Periferie a rischio
C’è allarme sull’economia dell’Europa orientale. A preoccupare è soprattutto il prosciugarsi del flusso di denaro, proveniente dalle banche occidentali, con cui i paesi dell’area hanno finanziato crescita e consumo. Un modello di sviluppo che ora viene messo apertamente in discussione
La crisi arriva in Europa centro-orientale, Balcani compresi, rischia di mandare al tappeto l’economia regionale e, per effetto domino, potrebbe provocare nuovi scossoni a livello globale. Sono queste le conclusioni a cui sono arrivati, nelle ultime settimane, politici, economisti e mass-media, corsi al capezzale della regione che, improvvisamente, si scopre al centro di una nuova area di turbolenza economico-finanziaria.
Già da tempo i segnali d’allarme si erano moltiplicati, ma a catalizzare l’attenzione sulle economie dell’Europa centro-orientale è stata l’analisi del Moody’s Investors Service dello scorso 17 febbraio. L’agenzia, basata a New York, ha avvertito che potrebbe abbassare il rating delle banche occidentali che, in questi anni, hanno finanziato massicciamente le economie della "nuova Europa". Le azioni delle banche in questione hanno subito un’immediata e forte flessione, portando al ribasso tutti i principali indici a livello mondiale.
"Dopo la crisi delle ‘tigri asiatiche’ del 1997, e il ‘crack argentino’ del 2001, il 2009 sarà l’anno dell’Europa orientale?", si è chiesto nel suo ultimo numero l’Economist, sintetizzando le forti preoccupazioni che attraversano il Vecchio continente, e non solo.
L’altra grande agenzia di rating, Standard & Poor’s, ha invitato a non generalizzare troppo la situazione in un’area economicamente eterogenea, e divisa tra paesi già membri dell’Ue, paesi in lista d’attesa e paesi senza chiare prospettive di inclusione.
Nell’area Ue le economie più fragili risultano quelle dei due nuovi membri balcanici, Romania e Bulgaria, insieme a quelle ungherese e dei paesi baltici. Se guardiamo ai Balcani occidentali, ancora fuori dall’Unione, tutte le economie appaiono in fase di sofferenza acuta: sui media di Belgrado si parla apertamente di possibile bancarotta dello stato, la Croazia annaspa tra crollo della produzione industriale e aumento del debito estero, in Macedonia, negli ultimi sei mesi, la Banca centrale ha speso la cifra record di 53 milioni di euro per difendere il corso del dènaro.
Per capire cosa sta succedendo bisogna fare un passo indietro. Nei decenni passati, molti dei paesi dell’Europa centro-orientale hanno aperto il proprio mercato bancario a grandi gruppi occidentali (nei Balcani soprattutto austriaci ed italiani) che hanno assunto il ruolo di finanziatori sia del consumo interno che del sistema produttivo, indirizzato principalmente all’esportazione, rendendo così possibile un tasso di crescita molto sostenuto.
I paesi interessati hanno accumulato un forte debito nella bilancia dei pagamenti, ma finché il flusso di denaro era abbondante, nessuno si è preoccupato troppo dell’acuirsi del problema. Le cose, però, sono cambiate drasticamente con l’esplodere della crisi, covata nelle stanze della "finanza creativa" di Wall Street, che ha portato ad una stretta dei canali di credito.
Secondo l’Economist molte banche dell’Europa orientale, che hanno prestato denaro in modo sproporzionato alle proprie possibilità, sono oggi alle strette. "Alcune sono già fallite, mentre quelle di proprietà straniera dipendono totalmente dalla capacità delle loro case-madri, che hanno fin troppi problemi in casa propria, di continuare a finanziarle".
Sulla questione è intervenuto Joaquín Almunia, Commissario europeo per gli Affari Economici e Monetari. "Aumenta la preoccupazione verso la Romania e l’Ungheria, ma anche per tutti i paesi dell’Europa sud-orientale, sulle fonti di finanziamento dell’economia. Qui l’espansione economica è stata finanziata dall’esterno, e ora questi paesi hanno problemi col debito accumulato. La regione è a rischio, e il problema ormai non è più solo economico, ma di sicurezza".
A essere messo in discussione è l’intero modello di sviluppo di questa parte del continente, basato su "turbo-capitalismo" di ispirazione americana, apertura dei mercati e denaro preso in prestito per sostenere la crescita.
Per molti europei che vivono al di là di quella che era la Cortina di ferro, oggi restituire il denaro preso in prestito è diventato più difficile. Innanzitutto perché le economie europee più sviluppate, in recessione e segretamente (ma non troppo) tentate dalla risposta protezionistica, non assorbono più le esportazioni provenienti da est. Molte aziende stanno chiudendo o diminuiscono la produzione, e la disoccupazione è tornata a salire (in Croazia ha toccato la cifra record del 14,5%).
Un altro problema deriva poi dalla nuova "cortina" che divide l’Europa, stavolta non più politica, ma monetaria. Molti paesi che non hanno adottato l’euro, fuori e dentro l’Unione (Romania, Ungheria, Serbia) hanno visto le proprie monete perdere drasticamente valore nei confronti della moneta unica europea. Visto che buona parte dei crediti è stato fornito in valuta forte (euro e, in misura minore, franchi svizzeri) oggi l’onere per i cittadini e le imprese che devono restituirli è aumentato in modo sostanzioso.
