Perché il bambino cuoce nella polenta
Un’antica fiaba. La sorella la racconta alla protagonista del romanzo "Perché il bambino cuoce nella polenta" per distoglierla dalla paura che la madre, circense, cada nel vuoto. Una recensione
(Pubblicato originariamente sul sito web www.michelenardelli.it)
Solo ora, dopo la lettura del libro di Aglaja Veteranyi, ho compreso il senso profondo di quelle parole con le quali l’amico Gheorghe, artista rumeno, qualche anno fa a fronte del mio quasi rimprovero verso le sue superstizioni e paure, aveva chiuso la discussione: “Voi – mi disse Gheorghe – non potete capire”.
Ci voleva l’universo parallelo dei circensi rumeni. Ci volevano gli odori, la cucina greve, le file per il pane «che diventa professione», la paura che ti entra nella carne, per farmi comprendere per davvero quelle parole.
Perché il circo è l’immagine appena deformata della realtà, la rappresentazione tragicomica della condizione umana. Puoi fuggire, andartene altrove, ma non te la togli di dosso, ti impregna la vita… Puoi persino elaborarla, ma è sufficiente un poliziotto qualsiasi che esibisce il suo misero potere per riportarti giù, nell’abisso del sopruso.
Per abitare il quale il romanzo di Aglaja Veteranyi è una chiave potente. Un acquerello geniale che ci aiuta a capire la fatica del vivere, in Romania, in Svizzera o altrove, poco importa. «Il circo è sempre all’estero». Nel terrore quotidiano per la madre che volteggia appesa per i capelli esorcizzato dal racconto del bambino che cuoce nella polenta. O, per altro verso, nell’abbandono in collegio, terreno fertile di esercizio di violenza e potere da parte di una qualsiasi signora Hitz che ti ossessiona con i bambini poveri che in Africa muoiono di fame (senza mai essere stata né in Romania, né in Africa). O, ancora, nell’ordinario abisso della vita, dove «l’inferno è dietro il paradiso».
L’abisso è ovunque, come la guerra. Non conosce confini, che sia il paese del Conte Dracula o quello degli orologi. Il regno del calzolaio (1) che ha circondato il paese con il filo spinato («sua moglie ha mezza città piena di scarpe, usa le case come armadi») o quello delle banche che si sono arricchite con i tesori rubati dai nazisti. Il comunismo o il desiderio di occidente che lo pervadeva. «Piatti a specchio di Elvis sul comò, fiori di plastica, una Madonna con luce incorporata, un candelabro a sette braccia, una grande bottiglia gonfiabile di champagne, una donna di ghisa con scopa, i denti di un animale selvatico».
Non so se l’abisso ereditato nei paesi dove si doveva costruire l’uomo nuovo sia più abitabile di quello con «l’acqua calda nel bagno e un frigorifero nel cuore». Globalizzazione e interdipendenza riducono le distanze. Di certo «la felicità me l’ero immaginata diversamente».
Forse in Romania, la differenza la fa il fango.
Mi vengono in mente le battute finali di un film strepitoso (2) sulla rivoluzione del 1989. In una redazione televisiva il dibattito si sviluppa attorno alla domanda: c’è stata o no la rivoluzione nella nostra città? Il confronto è esilarante senza trovare risposta. Finché…
«C’è un’altra telefonata».
«Pronto, mi chiamo Tina. Mio figlio più grande è morto il 23 dicembre a Bucarest, all’aeroporto Otopeni».
«Mi dispiace tanto, signora… Ma quello che ci interessa sapere è cosa è successo nella nostra città, non a Bucarest».
«Ma io non vi ho chiamato per smentire quello che avete detto. Vi ho chiamato per dirvi che fuori nevica».
«Fuori nevica?»
«Sì, nevica, come una volta. Siate felici per questa neve, perché domani sarà di nuovo tutto fango. Buon Natale a tutti».
Un libro autobiografico, quello di Aglaja Veteranyi, figlia di circensi rumeni. Il suo abisso finirà a quarant’anni, il 3 febbraio 2002, nel lago di Zurigo. (m.n.)
Note:
(1) Così la mamma di Aglaja chiama Nicolae Ceaușescu, «Il dittatore di mestiere è calzolaio»
(2) Il riferimento è al film del regista Corneliu Porumboiu “Ad est di Bucarest”
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