Pedalando verso Sarajevo: verde bandiera
L’ingresso in Bosnia, meno eroico del previsto. E poi le attenzioni di una locandiera. La sesta puntata di un viaggio in bici da Trieste a Sarajevo, in vista del Centenario dell’inizio della Prima guerra mondiale
Destra, destra, sinistra. Sono le scelte da fare, nell’ordine, ai tre bivi tra Rastovača e Zalopaca. Le bici arrancano e saltellano su un incantevole sterrato nel bosco, sconosciuto a carte e a Google Maps. La mattina è iniziata temeraria. Le truppe, rinvigorite dalle palačinke e rinnovate nelle camere d’aria (la tappa di Plitvice si era conclusa con una microforatura, di quelle che gonfi gonfi e dopo dieci minuti la ruota è di nuovo a terra), hanno deciso di abbandonare l’ortodossia rassicurante degli appunti per l’ignoto di una presunta scorciatoia.
Così eccoci nel bosco, rami che entrano nei raggi, mani che tremano sul manubrio, paura di sbucare in Nessunposto, lontanissimo dalla strada principale. Poi, gradito come mai, il rombo delle auto. Lo sterrato sbuca su asfalto, l’ultima conferma la dà il gps. Manubri a sinistra, verso Ličko Petrovo Selo. Poi a destra, verso la Bosnia. Sopravvissuti al bosco senza l’ausilio di miccette o corde doppie, quasi delusi del mancato incontro con gli orsi.
Lo diceva anche mia zia, che c’erano gli orsi. Almeno negli anni Settanta, quando, secondo un racconto pescato dal cassetto delle storie familiari, lei era arrivata a Plitvice poco più che ventenne con suo padre, suo zio e un paio di sorelle. Il patriarca, allontanatosi dal furgoncino alla volta del bosco con un rotolo in mano, era tornato in anticipo, affermando che “non ce l’aveva più”. Anzi, meglio ripartire per non essere sorpresi dal buio. Solo la sera, nella sicura comodità di un alberghetto, aveva confessato che la colpa dell’improvvisa stitichezza era di un orso, alimentando la leggenda della sua proverbiale calma. “Come quella volta – aveva concluso mia zia – che erano arrivati i tedeschi e lui prima di scappare aveva finito il caffelatte”.
Pregustiamo un’accoglienza da trionfatori al confine bosniaco, ma troviamo due giramondo canadesi a rovinarci la piazza. Coppia di mezza età, anno sabbatico tra Sudamerica, Nordafrica ed Europa. Le destinazioni fanno invidia, il carico – 95 chili in due – molto meno. Ogni tanto salgono su un aereo. Sconfitti nella gloria, battiamo i nordamericani in velocità e ci lanciamo in una discesa con dolci curve e piccoli villaggi, a sinistra di una vallata verde con decine di minareti. Per strada le prime donne col velo, vecchine vestite alla turca, carretti con i cavalli e bancarelle, di tappeti, padelle, dvd masterizzati di film e dischi appena usciti.
Entriamo a Bihać coperti di polvere, tra decine di cartelli pubblicitari del memorial Alija Izetbegović (una corsa di cavalli dedicata al compianto presidente), insegne di mobilifici, scaffali di colorifici, macellerie e benzinai. La prima sosta è per comprare una scheda telefonica. Non serve la carta d’identità e non accettano la carta di credito. Cerco contanti in banca. Scopro che nel paese si entra con la carta d’identità, ma per cambiare denaro serve il passaporto. Una signora in fila si offre di intestarsi l’operazione. Facciamo spesa per il pranzo, regaliamo spiccioli alla vecchina velata che ci ha già teso la mano quattro volte, puntiamo verso il fiume Una. Un uomo a metà tra il profeta e lo scemo del villaggio ci investe con una raffica di parole: “Difficilissimo il ramadan. Ma ti purifica. Undici ore senza cibo e acqua. Solo Dio ti dà la forza di farlo”, grida dall’ombra di un minareto.
Sulla riva del fiume il canto del muezzin si fonde con la techno che viene da una birreria dagli ombrelloni azzurri, accanto al monastero chiuso dietro un muro di pietra bianca. Lentissimo passa un uomo in carriola su un ponte, mentre noi mangiamo un panino (e due radler) sdraiati sul prato, sotto un platano a pochi metri dall’acqua verde. Le paperelle nuotano al ritmo di Johnny Cash, gli innamorati passano sulle barchette di legno senza notarci. Il monumento ai soldati canadesi a pochi metri da noi, e quello alla Bihaćka Brigada un chilometro più indietro, raccontano pezzi di storia di un lungo assedio.
Ripartiamo sulla statale accanto alla Una, la lasciamo dopo qualche chilometro di salita scendendo a destra con un tratto di sterrato, verso Kulen Vakuf e poi Martin Brod. Gocce di pioggia sulle moschee in costruzione, sulle babe che raccolgono peperoni, e danno da mangiare alle oche e trasportano capretti. Sulle tombe dei giovani bosgnacchi, sulle foto dei caduti incastonate su gigantesche lapidi di marmo a forma di Bosnia. La strada si avvicina e si allontana dal fiume, a volte lo sovrasta. Sul lato opposto fortezze in rovina e mura di città vecchie. Quando smette la pioggia ci accompagnano aquile e aironi. Buchi di arma da fuoco attorno alle finestre, ricoperti di intonaco alla bell’e meglio. Una casa abbandonata e senza infissi, sui muri esterni le grandi scritte a spray ‘ok’ e ‘sigurno’. Un’altra ribattezzata ‘hotel ritz’. I saluti dei bambini, gli incitamenti dai camper. E poi milioni di sfumature di verde, ancor più che a Plitvice. Qui ci sono anche gli stivali e le tute mimetiche dei pescatori, e le bandiere con lo spicchio di luna e la stella sulle cime dei minareti.
A Kulen Vakuf anche il ponte sul fiume batte bandiera saudita. Ci ristoriamo in un baretto proprio sull’acqua, prima degli ultimi dieci chilometri di nuovo sterrati. A Martin Brod, enclave ortodossa nella valle tutta musulmana, troviamo posto a casa di Zora. D’inverno gestisce un ristorante a Banja Luka, d’estate farcisce peperoni per i turisti, che vengono ad ammirare le cascate e le lavatrici azionate dai mulini ad acqua. Andrea le piace, chiede se è mio marito e alla risposta prudenziale “sì” si complimenta di gusto: “Bello, bello”, dice in italiano.
Mi precede per le scale per mostrarmi la stanza all’ultimo piano, con i tappeti che coprono il cemento e l’intonaco a vista sulle pareti. Toglie gli occhiali e il giornale dal lato del letto del marito, tira lo sciacquone in bagno, passa una mano sul bordo della vasca da bagno e si frappone tra me e il resto rassicurandomi: “Ora pulisco tutto quanto”. Poi scende con noi, siede sulla panca di legno accanto ad Andrea, versa tre generosi bicchieri di rakija e chiacchiera, chiassosa e ammiccante. Dopo dieci minuti in cui Zora ha trovato ogni scusa per mettergli le mani sulle spalle o sulle cosce, Andrea approfitta di una breve pausa della matrona: “E’ lei – mi chiede – quella che ci sta pulendo la stanza?”.
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