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Perché la Slovenia è in piazza

Dove è finita la sua proverbiale tranquillità mitteleuropea? Da settimane la Slovenia scende in piazza e il prossimo 23 gennaio è in programma lo sciopero del settore pubblico. Un commento

18/01/2013, Franco Juri -

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Fino a qualche anno fa la Slovenia veniva raccontata come una storia esemplare, una storia di successo, esibita come il fiore all’occhiello di un’Europa che guarda , da madre amorevole, ai Balcani. L’incantesimo ora si dilegua ; la crisi politica scaturita da quella economica e dalle scelte "merkeliane" fatte sia dall’attuale governo di centrodestra, guidato da Janez Janša che, in termini più soffusi, dal precedente governo di centrosinistra di Borut Pahor, assume dei connotati per molti versi inquietanti, ma che in fondo riflette perfettamente, in uno spazio piccolo e in uno scenario politicamente incestuoso, gli obiettivi della »rivoluzione« conservatrice e neoliberista in corso nell’Unione Europea.

In termini di parametri economici e sociali la Slovenia non è la Grecia. Negli ultimi vent’anni non è stata nemmeno parte di quella "nuova Europa" ex-sovietica che per fare i conti con il passato comunista aveva optato per modelli economici brutalmente capitalisti e senza alcuna pietà per lo stato sociale e la tutela dei diritti sindacali, indicati come uno scoglio pericoloso per lo sviluppo e la prosperità. La Slovenia aveva mantenuto invece la guardia alta, introducendo le regole di mercato gradualmente, senza applicare modelli eccessivamente liberisti e mantenendo un’invidiabile livello di welfare, da molti giudicato "scandinavo".

La privatizzazione è stata realizzata in termini selettivi che hanno escluso le grandi società statali, le infrastrutture, la scuola e la sanità. Ma se ciò ha reso possibile il mantenimento di una struttura pubblica che tiene in piedi lo stato sociale ed una certa equità per i cittadini, l’applicazione di quello che viene definito "l’interesse nazionale" anche nella privatizzazione, e che in termini poveri significa il mantenimento del capitale privato in mani slovene, ha generato anche fenomeni di clientelismo politico-finanziario e corruzione diffusa.

Molte aziende pubbliche sono così passate nelle mani di manager nazionali senza scrupoli, ex direttori di imprese pubbliche legati a questa o quella opzione politica, ma anche politici ed ex ministri, che con i crediti agevolati e spesso senza alcuna garanzia offerti dalle banche statali, in base alle amicizie e influenze politiche, nonché grazie ai vantaggi di essere degli insider, hanno acquistato il grosso delle azioni, dando via a deleterie speculazioni che hanno spesso portato al lastrico o a una svendita strumentale a nuovi proprietari stranieri imprese un tempo sane e affermate anche sul mercato internazionale.

Agli occhi dell’opinione pubblica la politica, e con essa la stessa democrazia parlamentare, viene così percepita sempre di più come un’infrastruttura al servizio della corruzione e del clientelismo. Da ciò la valanga antipolitica degli ultimi mesi che sta portando in piazza migliaia di sloveni arrabbiati.

Ma la goccia che ha fatto traboccare il vaso e avvicina la Slovenia agli scenari greci è la radicale politica di austerità imposta da un anno a questa parte dal governo di Janez Janša. Quasi volesse mettere in pratica la dottrina dello shock, descritta nell’omonimo libro di Naomi Klein, Janša, un ex comunista, diventato alla fine degli anni ottanta un "eroe" dell’indipendenza e un irriducibile nazionalista conservatore, oggi emule dichiarato dell’autoritario collega e amico ungherese Victor Orban, ha esordito il suo secondo mandato da premier (il primo si era consumato tra il 2004 e il 2008 con la sua sconfitta elettorale) senza mezzi termini, presentando alla nazione uno scenario apocalittico. La sua determinazione ha avuto sin dall’inizio un neo indelebile; fu proprio Janša e il suo apparato parapolitico a bloccare, dai banchi dell’opposizione al governo Pahor e dai pulpiti della "società civile", ogni seppur timida riforma strutturale, come ad esempio quella pensionistica e persino la lotta al lavoro nero.

Il fine era la destabilizzazione del governo e le elezioni anticipate che non ha vinto ma che grazie a un nuovo protagonista politico, la lista civica di Gregor Virant, di forte ispirazione neoliberista, è riuscito, da secondo partito, a cavalcare abilmente fino ad essere eletto premier di una coalizione di centrodestra con l’avallo deciso dei vertici della chiesa cattolica. L’ago della bilancia, oltre all’ambiguo Virant che si era presentato alle elezioni anticipate del 2011 come l’alternativa liberale e "pulita" a Janša, è stato nuovamente il partito camaleonte dei pensionati (Desus), presente in ogni coalizione.

