche preoccupazioni per il futuro della democrazia in questo paese, rispettiamo queste persone. Parlo invece di alcuni discorsi che sono stati fatti e che non coincidono con le nostre posizioni, così come tra gli organizzatori c’erano persone alla ricerca di soluzioni non democratiche. Per intenderci faccio riferimento alla persona che anni fa ha gambizzato il presidente dell’Associazione per i diritti umani Akin Birdal e che era tra gli organizzatori della manifestazione. Certo, c’erano anche persone perbene ma questo non cambia la nostra posizione.
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