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Per un’Europa meno blues e più rock

Non basta un approccio tecnocratico ma serve ritornare a far politica sul serio. L’Europa, i Balcani e il Kosovo in questo contributo di Christophe Solioz

26/09/2007, Redazione -

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Di Christophe Solioz, intervento al convegno "Balcani, banco di prova per l’Europa", Siena 26 settembre 2007

Il ritorno della politica

Oggi, la parola Europa non si riferisce solamente all’Europa occidentale, neppure unicamente all’Unione Europea. La caduta del muro di Berlino, le guerre balcaniche (soprattutto il lunghissimo dopo-guerra nell’ex Jugoslavia), l’ultimo allargamento dell’Unione Europea e il ritorno in gioco della Russia hanno cambiato il volto dell’Europa in questi ultimi anni.

Dopo il segnale politico forte di Salonicco nel 2003, nonostante certi progressi nel 2005, il processo d’integrazione europea dei Balcani è stato quanto meno rallentato ed è stato condotto, purtroppo, soprattutto in termini tecnici — ci si è dimenticati l’importanza della dimensione politica:

Nel 2003 si pensava che l’UE sarebbe stata capace di far avanzare il proprio processo di riforme per poter procedere con l’integrazione dei Balcani. Il "no" della Francia e dei Paesi Bassi nell’estate del 2005 al referendum sulla ratifica del Trattato di Costituzione per l’Europa ha segnato anche la "fatica dell’Europa", un "blues dell’Europa", che aveva come conseguenza il blocco del processo d’allargamento.

Si sperava anche che l’opinione pubblica — col passare degli anni — si sarebbe convinta della necessità di integrare i paesi dei "Balcani occidentali". L’opinione pubblica però "non ha cambiata idea" e oggi sembra meno convinta di prima del processo di avanzamento.

Anche all’interno delle varie Repubbliche ex jugoslave, la dimensione tecnica e la "enlargement fatigue" erano motivi "ideali" per rallentare con le riforme e — soprattutto — per bloccare l’apertura di un vero e proprio dialogo politico sulle riforme fondamentali (in modo particolare le riforme costituzionali se pensiamo al caso della Bosnia).

Si pensava che procedendo "dal basso", si sarebbe potuto evitare — o rimandare a tempi migliori — il confronto con le questioni politiche. Questa strategia invece ha rinforzato gli altri partner della comunità internazionale, soprattutto gli Stati Uniti, ma anche le élite locali corrotte — rendendo più deboli le forze necessarie al cambiamento.

Vorrei anche accennare brevemente all’esempio del Kosovo. Lasciando fuori la Russia dai negoziati sul Kosovo, si pensava che essa avrebbe infine appoggiato una soluzione della questione del Kosovo. Il processo condotto da Martti Ahtisaari – centrato essenzialmente su questioni tecniche – ha dimenticato la dimensione politica e geo-politica: lo si è capito troppo tardi. In seguito la Russia è stata inclusa nel nuovo processo diplomatico iniziato questa estate. Troppo presto si è pensato che la potenza russa fosse ormai fuori gioco ed è stata dimenticata, purtroppo, la necessità di rinnovare la politica pan-europea.

Mentre le forze politiche locali – in particolare in Bosnia Erzegovina, Serbia, e Unmik/Kosovo – sono incapaci di mettersi d’accordo sul loro futuro, risultano ormai evidenti i limiti dell’approccio tecnocratico applicato con successo dalla Commissione europea ai nuovi membri Ue entrati nel 2004 e a Romania e Bulgaria

Dati i connotati molto politicizzati del dibattito sull’ingresso di Croazia e Turchia e considerando le questioni di sicurezza date dai casi di Unmik/Kosovo, Serbia e Bosnia Erzegovina, l’Ue deve ripensare il suo progetto europeo nel sud est Europa.

Non si dovrebbe dimenticare che il processo di allargamento europeo nella regione è anche, per molti aspetti, un processo di pace. I limiti dati della natura tecnica dei negoziati di ammissione rappresenta però solo uno dei problemi. Un altro tema cruciale è quello della cooperazione regionale, in particolare se consideriamo il peso in tutto questo dello sviluppo economico.

Occorre sia nell’UE che nei Balcani recuperare una dimensione prettamente politica. Ma forse è tardi per capire che bisogna fare politica sul serio.