Oggi Janša propone riforme durissime accompagnandole a evidenti restrizioni degli spazi democratici, a un rafforzamento dell’apparato repressivo e colpendo soprattutto il settore pubblico e le infrastrutture sociali. Il suo »chicago boy«, il ministro del tesoro Janez Šušteršič (quota Lista civica di Virant) è determinato a portare in porto un piano di liberalizzazione e privatizzazione del settore pubblico che ricorda da vicino il modello economico applicato in America latina degli anni ’80 e ’90. Una rapida ritirata dello stato dall’economia che passa per una centralizzazione transitoria del patrimonio pubblico, finora frammentato nella gestione di tre agenzie parastatali, ovvero per una holding in grado di concentrare tutti i beni statali nelle mani del governo e snellire le pratiche di privatizzazione. L’idea liberista di Šušteršič conta del deciso appoggio delle istituzioni finanziarie europee e internazionali anche se queste non risparmiano al governo Janša più di qualche critica per i metodi pasticciati con cui le riforme vengono imposte, causando una conflittualità sociale e un inasprimento politico mai vissuti prima d’ora in Slovenia. Anche per questo Janša è già da considerarsi un politico bruciato.

In verità la Slovenia rimane lontana dalla Grecia, visto che può ancora esibire dei parametri macroeconomici non tanto dissimili da quelli medi europei e di paesi considerati stabili. Ad esempio il suo debito pubblico ammonta al 44,4% del PIL, mentre quello medio della zona euro – secondo Eurostat- è dell’ 87,4% , in Italia del 119,4%. Anche l’inflazione e la disoccupazione rimangono assestati sulle medie della zona euro, mentre il disavanzo tende ad aumentare e tocca attualmente il 6,4% del PIL. Secondo il governo sono indispensabili drastici tagli alla spesa pubblica, i suoi critici invece avvertono che la radicale politica di austerità avviata nell’ultimo anno, con tagli ai salari, alle pensioni, con i licenziamenti e l’aumento della disoccupazione, soprattutto giovanile, il tutto accompagnato da una ferrea politica fiscale, sta maciullando la classe media, mettendo in ginocchio i servizi pubblici e distruggendo il mercato interno. L’ effetto è deleterio e di taglio argentino nel periodo Menem. Lo sviluppo è paralizzato, il paese demoralizzato, le entrate sono ulteriormente ridotte e il deficit aumenta, la fuga di cervelli diventa una prassi quotidiana. Chi può se ne va. Il tutto diventa, agli occhi e allo stomaco del semplice cittadino, ancor più indigesto nel vedere aumentare i casi di corruzione, clientelismo, nepotismo, privilegi e impunità della casta politica.

In queste circostanze anche la proverbialmente tranquillità mitteleuropea, la diligenza, la laboriosità e l’ubbidienza slovena non sono bastate ad evitare la piazza. La rabbia, scoppiata per prima a Maribor, a causa di un sindaco corrotto e arrogante e di un clero – lo stesso che appoggia Janez Janša – con le mani in pasta nel crack finanziario più dirompente nella storia della chiesa e che ha fatto sobbalzare persino il Vaticano, quello delle società Zvon 1 e Zvon 2 di proprietà dell’Arcidiocesi di Maribor, si è rapidamente diffusa a tutto il paese, non sempre in termini politicamente articolati e con una forte vena anti-politica.

L’ultimo scandalo emerso con il rapporto della Commissione per la lotta alla corruzione che ha documentato anni di mancata denuncia dei redditi da parte dei due principali politici sloveni, il premier Janša e il leader dell’opposizione, nonché sindaco di Lubiana e imprenditore Zoran Janković, ha gettato nuovo olio sul fuoco. Tanto più che i due politici di punta, invece di dimettersi, continuano a fare i furbetti, cercando di schivare le accuse e attizzando lo scontro ideologico.

Janez Janša ha cercato di difendersi chiamando in causa l’appoggio di un imbarazzatissimo presidente del Consiglio Europeo. Herman Van Rompuy non ha né confermato, né smentito il presunto appoggio al premier sloveno.

La bagarre politica è generalizzata, la coalizione di governo è in crisi profonda, le accuse reciproche si moltiplicano, ma nessuno vuole seriamente delle elezioni anticipate. Nemmeno l’ambasciatore statunitense che è entrato direttamente nella mischia sconsigliandole e cercando di mediare tra i partiti della destra.

Intanto si avvicina il 23 gennaio con lo sciopero del settore pubblico annunciato dai sindacati e una nuova probabile ondata di manifestazioni popolari che nemmeno il controllo di Facebook da parte della polizia, le minacce del governo e le multe imposte ai suoi organizzatori (tra questi persino l’ università di Lubiana e al suo rettore Stane Pejovnik) potranno arginare.

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