Le cose, per il momento, vanno meglio in Bulgaria, la cui moneta (il lev) è agganciata all’euro, e che, per una volta, è stata pubblicamente lodata da Bruxelles per la sua politica fiscale accorta. L’attuale stabilità potrebbe essere però pagata in seguito, quando un lev artificialmente caro potrebbe abbassare la capacità del paese di essere concorrenziale sul mercato.
Il rischio, per le banche, è quello di non riuscire a recuperare i soldi prestati. "La questione è semplice", ha dichiarato l’analista Robert Brusca sulle pagine del New York Times, "l’Europa orientale è diventata la versione tutta europea del mercato dei subprime". L’eventuale crack, però, si allargherebbe ben oltre i confini regionali. "Esiste un rischio di contagio verso le economie più sviluppate attraverso il canale bancario", ha dichiarato recentemente Dominique Strauss-Kahn, direttore del Fondo Monetario Internazionale (Fmi).
Per il momento la situazione, seppur in un crescendo di timori, non sembra ancora sfuggita di mano. "Non avremo problemi di funding per le divisioni nell’Europa Centro-orientale", ha detto recentemente Federico Ghizzoni, responsabile della divisione Emerging Markets di Unicredit, uno dei gruppi più attivi nell’area. L’Ue, ricorda poi il Guardian di Londra, supporta già la regione sia con pagamenti diretti che attraverso l’Fmi.
La cosa fatica però a consolare paesi in cui, dopo anni di crescita sostenuta, l’abbattimento del tasso di sviluppo o addirittura la recessione sembrano dietro l’angolo. A esacerbare gli animi c’è la consapevolezza che la crisi, fondamentalmente, è stata importata dai grandi centri finanziari. "Questa crisi è partita dal centro", ha recentemente affermato a Belgrado l’economista e premio Nobel Joseph Stiglitz, "ma sarà la periferia a sopportare le conseguenze più gravi, con la diminuzione delle esportazioni e degli investimenti diretti".
Per dare un’idea delle proporzioni del fenomeno, basta citare una stima dell’Institute of International Finance, istituzione che raccoglie i più grandi gruppi bancari al mondo, secondo cui il flusso di capitali verso gli emerging markets dell’Europa orientale crollerà quest’anno a 30 miliardi di dollari, rispetto ai 254 registrati nel 2008.
Molti governi della regione, pur potendo influire ben poco sulle dinamiche globali, si sono affrettati a elaborare piani anti-crisi per salvare le proprie fragili economie reali.
Una prima linea d’intervento è diretta ad assicurarsi fondi dall’esterno, attraverso l’Ue e le grandi organizzazioni finanziarie mondiali. Il governo serbo ha chiesto un prestito di 400 milioni di euro alla Commissione europea, ed uno di 235 milioni alla Banca Mondiale. Il denaro, ha dichiarato il premier Cvetković verrà speso con l’obiettivo di salvaguardare l’occupazione e la stabilità del dinaro.
Martedì 24 febbraio anche George Pogea, ministro delle Finanze rumeno, ha dichiarato che per il paese è ormai difficile pensare di non ricorrere ad un aiuto finanziario da parte dell’Ue o del Fmi, seguendo l’esempio di Ungheria e Lettonia. Altre misure sono invece volte a rianimare il mercato interno, soprattutto con la promozione di grandi progetti infrastrutturali.
A prescindere dall’impostazione più o meno pessimista, su un punto tutti sembrano d’accordo: i membri più ricchi e sviluppati dell’Unione europea dovranno investire seriamente per evitare che la porzione orientale del continente passi dalla recessione alla catastrofe. Non per altruismo, ma perché i legami tra le economie da una parte all’altra d’Europa sono così stretti che l’eventuale crollo non lascerebbe nessuno incolume.
Alcune iniziative sono già state messe sul campo. Dopo aver visitato Croazia, Romania, Bulgaria e Ucraina, il ministro delle Finanze austriaco Josef Pröll ha elaborato un piano di salvataggio del sistema bancario dell’area che, probabilmente, verrà presentato ai colleghi europei durante l’incontro del ministeriale del 10 marzo prossimo. Voci di corridoio, che parlano di un intervento da 150 miliardi di euro, sono state però smentite dal diretto interessato.
Il piano, in cui alcuni malignamente vedono obiettivi tutt’altro che altruistici (le banche austriache si sono esposte in Europa orientale per 277 miliardi di dollari, pari al 75% del Pil del paese alpino) è stato accolto con una certa freddezza, soprattutto a Bruxelles.
"Anche se l’Ue o la Banca centrale europea forse non hanno molta voglia di intraprendere piani di salvataggio più impegnativi, proprio questo andrà fatto", avverte però ancora l’Economist. "Nemmeno il politico occidentale meno lungimirante può volere i propri vicini nell’anarchia economica e politica".
Per i paesi dell’area già integrati nell’Unione, questa è l’occasione di verificare se alla retorica della solidarietà farà seguito anche l’esercizio, mai piacevole, di mettere le mani al portafoglio. Per chi aspetta ancora di entrare, invece, è il momento per capire quanto questa prospettiva resti una priorità anche per l’Ue. Il summit straordinario dell’Unione, convocato per il 1° marzo, darà le prime risposte.
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