Il processo di transizione e le nuove divisioni in Europa

Per quanto concerne il processo di transizione e di trasformazione nei Balcani — mi riferisco qui ovviamente all’ex Jugoslavia — occorre tenere presente che:

Primo, venne bloccato nel periodo Markovic (1989-1991): infatti, l’accordo d’associazione tra la Jugoslavia e l’Europea dei dodici (la Comunità economica europea / CEE) non si concluse — in grande parte per colpa della CEE (siamo allora nel 1990);
Secondo si scelse la via di una transizione tramite le guerre (transition guerrière) — mentre, col Trattato di Maastricht (7 febbraio 1992), nasceva l’Unione Europea (UE);
Terzo, dopo le nuove guerre balcaniche saranno i nuovi stati, dato che la Jugoslavia non esiste più, ad avvicinarsi progressivamente, ognuno a modo suo, all’UE — il 1° gennaio 1995 l’Europa dei dodici diventa l’Europa dei Quindici (entrano a far parte dell’UE: l’Austria, la Finlandia e la Svezia).

Fatta eccezione per la retorica e le varie iniziative regionali, l’aspetto regionale e la dimensione pan-europea vengono messi da parte. Infatti domina l’approccio scelto dall’UE — Paese per Paese — che presume una possibile soluzione di questioni politiche ed economiche in modo isolato; dimenticando l’importanza del contesto regionale. In Kosovo, altrove (Croazia e Slovenia) con le questioni di confine ancora aperte, emergono tutti i limiti di un approccio del genere.

Ma c’è di più. Nella recente fase d’allargamento sono stati inclusi alcuni paesi dei Balcani (la Grecia, la Slovenia, la Bulgaria e la Romania); ma, purtroppo, questa dinamica non favorisce un approccio coerente, né la promozione di relazioni regionali. L’effetto paradossale è che questa situazione introduce nuove divisioni in Europa: tra paesi membri dell’UE, paesi non ancora membri e paesi che probabilmente non lo saranno mai. Solo un esempio: per rispettare i requisiti per l’ingresso nell’area Schengen, la Slovenia sta per chiudere 115 valichi di frontiera con la Croazia. Lo stesso accade tra la Romania e l’Ucraina. Ovviamente, allo stesso tempo, si chiede a questi paesi di sviluppare i rapporti interstatali, cioè regionali!

Oggi assieme bisogna promuovere: le riforme a livello statale, e quindi nuove relazioni a livello regionale; l’UE e la grande Europa, cioè la dimensione pan-europea:

Una nuova conferenza balcanica permetterebbe di risolvere le questione ancora aperte e di sviluppare nuove relazioni interstatali.
Chiaramente, le varie organizzazioni pan-europee — come l’OSCE, il Consiglio d’Europa e quindi le varie agenzie dell’ONU — devono alzare il profilo politico e integrare le strategie dell’UE.

Un nuovo slancio

Cosa fa l’UE oggi al livello delle proprie riforme? I negoziati per l’elaborazione di un nuovo "trattato di riforma" sono stati avviati solo di recente, il 23 e 24 luglio 2007. Con questo, l’UE cerca di dare una valida base istituzionale e politica all’Europa del XXI secolo, comprese le strutture adatte per integrare i Balcani. La speranza è che il "trattato di riforma" possa essere approvato e ratificato prima delle elezioni europee del giugno 2009. Non sono i Balcani, ma bensì l’UE che si concede un lento!

Risulta più che mai importante per il futuro dell’Europa, dimostrare che il consenso emerso nel 2003 al vertice di Salonicco sulla questione dei ‘Balcani occidentali’ — confermato dalle conclusioni della Presidenza nel Consiglio Europeo del giugno 2005 — non è carta straccia.

Ciò che oggi manca drammaticamente non può essere risolto con un approccio tecnocratico, non convincerebbe nessuno, né nell’UE, né nei Balcani. Bisogna quindi dare il via ad un processo di integrazione europea rinnovato, basato su una nuova politica.

Parlare unicamente di capacità di assorbimento dell’UE, di un’applicazione di una condizionalità rigorosa ed introdurre un processo di valutazione post-adesione (come viene gia applicato ai nuovi stati membri quali la Romania e la Bulgaria) non rappresenta di certo un incentivo per "aprirsi verso il futuro".

Serve quindi un nuovo slancio, un manifesto che sappia innescare una mossa politica capace di portarci sull’orbita giusta. Ed è proprio questa l’idea che sorregge l’iniziativa del Center for European Integration Strategies (CEIS) e del Centre for European Perspective (CEP), lanciata col sostegno dell’Ambasciatore Wolfgang Petritsch e del ministro degli Affari Esteri della Slovenia Dimitrij Rupel: sollecitare la partecipazione di tutti i ministri degli Affari Esteri dei Balcani per pubblicare assieme — nella primavera del 2008 — un libro-manifesto per convincere le opinioni pubbliche e i paesi membri dell’UE che i Balcani fanno parte non solo dell’Europa, ma anche dell’UE. Questo libro-manifesto riattualizzerebbe il messaggio di Danilo Kiš: la Jugoslavia fa parte dell’Europa e bisogna riconciliare l’anima dei Balcani con la tradizione europea. (D. Kiš, Scrivo per unire mondi lontani, pubblicato sul "Corriere della sera", 26 maggio 1989).

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