Tipologia: Intervista

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Per un anno ancora

Il 2007 doveva essere l’anno di chiusura degli uffici dell’Alto Rappresentante in Bosnia Erzegovina. Non sarà così. Il Peace Implementation Council ha deciso di prorogare la presenza internazionale di un anno. Un’intervista all’attuale Alto Rappresentante Christian Schwarz-Schilling

02/03/2007, Redazione -

Per-un-anno-ancora

Di Tomas Miglierina*
La comunità internazionale ha deciso di rimanere in Bosnia ancora un anno rispetto a quanto era stato previsto. E’ un segnale che in Bosnia Erzegovina permangono problemi irrisolti?
E’ il segnale che i tempi non erano ancora maturi affinché l’OHR chiudesse le sue porte e la Bosnia di conseguenza assumesse piena responsabilità sul proprio sviluppo politico. Per questo abbiamo scelto di lasciare ancora un anno di tempo, e questo è dovuto anche naturalmente alla situazione dell’intera regione. Chiudere l’OHR ora – quando nella regione vi sono altre situazioni problematiche, basti pensare alla situazione tra Serbia e Kosovo, dove vi è una situazione complessa che va risolta entro l’anno – sarebbe stato inopportuno.

E poi all’ interno della Repubblika Srpska vengono certe associazioni provenienti dalla Serbia con dei commenti di politica che sono – direi – un po’ infelici o comunque non in accordo con il processo di Dayton.

Tutto ciò ha rafforzato la convinzione che le nostre preoccupazioni erano serie e che non era auspicabile chiudere proprio adesso l’OHR e quindi la data è stata spostata di un anno, al 30 di giugno. Vi saranno prima due momenti di valutazione, uno in ottobre o marzo e l’altro agli inizi del 2008, dove si verificherà se le cose stanno andando bene e se si sta procedendo positivamente.
La comunità internazionale ha anche deciso una riduzione delle proprie truppe. In Bosnia non si rischia più il riemergere della violenza? Anche nel caso di tensioni in Kosovo?
Noi non decidiamo in merito alla missione EUFOR, le decisioni vengono prese dall’EUFOR stessa con le proprie istituzioni di riferimento. Ciò che noi abbiamo fatto è stato solo di dare un nostro assessment. Riteniamo che la presenza militare attuale sia più che sufficente per essere presenti, in un tempo relativamente breve, in qualsiasi parte della Bosnia. La riduzione dai 6000-7000 effettivi attuali ai 2000-3000 è a mio avviso possibile, serve solo affinare la logistica in modo che le truppe in qualsisi momento possano arrivare rapidamente in qualsiasi luogo della Bosnia.
Tra tutti gli Stati della ex Jugoslavia la Bosnia è stata tra quelli più aiutati da parte della comunità internazionale. Ciononostante è ancora lontana da una piena integrazione nell’Ue e anche dalla firma del Patto di stabilizzazione e associazione. Lo si deve considerare un fallimento dell’Europa e della Comunità internazionale?
I processi a volte vanno lentamente. E io trovo che l’impazienza da parte della comunità internazionale non sia opportuna. Quanto in Europa sono durate le conseguenze delle guerre? Se allora pensiamo a questi 10-12 anni ci rendiamo conto che è un tempo molto breve. Sviluppi virtuosi a volte durano decine di anni, a volte, se considero altre situazioni del passato europeo, centinaia di anni. E non ci si può nemmeno aspettare qualcosa di sovrumano. La guerra era in corso solo 12 anni fa e tutti coloro che abitano attualmente in Bosnia hanno vissuto personalmente le cose terribili che sono avvenute. Si consideri quanto accaduto a Srebrenica: tutto avvenuto davanti agli occhi anche di ragazzi e ragazze, e bisogna vedere come tutto ciò si è fissato nelle loro teste. Come si pretende che tutto passi in soli 12 anni se si ha assistito magari all’uccisione del proprio padre o della propria madre? Sono processi che non si possono risolvere in fretta. In Germania nel 1965 non si era ancora superato il trauma dell’Olocausto. Da questo punto di vista si deve capire la popolazione ed i politici bosniaci. Occorre che ciascuno abbia un approccio realistico dal punto di vista storico.
Parliamo della sentenza della Corte Internaizonale di Giustizia dell’Aja sul caso Bosnia contro Serbia per genocidio. Quella sentenza è stata commentata solo da lei e da Javier Solana; nessun altro nell’Unione europea o nella Comuità internazionale è intervenuto. Come mai?
Quando si analizza quella sentenza, sapendo che nel diritto internazionale è stabilito che il genocidio è una questione di diritto internazionale e che le nazioni partecipanti si sono impegnate ad evitarlo, allora mi chiedo come mai nessun paese europeo si sia posto la questione: che cosa significa quella sentenza per noi. I paesi europei allora potevano vedere bene che cosa si stava preparando laggiu. Io stesso allora diedi le dimissioni dal governo federale tedesco, per quello che adesso afferma la sentenza: che delle misure per prevenire il genocidio dovevano essere prese e questo non è avvenuto. E quindi questa è una conferma anche della mia decisione del 1992, solo che i destinatari – in Germania, in Inghilterra, in Francia – non si sentono affatto interpellati. E’ un’arroganza che non posso condividere e che continuerà fino a quando non comprenderemo che quella sentenza è anche per noi, forse anche di più che per un dittatore come Milosevic. Per lui il diritto internazionale non era in ogni caso una priorità. Ma quando interpellate sono delle democrazie, degli stati di diritto, la cosa è molto più importante. Quindi ci vorrà del tempo prima che il messaggio di questa sentenza venga compreso in Europa. Anche in America, ma in Europa di più, perché gli americani allora avevano deciso di impedire il genocidio imminente con un attacco militare, ma fu l’Europa ad impedirlo. Alla luce di ciò, questa è una condanna molto seria anche per l’Europa e ai governi europei farebbero bene a rifletterci.
Torniamo alle decisioni dei giorni scorsi del PIC, Peace Implementation Council: che messaggio porterà ai cittadini della Bosnia Erzegovina?
Dirò loro che è un’ulteriore occasione per andare verso un passaggio dall’amministrazione della comunità internazionale alla responsabilità delle istituzioni locali. E si deve andare avanti in questo processo altrimenti l’orientamento verso l’Eruopa rischia di andare perso o verrà messo in dubbio. E’ in ballo il destino dei figli e delle prossime generazioni.

Le decisioni prese dal PIC dimostrano da una parte la serietà della comunità internazionale che si sente ancora responsabile per quanto avviene, ma significa anche che i politici bosniaci devono sfruttare in modo efficace il tempo loro rimasto per rispondere a ciò che si chiede loro. Devono reagire in modo più pronto rispetto agli ultimi anni e devono sfruttare al meglio quest’ulteriore anno di presenza dell’OHR per assumersi piena responsabilità sulla gestione del loro Paese.

* Tomas Miglierina è corrispondente da Bruxelles per la RTSI

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